Il genere horror affascina intere generazioni da oltre un secolo. Il cinema e la letteratura hanno visto sbocciare il genere ben prima del Novecento, infatti possiamo fare risalire il primo film horror al 1896 con il cortometraggio Le manoir du diable di Georges Méliès, mentre la letteratura ha visto fiorire le tematiche del terrore con il romanzo gotico: Frankenstein di Mary Shelley, Il Vampiro di John William Polidori e Dracula di Bram Stoker sono solo alcuni esempi. Il survival horror, per ovvie ragioni, data la “giovinezza” del medium a cui appartiene, cioè i videogiochi, ha trovato terreno fertile dagli anni Novanta in poi. La particolarità sta nel fatto che nonostante i videogiochi abbiano avuto meno tempo sono riusciti, grazie alla loro maggior malleabilità e alla capacità di adattamento, a offrire al pubblico di riferimento prodotti che hanno nel tempo migliorato e ampliato le potenzialità del genere.
Tralasciando esperimenti più o meno riusciti o titoli che a malapena sfioravano il genere qui analizzato, possiamo affermare con certezza che la nascita canonica del survival horror viene fatta risalire al 1992 con Alone in the Dark, titolo di Infogrames con protagonista l’investigatore privato Edward Carnby. Le meccaniche erano molto più simili a quelle di un’avventura grafica in cui era possibile far svolgere un’azione al personaggio selezionandola da un menu testuale. La serie ha ricevuto nel tempo vari aggiornamenti sul piano del gameplay fino a renderla, nell’episodio The New Nightmare del 2001, più simile ai giochi che hanno poi definito in maniera più precisa il genere del survival horror.
Se è vero che il titolo Infogrames ha dato i natali al genere e ha avuto il merito di iniziare i gamers più coraggiosi al genere dell’orrore, va anche detto che le tematiche affrontate si spingevano in campi a cui si era ancora poco avvezzi, come la magia nera e l’occultismo. Musiche e atmosfera generale, però, furono da subito di grande impatto emotivo e fecero sorgere una voglia nascosta di terrore e di sensazioni forti. Questa voglia fu saziata dalla Capcom, software house giapponese che nel 1996 sviluppò Resident Evil. Facciamo prima un passo indietro di quasi trent’anni: è il 1968 e sta uscendo nelle sale un capolavoro assoluto del cinema horror, La notte dei morti viventi di George A. Romero. Da quel momento il fascino della paura divenne più tangibile, meno legato a elucubrazioni mentali. I morti riprendevano vita e avevano un solo scopo: mangiare i vivi.
La saga zombie prese piede con la stessa velocità di un virus e nacque una vera e propria “zombimania”. Se c’è una cosa che i videogiochi sanno fare bene è rendere partecipi gli individui a situazioni eccezionali. Un’apocalisse zombie è senza dubbio una di queste e così Capcom, nella persona di Shinji Mikami, decise che le persone non potevano più stare a guardare mentre gli altri si facevano massacrare da esseri fatti di carne marcescente. In Resident Evil prendiamo le redini, di volta in volta, di agenti della S.T.A.R.S., un reparto speciale anti-terrorismo, che si vedono costretti a fronteggiare una minaccia senza precedenti: i virus progettati dalla Umbrella Corp. per scopi militari hanno trasformato gli umani in zombie e molti esperimenti hanno portato alla creazione di mostri abominevoli – quelli che nella saga vengono definiti Bio Organic Weapon.
Un terrore più action impersonato da agenti speciali preparati e armati. Il titolo è un survival horror per le meccaniche che conducono il giocatore in ambienti ostili e pieni di insidie, ma non è solo questo, non può essere solo questo. Perché Resident Evil è uno dei punti di riferimento del genere? Perché racconta timori atavici, paure primitive, quindi presenti dentro di noi da imperitura memoria. Il termine zombie deriva dalla religione voodoo, secondo la quale è possibile, attraverso un rito magico effettuato da uno stregone detto bokor, rinchiudere l’anima di un vivo portandolo a uno stato di incoscienza simile alla morte. Il “defunto” può essere poi assoggettato e reso schiavo. La religione è, quindi, il motore di queste credenze, e su cosa fa leva spesso la religione? La paura.
