Il cinema non abbonda di buoni film incentrati sull’anoressia nervosa. Ciò può sorprendere: perché un disagio che riguarda proprio il corpo e la sua immagine alterata non dovrebbe incontrare un’arte visuale come quella cinematografica, che del corpo ha sempre fatto un mezzo privilegiato per trasmettere la gamma dei sentimenti umani? I motivi sono molteplici. Ci sono delle ragioni performative: per un attore non è facile incarnare un personaggio anoressico senza filtri, dal momento che sottoporsi a diete restrittive per raggiungere una forma fisica sottopeso può comportare molti rischi. Ci sono anche delle ragioni di disinformazione: rispetto alla dipendenza da droga o alcol, l’anoressia è un male più oscuro per chi non ne soffre, di difficile comprensione ed empatia, tanto che molti lo riconducono erroneamente a una superficiale e infantile vanità. La difficoltà più delicata nel portare sullo schermo l’anoressia però risiede nell’esposizione pericolosa di immagini di corpi emaciati. Le persone che soffrono di DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare) sono fortemente sensibili all’immagine dei corpi altrui, per via della scarsa autostima, del senso di competizione legato e della paura di essere giudicati.
Nel corso degli ultimi decenni i media hanno spesso posto come criterio di bellezza femminile una linea magra, slanciata, dove non c’è neanche un chilo di troppo, fino alle degenerazioni scheletriche avvenute nel campo affine della moda, che infatti solo negli ultimi anni ha cominciato a promuovere maggiormente un corpo femminile più sano e generoso. Di conseguenza proprio i corpi esposti dai media nel culto della donna magra hanno causato un incremento vertiginoso dell’anoressia, in cui le persone affette percepiscono questi modelli come tristemente irraggiungibili e come motivo di una personale e profonda inadeguatezza.
Tuttavia anche il fenomeno inverso, cioè quello del cinema o della televisione che espongono corpi e persone affetti da DCA con un intento informativo, provoca spesso reazioni indesiderate nel suo pubblico. Infatti molti adolescenti affetti da anoressia nervosa, grazie a siti pericolosi come Pro-Ana, hanno trovato una propria comunità in cui diffondere immagini di corpi magri da porre come riferimento (gli stesse utenti definiscono il proprio comportamento con il termine thinspiration). In questo repertorio si inseriscono anche liste di film e programmi televisivi che parlano di DCA al fine di giudicarli minuziosamente. Anche se quest’ultimo può sembrare un segno di coscienza del proprio disturbo volto al miglioramento, spesso i programmi citati come riferimento sono considerati un ricettacolo di ulteriori immagini e di comportamenti in cui identificarsi, usando però le testimonianze altrui come un’occasione di consiglio deviato.
Il cinema, pur non pullulando di buoni esempi, ha già dato un suggerimento su come raggirare quello che è un paradosso: mostrare con grafica realistica il corpo emaciato di un attore, rischiando di alimentare la cultura che si sta criticando. Todd Haynes per il suo film biografico Superstar: The Karen Carpenter Story (1987) aveva portato sullo schermo non attori in carne ed ossa, ma bambole Barbie, che simboleggiavano una diffusione nei media di corpi femminili irrealistici. Su di esse poi aveva lavorato, imprimendo un’angoscia e dei disagi psichici crescenti. Oggi sarebbe inutile copiare pedestremente le soluzioni stilistiche di Haynes, ma il regista a suo tempo aveva mostrato di poter sfruttare il proprio mezzo visuale senza che esso gli si ritorcesse contro.
Marti Noxon non ha seguito una direttiva simile. Infatti medici ed esperti di DCA, al momento della sola diffusione del trailer dell’esordio registico di Marti Noxon, To The Bone (2017), hanno espresso una sincera preoccupazione. Il film racconta di una ragazza ventenne, Ellen, che a causa del peggiorare della sua anoressia nervosa viene ricoverata presso una clinica privata. Nel trailer si allude già ad un’esposizione grafica del corpo della protagonista. La sua interprete, Lily Collins, ha voluto sottoporsi a una dieta per raggiungere il peso richiesto dal suo ruolo. L’attrice ha raccontato la sua esperienza diffusamente, rassicurando però di avere intrapreso un percorso in cui è stata seguita con la massima cautela, in modo da non ricorrere in gravi errori che compromettessero la sua salute.
