Alla fine di giugno la presidenza di Rodrigo Duterte ha compiuto un anno. Dalla sua elezione il Trump delle Filippine ha portato più volte alla ribalta il proprio paese (prima rimasto piuttosto in secondo piano nello scenario internazionale) fornendolo di una politica estera volta a rendere Manila un perno dei giochi che riguardano il Mar Cinese Meridionale. Sul piano politico interno s’è fatto conoscere per la politica notevolmente proattiva (per usare un eufemismo) nei confronti dei tossicodipendenti e della malavita filippina. La mano pesante dell’ex primo cittadino di Davao ha attirato le critiche di diversi paesi e di diverse organizzazioni umanitarie, ma non è altro che la replica su scala nazionale di ciò che già applicava nel capoluogo della sua regione natale.
Rodrigo “Rody” Roa Duterte nasce nel marzo del 1945 presso Maasin, figlio di un avvocato, Vicente, e di un’insegnante, Soledad. Il padre è molto attivo in politica: è stato sindaco di Davao e Cebu e governatore della provincia di Davao, la più meridionale dell’arcipelago filippino. Grazie alla sua attività la famiglia Duterte riesce ad appropriarsi di un capitale di relazioni importante con l’establishment politico a Cebu e a Davao che spianerà la via della politica al giovane Rodrigo, che nel frattempo studia dapprima Scienze Politiche per poi specializzarsi in legge e diventare avvocato. Duterte dimostra fin da giovane un temperamento particolare: prima di laurearsi partecipa a un conflitto a fuoco con un altro studente che lo apostrofò per le sue origini Visayane (una zona dell’arcipelago in cui la maggioranza degli abitanti proverrebbe dal Borneo, migrati ai tempi del collasso del regno Majapahit oltre cinque secoli fa).
La svolta per Rody arriva nel 1986, con la Rivoluzione del Rosario che portò alla caduta della dittatura del presidente Marcos (iniziata tredici anni prima, con la proclamazione della legge marziale e l’abolizione dei partiti politici). Con la rivoluzione, Duterte diventa vicesindaco di Davao d’ufficio grazie alla nomina da parte del presidente Corazon Aquino, mentre due anni dopo corre e vince la corsa elettorale per diventare primo cittadino, carica che ricoprirà per dieci anni. Già nei primi mesi dimostra un’attenzione particolare alle minoranze nominando due vicesindaci di etnia Moro e Ludan. Nel 1989 Duterte ha di nuovo la possibilità di dimostrare la propria durezza, nel corso delle trattative per la liberazione di un gruppo di fedeli protestanti tenuti prigionieri da alcuni fuggitivi dalla prigione di Davao. In tale occasione Duterte difende a spada tratta l’intervento militare il quale lascia sul terreno, oltre ai rapitori, anche cinque ostaggi.
Nel frattempo, il mandato di Duterte come sindaco di Davao inizia a tingersi di tinte via via più oscure. La sua estrema vicinanza con la polizia va a creare, nel corso del tempo, un polo di potere unico, a tal punto che si comincia a non distinguere più dove finisca l’ufficio del sindaco e dove inizi la polizia di Davao. Forte di tale assenza di contrappesi, parte della polizia della città mindanaoense comincia a violare non solo le leggi filippine ma persino i diritti umani nel corso dell’esercizio delle proprie funzioni: le testimonianze parlano di esecuzioni a sangue freddo di narcotrafficanti e spacciatori, in alcuni casi anche di tossicodipendenti. Con l’andare del tempo, data la complicità del sindaco, si hanno casi di alcuni poliziotti che diventano al tempo stesso sicari a pagamento. Davao registra un notevole abbassamento del tasso di reati, ma ciò è probabilmente dovuto alla connivenza di determinati reparti della polizia: nel frattempo, le accuse mosse da Amnesty International cercano di portare alla luce l’esistenza degli squadroni della morte di Davao. L’azione in chiave anticrimine compiuta nella sua città è valsa a Duterte il soprannome di “The Punisher”, affibbiatogli dalla rivista TIME.
Queste accuse cadono alla fine del 1998, quando Duterte, nell’impossibilità costituzionale di farsi rieleggere per a terza volta consecutiva come sindaco di Davao, si candida come rappresentante congressuale per la propria città, ottenendo facilmente la carica che tiene per tre anni. Nel 2001, infatti, torna a fare il sindaco della città mindanaoense. Duterte in seguito ammetterà persino la propria partecipazione alle azioni dei DDS (Davao Death Squads), salvo ritrattare tutto prima della propria campagna elettorale. La seconda era Duterte termina solo nel 2010, quando la figlia Sara si candida come sindaco (vincendo la competizione elettorale) e lui ottiene la posizione di vice sindaco al fianco della figlia.