Stando a ciò che apprendiamo dal saggio dell’antropologo James G. Frazer, La paura dei morti nelle religioni primitive, ciò che ci atterrisce inconsciamente della morte è la convinzione che essa possa non essere l’ultimo passaggio della nostra esistenza. Esistono molti riti attuati da tribù indigene che hanno lo scopo di impedire ai morti di tornare a infastidire i vivi. Gli jakuti (popolazione della Repubblica Sacha, una regione siberiana della Russia), dopo aver seppellito i propri defunti, accendono fuochi sulla via del ritorno a casa per impedire al demone di seguirli (il rito è presente in una sezione di gioco dell’indie Kholat, la cui storia riprende le vicende dell’incidente del passo Dyatlov).
Gli aborigeni del Queensland, invece, legano le gambe del defunto al resto del corpo per far sì che il compianto non scappi dalla propria sepoltura. Possiamo affermare allora che Resident Evil porta su console una paura primitiva che inconsciamente viene fuori anche dagli individui più razionali e assennati. Potrebbe sembrare una forzatura mettere sullo stesso piano un videogioco e la cultura religiosa di popolazioni di cui sappiamo davvero pochissimo, ma il pensiero umano porta anche a queste digressioni che cercano di indagare più a fondo. Se poi volessimo semplificare molto le cose, potremmo dire che gli zombie rendono più materiale la possibilità di sconfiggere il male e, di conseguenza, la paura che ne abbiamo. Un colpo alla testa e via, è tutto finito. È spiacevole quando il terrore diventa etereo, perché a quel punto diventiamo più vulnerabili. È proprio sull’immaterialità che invece gioca un’altra saga che ha ribaltato i canoni del survival horror: Silent Hill.
L’horror targato Konami punta su altri tipi di sensazioni. Con Silent Hill l’orrore si insinua nei ricordi, nelle pieghe più celate del proprio intimo. Argomentare in maniera esaustiva i temi trattati dalla saga è impossibile in un singolo approfondimento. Su Silent Hill sono stati scritti innumerevoli saggi e ancora oggi nessuno può dire di aver trovato una chiave di lettura esatta del gioco horror in questione. In un precedente articolo, affermammo che l’evoluzione dei videogiochi è pari al progresso del pensiero umano, perché risponde alle necessità individuali. Ebbene, Silent Hill è un upgrade del survival horror in quanto specchio su cui si riflette il fascino del terrore, un fascino che dall’alba dei tempi è irresistibile per l’animo umano.
I termini “specchio” e “fascino” non sono messi lì per caso. Un elemento che ritorna ciclicamente in Silent Hill è quello dei protagonisti che si specchiano e, durante la loro terribile avventura, guardano dentro loro stessi, riconoscendosi sia come vittime sia come carnefici. Infatti, il fascino del male sta proprio nel fatto che esso è insito nella natura umana. Nessuno può dire di essere del tutto buono e di non aver mai avuto pulsioni particolari: odio, disprezzo e rancore non sono sentimenti eliminabili. In Silent Hill 2, la scena iniziale vede il protagonista James Sunderland guardarsi allo specchio in un bagno di servizio. Un gesto abituale e banale fatto prima di andare alla ricerca di Mary Shepherd, sua moglie. La donna gli invia una lettera in cui gli dice di volerlo incontrare al loro “posto speciale”. Tutto bene, se non fosse che Mary è morta da un bel pezzo.
James non indagherà solo su questa strana faccenda, ma anche sul suo animo profondo facendo tornare a galla ricordi sopiti e colpe che il suo inconscio aveva deciso di omettere. James, quindi, in quel bagno non ha visto solo il marito innamorato che con tanta pazienza è stato a fianco della moglie durante la malattia, ma anche l’individuo frustrato e ormai stanco delle condizioni della donna. James ha guardato negli occhi la frustrazione che può portare un uomo a gesti che non avrebbe mai immaginato di poter compiere.