La regista e l’attrice concordano su un punto: l’esposizione del corpo nudo o semi-nudo della protagonista in alcune scene del film era necessaria per il suo percorso psicologico. Un punto innegabile è che una persona anoressica non riesce a vedere il proprio corpo per quello che è: un ammasso di ossa spettrale. Questo disturbo infatti è accompagnato da comportamenti ossessivi, dove l’esposizione allo specchio può essere sin troppo frequente e focalizzata su un dettaglio del corpo invece che il suo inquietante complesso. Questi piccoli dettagli possono essere la circonferenza delle braccia che, come si dice nel film, «non dev’essere mai più grande di un dollaro d’argento» oppure una piccola rotondità dei fianchi, della pancia o dei glutei del tutto immaginata. In alcuni momenti importanti per il percorso di Ellen, poter vedere il proprio corpo con fulminea lucidità è scioccante. Destabilizza lo spettatore, scombussola la sensibilità dei più fragili e coinvolti direttamente dalla malattia. Tuttavia nella prospettiva della regista il realismo grafico adottato era utile perché una verità “nuda e cruda” fosse messa davanti agli occhi della protagonista e coincide difatti con il fondo mortifero da cui risalire.
To the Bone forse non ha evitato alcune controversie che si attirava già dalle sue premesse, ma non ha mancato nel suo intento grafico di portare una resa più conscia della media, grazie anche al trascorso biografico di Noxon e Collins. Essa inoltre non è mai gratuita, ma è associata a momenti estremamente drammatici come l’aborto spontaneo di una paziente.
Netflix, che ha acquistato i diritti per la distribuzione di To the Bone, si sta facendo sempre più promotrice di prodotti mediatici su disagi difficili e molto vicini al suo numeroso pubblico adolescenziale. L’esempio più popolare è stata la recente serie tv Thirteen Reasons Why, che ha affrontato il tema del suicidio e del bullismo con immagini grafiche altrettanto forti. La serie è stata un prodotto a sua volta controverso, specialmente per la pericolosa visione che ha offerto del suicidio. Ha rischiato attraverso il personaggio di Hannah di non rendere adeguatamente la psicologia di questa realtà crescente e grave.
In To the Bone il pericolo di presentare un personaggio dalla psicologia inadeguata rispetto al suo disagio non accade. Non si può pretendere di certo che questo film narrativo risponda a un target più selettivo di quello che si propone. Non presenta tutte le fasce etniche affette dall’anoressia, pur inserendo tra i personaggi secondari della clinica una ragazza afroamericana. Non pone il proprio focus principale su fasce di età differenti da quella più comune, cioè gli adolescenti (d’altronde tra di essi c’è la percentuale più alta di insorgenza della malattia). Risulta però molto difficile pretendere da un film di presentare il problema a 360 gradi senza escludere alcunché. Con la diffusione di questi prodotti Netflix intende rivolgersi a un pubblico non specialistico, sensibilizzandolo ai problemi affrontati. Il film, pur risultando semplificato per gli esperti del settore, espone dei punti principali, cruciali e importanti per la comprensione perlomeno sommaria di questo disagio. Guardando le statistiche del paese di produzione, gli Stati Uniti, emerge infatti che la frequenza dell’anoressia si sta sempre più intensificando, coinvolgendo in percentuali crescenti anche la popolazione maschile e quella infantile (aumentano i casi tra gli otto e i quattordici anni). In Italia la sua insorgenza è altrettanto preoccupante.