Nel 2015 il Visayano decise di proporsi alle presidenziali nel caso in cui il candidato del PDP-Laban (Partido Demokratiko Pilipino – Lakas ng Bayan, Partito Democratico Filippino – Potere della Nazione) Martin Dino avesse ritirato la propria candidatura. Dino è sottoposto all’esame della commissione elettorale di Manila (Comelec) a causa di un errore burocratico che lo fa figurare come candidato alla carica di primo cittadino di Pasay invece che a quella di presidente e l’errore viene considerato abbastanza grosso da invalidare la sua candidatura. Il presidente di distretto di San Antonio presso Quezon deve cedere il passo a Duterte, che comunica ufficialmente la propria candidatura a fine novembre a un raduno di ex studenti dell’università di San Beda, che aveva frequentato in gioventù.
I primi sondaggi danno Duterte come vincitore, sopravanzando anche Grace Poe, che fino a quel momento era la grande favorita. Nel frattempo, nel partito emerge la candidatura di Cayetano come vice (le due cariche vengono elette con votazioni separate, pertanto i due possono appartenere anche a schieramenti diversi), con il quale Duterte condivide l’attività di promozione del federalismo e del decentramento nelle Filippine. Il primo comizio congiunto avviene a metà febbraio del 2016 a Tondo, quartiere della capitale. Durante la campagna elettorale, per attaccarlo, gli avversari hanno cercato di invalidare la sua candidatura sfruttando la non sussistenza dell’errore sulla candidatura di Dino, lo hanno attaccato per gli insulti rivolti a Papa Francesco I per aver bloccato il traffico di Manila durante la sua visita del gennaio precedente (le Filippine sono un paese dove la religione cattolica riveste una grande importanza nonostante alcuni sincretismi), le parole del vice contro il Messico («un posto non adatto ai turisti a causa delle continue rapine e dei rapimenti») e le pesanti affermazioni sulla missionaria stuprata e uccisa durante la già menzionata crisi dei sequestri di Davao del 1989.
Una delle peculiarità maggiori di Duterte risiede nelle sue opinioni anticlericali e tendenzialmente contrarie alla chiesa cattolica: considerando l’importanza della religione nelle Filippine, tale scelta di voltare le spalle all’elettorato di tale orientamento è stata considerata all’inizio come controproducente, salvo poi pagare quando sono stati gli altri candidati a doversi dividere la fetta. Tra i suoi punti di forza, in sede di campagna elettorale, vi è stata anche la capacità di offrire soluzioni semplici a problemi complessi (come quello dell’elevato tasso di crimine dell’arcipelago, da combattere esportando il modello che lui stesso aveva proposto a Davao). Tale linea d’azione ha finito per riproporre i medesimi problemi che si crearono a Davao, ma su scala nazionale: polizia fuori controllo, esecuzioni sommarie di narcotrafficanti o sospetti tali, ma soprattutto elementi delle forze dell’ordine che diventano sicari o che iniziano a sbrigare lavori su commissione dei privati.
Altro grosso problema che si è presentato a Duterte e che ha dovuto affrontare all’indomani del suo insediamento al Malacanang è quello della guerriglia interna, divisa essenzialmente in due filoni: uno politico e uno religioso. Quello politico concerne le azioni dei gruppi comunisti CPP (Communist Party of the Philippines)/NPA (New People’s Army)/NDF (National Democratic Front) ed è stato risolto inizialmente con un cessate il fuoco proclamato unilateralmente da Duterte durante il primo discorso sullo stato della nazione (SONA, State of the Nation Address) di luglio. L’offerta di pace venne accolta dai tre gruppi, ma i negoziati di pace si fermarono a febbraio di quest’anno a causa del rifiuto di Duterte di voler liberare 392 prigionieri appartenenti a questi tre gruppi.
