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Cinquant’anni di psichedelia targata Pink Floyd: The Piper at The Gates of Dawn

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Daniele Mancini

Cinquant’anni fa i Pink Floyd pubblicano il loro primo LP da studio sotto l’egida della Emi: The piper at the gates of dawn. Ci sono date destinate a restare nella storia e a diventare, in casi specifici, degli spartiacque generazionali di incalcolabile valore: il 5 Agosto 1967 è una di queste.

I Pink Floyd, allora composti da Nick Mason, Richard Wright, Roger Waters e Syd Barrett, vivevano un periodo di grande ispirazione e mentre in America il movimento Hippy stava per esplodere con il suo fragoroso caleidoscopio di sperimentazione musicale, sessuale e di stupefacenti. A Londra la cultura underground a suo modo cercava di ricalcarne le orme, e lo faceva tramite uno dei locali simbolo dell’epoca, il leggendario Ufo Club.

I Pink Floyd, guidati dal visionario Syd Barrett, il 23 dicembre del 1966 cominciarono ad esibirsi settimanalmente all’Ufo Club. Di lì a poco ne divennero l’attrazione principale catalizzando l’attenzione della Londra alternativa dell’epoca, portando sul palco show sempre più sperimentali, con la proiezione di filmati psichedelici sulla band, passando per l’assunzione continuativa di LSD, fino all’avvolgente utilizzo della diffusione sonora (a 120 decibel!) in quadrifonia, con l’intento di trascinare la percezione sensoriale dell’ascoltatore verso lidi del tutto inesplorati.

In breve riscossero un enorme successo, divennero la band simbolo dell’underground londinese, e agli inizi del 1967 partirono per la loro prima tournée in Gran Bretagna, intervallata da sporadiche sedute di registrazione. Il risultato però fu disastroso: la loro musica così sperimentale e anticonformista fu bersagliata da pessime recensioni, nel migliore dei casi, e dal lancio di bottiglie e monete, nel peggiore.

I Pink Floyd però insistettero, e dalla penna fulgida di Barrett nel giro di poche settimane uscirono due singoli, Arnold Layne e See Emily Play: il primo, per quanto apprezzato dal pubblico venne osteggiato e censurato dalle televisioni e persino dai sedicenti precursori delle radio libere di Radio London, per via del tema giudicato scabroso (Arnold Layne parlava di un travestito che abitava nella Cambridge di Waters e Barrett), mentre il secondo fu un conclamato successo.

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Poco dopo, sotto la guida del tutor-produttore Norman Smith, incisero negli Abbey Road Studios il loro primo storico album, spalla a spalla con i dirimpettai Beatles che allora stavano ultimando Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.

Il disco

The piper at the gates of dawn, è frutto della mente folle e geniale di Syd Barrett, proprio come il nome dell’album, tratto da un capitolo della novella Wind In Willos di Kenneth Graham.

Barrett firma 8 degli 11 pezzi del disco e traccia in maniera indiscutibile i contorni di quella che era, e che poi sarà, la musica dei Pink Floyd: basti pensare a Matilda Mother, che nella sua intro ricorda in maniera inequivocabile uno dei più bei passaggi (Celestial Voices) della formidabile Echoes, che scriveranno solo anni dopo.

L’album si apre con Astronomy Domine: interferenze radio e uno dei riff più riconoscibili della loro discografia, la consacrano subito come un classico del repertorio floydiano, tra atmosfere lunari e lisergici intermezzi strumentali. È l’apice, per distacco, dell’intero lavoro, capace in 4 minuti di stravolgere la vecchia concezione di canzone pop rock.

A seguito della strumentale Lucifer Sam e della già citata Matilda Mother, ci sono due dei momenti più surreali e puramente psichedelici, con forme diametralmente opposte: la solare Flaming, introdotta da una breve intro con rumori sconnessi che generano una tensione subito risolta nel sogno (il flaming è una sorta di allucinazione provocata dall’LSD), e Pow R. Toc H. brano completamente privo di struttura, un crescere catartico che trascina la calma intro verso uno sviluppo sempre più intenso, fino alle più cupe atmosfere floydiane, risolvendosi in una chiassoso sovrapporsi di voci stridule. Quest’ultimo, per quanto firmato da tutti e quattro i componenti della band, è forse il più Barrettiano tra i brani dell’album.

Take Up Thy Stethoscope And Walk per quanto anch’essa psichedelica, ci riporta in un mondo un po’ più vicino al rock, ma solo per un breve tratto, dato che il pezzo successivo è Interstellar Overdrive: c’è da dire che i Pink Floyd suonarono diverse volte in quel periodo insieme ai Soft Machine, finendo inevitabilmente per influenzarsi a vicenda, e questo probabilmente è uno dei pezzi che più li avvicina, per quanto la band di Canterbury sia già più orientata ad una visione progressiva, rispetto alla folle sperimentazione dei Pink Floyd. Particolarissima è la coda del brano, in cui l’ascoltatore è soggetto ad improvvisi cambi di volume o addirittura a temporanei silenzi, apprezzabili al massimo solo in versione stereo (o meglio ancora in quella quadrifonica).

The Gnome, Chapter 24 e Scarecrow conducono in un mondo magico, fino alla chiusura del disco affidata a Bike, che termina in un trionfo di rumori meccanici in stile Time, del futuro Dark Side of the Moon.

Il disco è sconcertante, diverso, allucinato e sorprendentemente inquadrato. Quasi una visione dal futuro o meglio dallo spazio, un mistico intrecciarsi di space rock, psichedelia e progressive, con sfondo ora tetro e ora sognante, in un trionfo di anarchia ordinata, stupendamente architettata dal diamante pazzo di Cambridge, Barrett, che in un solo album consegna le chiavi dell’ immortalità artistica a Mason, Wright, Waters e al suo futuro sostituto Gilmour.

Col senno di poi oltre che il primo album dei Pink Floyd, con The piper at the gates of dawn, sembra quasi di ascoltare l’ouverture di quella che sarà la loro musica negli anni avvenire, un teaser di inestimabile valore artistico musicale, per chi lo ascolta e per chi lo ha suonato. I Pink Floyd mai si tireranno indietro dal riconoscere Barrett come parte fondamentale e indispensabile per lo sviluppo della loro arte.

Influenze

Negli anni, in molti seguirono le orme di The piper at the gates of dawn: i sopraccitati Soft Machine con il loro omonimo primo disco, gli eccentrici Gong di Flying Teapot e in alcuni passaggi anche i Gentle Giant di Octopus. Ma come già detto, questo fu un album di straordinaria importanza soprattutto per i Pink Floyd, che collaborarono solo per un altro disco — seppur in maniera diametralmente opposta alla centralità che occupava in questo lavoro — con Syd Barrett, segnando la fine della sua avventura con la band e probabilmente la fine anche della sua lucidità mentale, sempre più offuscata dall’LSD.

A distanza di 50 anni la musica ha generato decine di generi, a loro volta stratificati in altrettanti sottogeneri e solo in alcuni frangenti band di cartello: i Radiohead di Ok Computer, ma soprattutto di Kid A, a loro modo si rifaranno, seppur in maniera piu ambient e con innesti elettronici, ad alcune di quelle atmosfere psichedeliche, senza tuttavia mai replicarne la piena essenza che nel 1967 imperversava con i Beatles di Sgt. Peppers Lonely Hearts Club Band, gli americani Jefferson Airplane con After Bathing at Baxters e soprattutto con i Pink Floyd di The piper at the gates of dawn. Tanti auguri “pifferaio”.

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Daniele Mancini

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