Uno dei punti di partenza è che questo male, che affligge la protagonista, ha la sua origine in un profondo disagio psicologico e su di esso bisogna scavare. All’apertura e lavoro al riguardo seguirà un rapporto con il cibo più sano. Infatti lo specialista che prende in cura Ellen, il dr. Beckham (Keanu Reeves), segue una via affermatasi negli ultimi anni, la psicoterapia. Quest’ultima ha un approccio diverso rispetto alla terapia nutrizionale, che si concentra sulla gravità dello stato fisico dei propri pazienti, forzandoli ad assumere un certo numero di calorie al giorno per riacquistare il normopeso. Essa da sola spesso ha fallito, perché i pazienti si limitano a eseguire gli ordini per uscire al più presto e riprendere il proprio regime.
Il film comunque non raffigura la tipica terapia adottata per i DCA: non è affatto comune che la struttura ospitante i pazienti sia un edificio residenziale e non una struttura ospedaliera. Inoltre tratta il provvedimento nutrizionale con leggerezza, forse nell’intento di marcare il vantaggio della psicoterapia. I pazienti ricoverati infatti vengono inquadrati in una scelta del tutto indiscriminata sui propri pasti. Ciò che però sovrasta i vari disaccordi sui dettagli della clinica è che alcuni punti perseguiti dal dr. Beckham sono importanti e veri.
Le persone affette da anoressia nervosa si contraddistinguono subito per un bisogno di controllo sul proprio corpo, che si trasferisce in pensieri ossessivamente rivolti al cibo e piccoli, continui rituali di gestione di esso. La protagonista Ellen infatti viene considerata una campionessa di calcolo mentale delle calorie, un segno molto comune della malattia. I personaggi secondari presentano altre particolarità: sminuzzare il cibo protraendo il pasto per molto tempo, o, come nei casi affini di bulimia, mangiare per poi autoindursi a rigettare con studiate e raffinate tecniche. Inoltre tutti praticano una continua attività fisica, ma non per mantenere un corpo sano, bensì per inseguire un’immagine di magrezza ormai fuori da ogni limite. Questa mania di controllo rivolta a oggetti tangibili, come il corpo o il cibo, tappa una paura paralizzante per qualcosa di meno palpabile, un mondo circostante complesso e con relazioni interpersonali ostiche.
Contrapponendosi a questa matassa fumosa di pensieri monomaniacali, il dr. Beckham deliberatamente non parla di cibo. Vuole invece conoscere la situazione familiare della giovane ragazza. In molti casi infatti questo disturbo psichiatrico nasconde un rapporto critico con i propri cari. La scelta di concentrarsi su un caso di anoressia in età adolescenziale solleva anche delle difficoltà nella crescita. Sopraggiunge una fase vitale che invita l’individuo a compiere le prime scelte autonome e di portata importante. Irrompe un cumulo di paure di inedita intensità da cui si cerca di fuggire. «What you crave is the numbing of the thing that you don’t want to feel» dice un paziente del film. Non di rado le testimonianze di chi ha vissuto la malattia in età giovane riportano un senso di smarrimento, di abbandono a se stessi, che concretamente accade nella vita familiare della protagonista, dove i genitori sono lontani e sempre assenti. Noxon, nella volontà di rendere i personaggi familiari fuori dal comune, inserisce in scena addirittura tre madri – la madre biologica, divorziata e ora in una relazione con un’altra donna e poi l’eccentrica moglie del padre – e complica inutilmente il quadro, mettendo più carne al fuoco del necessario. Centra però due punti tristemente ricorrenti. I familiari, invece che venire incontro a Ellen cercando di capire la sua infelicità, si mostrano ignoranti, invitandola semplicemente a mangiare. In più cercano capri espiatori per la sua situazione attuale, ipotizzando a chi si debba dare la colpa. Questo è un meccanismo riconosciuto come dannoso anche dal dr. Beckham: non si deve parlare affatto di colpe. Ellen e gli altri infatti si sentono continuamente colpevoli, specialmente se ci si rivolge a loro come se fossero un “problema” e non una “persona”. Sentono la colpa della preoccupazione che causano negli altri, senza riuscire però a relazionarsi con loro, a causa di un senso profondo di incomprensione, depressione e isolamento. Soprattutto sentono la colpa di una qualsiasi trasgressione al proprio regime di difesa dal mondo. Questo infatti può accadere semplicemente se mangiano un biscotto in più rispetto ai minimi calorici che apportano ogni giorno.