Ancora più significative sono le scene presenti in Silent Hill 3. Heather Mason è una ragazzina che cova dentro di sé un terribile segreto anche a lei sconosciuto. È proprio il riflesso della giovane ragazza a darci indizi sulla sua vera natura. Quel che sappiamo di Heather Mason è che soffre di eisoptrofobia, paura persistente, irrazionale e ingiustificata degli specchi, o di vedersi riflessi in uno specchio. Se si entra in una stanza del Brookhaven Hospital e si fissa lo specchio lì presente la protagonista muore, mentre l’immagine riflessa mostrerà la vera natura della stessa. Ancora una volta guardare se stessi porta a rivelare una natura malvagia e insospettabile. La cosa viene confermata in un criptico dialogo tra Heather e Vincent Cooper:
V: «You feel excited when you step on them and snuff out their lives»
H: «Are you talking about the monsters?»
V: «Monsters? They look like monsters to you?»
Il survival horror è un genere in grado di fare da tramite tra l’elemento ludico e le reazioni psicologiche che vengono innescate nel momento in cui si inizia una partita. Il fattore psicologico è fondamentale durante una sessione di gioco perché va ad influenzare il nostro modo di approcciare al titolo. Un esempio di questo lavoro psicoanalitico svolto dal videogioco horror è Until Dawn, anche se il titolo in questione merita un approfondimento a parte che verrà presentato nelle prossime settimane.
Scappare o combattere? In alcuni survival horror non è possibile scegliere. L’unica possibilità di sopravvivenza è la fuga. Come nella realtà, affrontare la paura presenta molti ostacoli. Il fattore fuga è sempre stato caro ai giochi horror che spesso lo inseriscono come unico modo per andare avanti. Su PS1 e PS2 titoli di questo tipo proliferavano, basti pensare a Haunting Ground, Clock Tower 3 e Rule of Rose. Le protagoniste di questi titoli sono tutte ragazzine indifese alle quali si para davanti un mondo crudele fatto di aberrazioni e atrocità. Il tema della fuga è presente anche in titoli più moderni come Outlast, Alien Isolation e Soma. In quest’ultimi casi i protagonisti avrebbero anche la possibilità fisica di difendersi, ma non lo fanno.
Ecco, dunque, un altro elemento che ha portato alla fortuna del survival horror: riuscire a scappare dalle proprie ansie e inquietudini. Sarebbe meglio combattere una paura piuttosto che fuggire da essa. Purtroppo non sempre si ha la forza d’animo per farlo e spesso questa situazione porta a sentirsi inermi e, quel che è più importante, conduce in una stanza da cui non si è in grado di uscire perché dietro ogni porta se ne trova un’altra, trasformando la fuga in un tour infernale. Il survival horror permette a chiunque di trasformare la propria vulnerabilità in un’occasione di fuga definitiva. Una volta arrivati ai titoli di coda si può finalmente dire: «Sono riuscito nel mio intento. La mia fuga è terminata».
Il survival horror presenta dunque un fascino a cui è impossibile sottrarsi. Il genere diventa un rito apotropaico contro le paure più recondite: un elemento di indagine profondo e schietto del proprio Io e una sorta di placebo che contrasta le paranoie immobilizzanti della mente.
I fondi di investimento sono strumenti finanziari piuttosto variegati, i quali consentono di disporre di…
Avere a disposizione gli strumenti giusti per navigare la rete in sicurezza è certamente un…
L'iPhone 13 è uno degli smartphone più venduti ancora in questo momento, nonostante tutti gli…
Stiamo vivendo un'era di profondi cambiamenti, legati soprattutto al digitale e alle nuove tecnologie. Ogni…
Whatsapp, con questo metodo potrai trasformare i tuoi vocali in testo e leggerli, invece di…
TikTok ha deciso di introdurre un'importante novità ripresa da YouTube. Un cambio di rotta per…