La storia di Abu Sayyaf nelle Filippine è connessa a quella del terrorismo islamico in quanto vera e propria filiale di Al Qaeda prima e dello Stato Islamico in un secondo momento. Il gruppo nacque dopo la fine della resistenza islamica in Afghanistan contro l’Unione Sovietica negli anni ’80. Dopo la fine del conflitto uno dei membri delle Brigate Islamiche Internazionali di nazionalità filippina, Abdurrajik Abubakar Janjalani, tornò in patria e fondò il gruppo Abu Sayyaf, nome che trae origine dal suo onorifico “padre di Sayyaf”, dal nome del figlio di Abdurrajik. Nel 1998 il leader morì, segnando un profondo cambiamento nel modus operandi dell’organizzazione, che prima si basava sull’organizzazione di attentati e simili, mentre dopo la morte di Janjalani (avvenuta durante uno scontro a fuoco con le forze di polizia filippine) il gruppo è passato ai rapimenti di civili e alle rapine per potersi sostentare e portare avanti la causa indipendentista delle regioni meridionali dell’arcipelago, alcune delle quali sono a maggioranza musulmana (in particolar modo quelle dove gli abitanti appartengono per la più larga parte all’etnia Moro, di fede islamica).
Le vicende esterne alle Filippine (in particolare il passaggio di Abu Sayyaf dal network di Al Qaeda a quello dello Stato Islamico) contribuirono a un’escalation di violenza nella primavera del 2017, che si concretizzò con l’attacco alla città di Marawi. Duterte, che si trovava in Russia in visita di stato, proclamò immediatamente la legge marziale sull’intera isola di Mindanao, dove intanto gli attacchi del gruppo islamista colpivano simboli religiosi e politici (un prelato, ucciso all’interno della propria chiesa, e il capo della polizia di Malabang). La presidenza inviò l’esercito, che attaccò gli islamisti provocandone la fuga dalla città alla fine di giugno. La legge marziale a Mindanao rimarrà in vigore fino alla fine del 2017 e Duterte ha giustificato tale scelta con il dover ripulire le ultime sacche di resistenza fondamentaliste nella regione.
In politica estera, questo primo anno di presidenza Duterte ha segnato un solco piuttosto profondo con il resto dell’ultima storia filippina: da paese tradizionalmente filostatunitense, Duterte ha compiuto una decisa virata verso la Cina e verso la Russia, due paesi che stanno cercando di contrastare la visione unipolare del mondo che Washington propone dall’inizio degli anni ’90. L’ex sindaco di Davao è giunto agli insulti (alcuni anche molto pesanti) nei confronti di Obama prima e di Trump poi, con le relative diplomazie (in particolar modo quella americana) al lavoro per distendere il più possibile i rapporti tra Washington e Manila, data anche la presenza di dieci strutture militari (da basi a stazioni d’ascolto) statunitensi, cruciali per tenere traccia delle attività cinesi nel Mar Cinese Meridionale.
Da quest’ultimo specchio d’acqua provengono i maggiori motivi d’attrito tra Manila e Pechino. Una sentenza della Corte dell’Aja (peraltro precedente all’elezione di Duterte) basata sulla United Nations Conventions on the Law of the Sea stabiliva che la natura giuridica della secca di Scarborough era quella di un banco di sabbia (e non un’isola a tutti gli effetti, come la intendeva la difesa cinese). Sulla base di questa distinzione la secca generava una zona economica esclusiva minore rispetto a quella generata da un’isola economicamente sfruttabile. La sentenza non ha preso in considerazione le piattaforme costruite attorno al banco di sabbia, con le quali Pechino cercava di ampliare il terreno edificabile per trasformare la zona in un centro di controllo cinese sul Mar Cinese Meridionale. Il palazzo proibito, dal canto proprio, ha fatto sapere di non rispettare la sentenza, mentre a Manila ci sono tutte le intenzioni di voler far valere le proprie ragioni, specie considerando le acque pescose di cui le Filippine verrebbero private se Pechino facesse valere la zona economica come per una normale isola.
Duterte ha portato alla ribalta internazionale le Filippine, attuando una politica di potenza più a parole che nei fatti: come sempre quando si parla di una condotta di questo tipo, bisognerà vedere per quanto a lungo l’ex sindaco di Davao riuscirà a mantenere la faccia. Nel frattempo, alcuni giorni fa, ha apertamente insultato il dittatore nordcoreano Kim Jong Un e ha invocato un intervento internazionale per rovesciarne il governo, ponendosi in rotta di collisione non solo con lui ma anche con la Cina. I maggiori problemi sembrano apparire sul lato interno, dove Duterte ha avviato una campagna di eliminazione fisica dei criminali (almeno di quelli che costituiscono la manodopera delle organizzazioni illegali) che ha visto come involontari bersagli anche innocenti civili. Con l’elezione di Duterte la trasformazione delle Filippine in un potere regionale potrebbe essere appena cominciata.
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