All’uscita di Funeral (2004) è stato facile per tutti lodare e apprezzare gli Arcade Fire: Funeral è un album che ancora oggi suona fresco e innovativo, nonostante sia uscito nella prima, più florida e ormai passata fase dell’indie, carico com’è di anthem generazionali (Wake Up e Rebellion (Lies) su tutti, a mani basse tra i pezzi alternative migliori del passato decennio), di chitarre rugginose su cui Win Butler e Régine Chassagne liberamente scoprono i loro timbri particolari e intriganti, e di arrangiamenti insieme ricercati ed accessibili, un perfetto ponte tra art rock ed arena rock che poi diventerà quasi un marchio caratteristico del gruppo canadese.
Dopo esso, i fortunati Neon Bible (2007), The Suburbs (2010), album della svolta pop mainstream, e il meno accessibile Reflektor (2013) hanno definito maggiormente la ricetta degli Arcade Fire, fatta di contaminazioni via via più crescenti e pezzi cantabilissimi dalle sonorità barocche e creative, allargato sempre più il proprio bacino di utenza e delineato una discografia per molti perfetta, per altri comunque molto buona, che com’era prevedibile ha portato ad avere aspettative altissime per Everything Now, quinto album della band, uscito il 28 luglio 2017.
Una produzione importante, ingombrante (Thomas Bangalter dei Daft Punk) a accompagnare una palese svolta verso sonorità ispirate all’europop e un giustificato hype aumentano quindi le aspettative per il suddetto album, hype che si è ridimensionato nelle settimane di poco precedenti all’uscita del disco, con ben quattro singoli (Everything Now, Signs of Life, Creature Comfort, Electric Blue) che non hanno convinto appieno la fanbase della band.
I restanti nove brani di Everything Now presentano infatti ben poche differenze dai precedenti singoli dall’impatto altalenante, permettendoci quindi di classificare rapidamente l’album come un episodio minore, se non addirittura negativo, della discografia degli Arcade Fire: l’omonima Everything Now la fa da padrone, intro, pezzo trainante e persino reprise in chiusura per un brano dal sapore dub che ammicca pesantemente agli ABBA e diluisce ben tre diverse parti in poco più di cinque minuti, risultando a tratti confuso. Signs of Life continua ad ammiccare su di un seducente ritmo new wave contornato da tipici archi disco; l’atmosfera dance si fa spazio anche nell’anthem Creature Comfort, appesantito eccessivamente dai cori e i controcanti di Régine. I tre minuti scarsi di Peter Pan, riuscito esperimento world, vanno a costituire uno dei rari picchi dell’album, prima del divertissement Chemistry e dei due brani d’intermezzo Infinite Content. Segue il funk al femminile di Electric Blue ed una seconda parte in cui spicca positivamente la nervosa ballad elettronica in crescendo di Put Your Money On Me.
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Accanto agli arrangiamenti non entusiasmanti, fin troppo inseriti nello stile tipico del genere senza particolari contaminazioni, i testi: Everything Now è infatti disseminato di frecciatine e critiche più o meno nascoste (palesi in Infinite Content, ad esempio) verso Internet, la velocità con cui tutto si monta e si sgonfia in rete, l’eccessivo bisogno di avere tutto e subito, con un focus verso gli umani in quanto fruitori negativi e patologici del mezzo, come dichiarato dal tastierista Will Butler (fratello del frontman Win) a Rolling Stone; il tutto va a delinerare una certa idea di Everything Now come concept album, termine che, vedremo, è ormai croce e delizia delle produzioni alternative rock.
L’impressione che da l’album a un primo ascolto è appunto quella di una deriva pop, massimizzata dal fatto che il precedente Reflektor risultasse un lavoro decisamente meno accessibile per concezione (doppio album) ed influenze (elettronica, jazz e sperimentazione laddove oggi vi è un revival europop): nulla di criticabile, se non fosse che gli Arcade Fire, pur mantenendo l’attitudine al massimalismo barocco e alla costruzione di anthem ficcanti, hanno deciso di collocarsi in quella categoria di pop dalla longevità minima che brucia tanto e subito, che si esaurisce in pochi giorni e che dipende morbosamente dalla esposizione mediatica, e hanno deciso di farlo proprio con l’album che, sulla carta, presentava nei testi l’impegno maggiore, una critica all’Everything Now che paradossalmente si esaurisce in un paio di ascolti. I temi duri e pur trattati decentemente (basti vedere il testo di Creature Comfort, sulla propensione al suicidio) si rivestono di una patina danzereccia che va a limitarli pesantemente, a renderli brani da sottofondo musicale, non tanto per la ritmicità gioiosa che la musica fornisce ai pezzi, quanto per la mancanza di scelte stilistiche e sonorità ardite e intriganti, per un album e una band che della sperimentazione e dell’ambizione aveva fatto la propria bandiera. Slacciarsi dall’esaurita scena indie è positivo e tanto basta a Everything Now per arrivare alla sufficienza, ma a fronte di un pericoloso e puro revival disco sotto la scusa di messaggi impegnati, gli Arcade Fire dovranno sin da oggi stare attenti ai prossimi passi.