Questo focus distruttivo sul proprio corpo alla ricerca di una traviata perfezione evidenzia un nodo focale: il bisogno di essere amati. Noxon sottolinea questo punto, riallacciandosi al discorso familiare. Infatti nei momenti decisivi si concentra particolarmente sul rapporto madre-figlia, rifacendosi a una discussione da tempo avviata su quanto i DCA possano nascere in seguito a delle mancate cure nutrizionali e affettive nell’età dello sviluppo. C’è una scena apparentemente bizzarra per molti: il momento in cui la madre afferma di voler provare a ricucire i suoi errori nell’infanzia di Ellen, stringendola a sé e allattandola con un biberon. La madre parla di un dettaglio non inaspettato per chi si occupa di questo campo, cioè l’aver sofferto di una depressione post-partum, allontanando la figlia nell’età più bisognosa e delicata. La scena, che insieme alla successiva sequenza di sogno costituisce la parte simbolica del film, evidenzia una possibile risalita dal male oscuro della protagonista. Si mostra una tenda in cui le due si rifugiano per un inedito momento di intimità esclusiva. Essa è immersa nel buio, in linea con il baratro della protagonista. Proprio in questo luogo e in questo momento si compie di un gesto di profondo affetto, un grembo materno verso cui ritornare per poter risistemare qualcosa di rotto dentro se stessi, uno di quei pezzi sfaldati che ha portato poi a precipitare nella malattia (inutile dire che sia l’unico). Questo modesto atto di ricucitura dà un rilassamento e l’atto di abbandono mostra ancora più il dolore ora indifeso. L’amore dà accesso così all’altro lato dell’esperienza umana, cioè i suoi squarci di calore positivo e bellezza, al di là dell’inevitabile dolore che si incontra nel proprio percorso di vita.
Beckham su quest’ultimi punta per far intravedere ai propri pazienti una luce, un motivo positivo, ridirezionando tutta quella tenacia con cui i suoi pazienti inseguono i propri obiettivi verso qualcosa che sia effettivamente benefico. Considerando quanto depressione e anoressia vadano a braccetto, il ruolo ben strano del personaggio di Luke (Alex Sharp) apporta una sorta di umorismo nero del malato consapevole delle proprie idiosincrasie. È pregevole che si inserisca nel gruppo dei pazienti ricoverati un ragazzo, presentando così il fenomeno meno conosciuto dell’anoressia maschile. Questo elemento non viene sfruttato con uno specifico intento informativo approfondito, perché vene semplicemente inglobato in un discorso generale. Tuttavia non è il vero difetto del personaggio, perché il punto più critico è averlo caratterizzato presentando l’ennesimo ritratto del manic pixie dream boy. Non se ne sentiva il bisogno, in linea con la generale estrosità ricercata da Noxon. La regista però sfrutta questo rapporto sentimentale in crescita per dare un’altra fonte di prezioso calore umano alla protagonista. Con essa le si dà un’altra ragione per risalire alla superficie e combattere per la propria vita e per chi le vuole bene.
La figura del terapeuta qui non dà risposte precise, risolutorie né facili. Ellen vede una luce, riesce finalmente a trovare una motivazione per tentare una risalita, ma il film non intende rassicurare lo spettatore sulla sua guarigione né lasciare a intendere che questa si attui semplicemente in seguito a una buona intenzione. Non c’è una cura definitiva né si può dare per certo che non ci saranno ricadute. Non c’è nemmeno la certezza di un percorso fatto e finito da compiere per arrivare alla guarigione, ma si procede per tentativi. Altri personaggi infatti avevano già manifestato uno spirito volenteroso e speranzoso, ma si sono ritrovati temporaneamente sconfitti per complicanze fisiche, ad esempio. Gli incidenti di percorso non sono esorcizzati. Il passo importante che costituisce proprio la luce in risalita di Ellen è avere coraggio e affrontare le proprie paure. Facendo così, potrà accettare l’aiuto offerto dal terapeuta e tentare di volersi bene.
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