Laddove non bastasse l’album in se, la band si è inoltre prodigata per una clamorosa copertura mediatica al limite tra l’ironico e l’irritante ribadire il contenuto testuale del lavoro: come risposta rapida e clamorosa ai giudizi misti rivolti all’album, infatti, gli Arcade Fire hanno messo in commercio T-Shirt ironiche, pacchi di cereali, persino un fidget spinner USB col logo della band e, ultimo, ma più importante, un sito, Stereoyum (parodia dell’esistente Stereogum) in cui tra altri articoli ironici campeggia «Premature Premature Evaluation -Arcade Fire: Everything Now», un articolo in cui viene analizzato l’album prima dell’uscita, dando modo alla band di esporre e sdoganare preventivamente le critiche più banali e veloci all’album (come: «perchè ci sono tre canzoni con lo stesso identico titolo in scaletta?»).
A fronte di una tale massiva campagna di esposizione pubblica, e seguendo le più basilari regole della rete tanto messa al centro di Everything Now vien facile porsi un dubbio che per forza di cose coinvolge l’album stesso, essendo esso padre di tale campagna: per parlarne introduciamo innanzitutto il concetto di King Of Contents, termine base coniato nel Webmarketing in seguito all’articolo Content Is King di Bill Gates (1966) per definire l’importanza del contenuto unico ed originale nel successo di un sito web e, transitivamente, di un qualsiasi prodotto nell’internet attuale, in cui chiunque può produrre e condividere materiale.
L’aspetto più importante a cui un King Of Contents deve badare è la presentazione del messaggio, l’elemento testuale o multimediale che dirotterà le varie ricerche su di un determinato elemento. Per quanto riguarda gli Arcade Fire o altre band dai metodi comunicativi simili, il problema è semplice: qual è il confine tra l’essere King Of Contents e l’essere ucciso dal proprio contenuto? Le recensioni miste ad Everything Now e la crescente e rumorosa insoddisfazione del pubblico verso una sovraesposizione eccessiva che appesantisce ancor più l’ascolto di un lavoro non completamente brillante lascerebbe propendere propendere in questo caso per la seconda situazione, una irritazione generale che potrebbe rendere persino più inviso questo album, a poco più di due settimane dalla sua uscita, in un web che abitualmente condanna all’oblio i prodotti di cui non si ha voglia o bisogno di parlare.
Il caso degli Arcade Fire non è, come già detto, il primo in cui contenuto impegnato (dichiarato), attitudine concept e bontà del prodotto o spinte mediatiche non coincidono affatto, basti pensare, sempre in ambito alternative, alla clamorosa parabola discografica dei Muse, band a posteriori con un solo album davvero imprescindibile all’attivo (Origin Of Symmetry, 2001), molti buoni pezzi attorno a esso e il decadimento cominciato con The Resistance (2009) e culminato nell’ultimo Drones (2015), sulla carta ambizioso concept ancora una volta pregno di pensieri sulla deumanizzazione della società moderna e della militarizzazione al giorno d’oggi, in realtà deludente pastiche di chitarre nevrotiche (esaltanti, ovviamente, ma fini a se stesse) a cui Matt Bellamy ci ha abituato da tempo, armonizzazioni corali e massimalismo fine a se stesso accompagnati a testi che The Observer e Pitchfork sintetizzano chiaramente come «triti e confusionari» e «dall’ostinata insistenza di credersi profondi piuttosto che divertenti». Si spera solo che gli Arcade Fire non finiscano mai a questi livelli e che Everything Now, un album sufficiente, ma ostinatamente pubblicizzato come capolavoro di ingegno e poetica, si riveli semplicemente un episodio minore per una delle band a ogni modo più interessanti degli ultimi anni.
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