«Tutti dicevano che per avere successo nel cinema ci volevano grandi seni e un visino fotogenico come Martine Carol: io ero magrolina e avevo il viso che ho». Infatti i suoi tratti fisici non appartenevano a un prototipo di bellezza facile né immediato. Si truccava poco, cosicché il suo aspetto naturale era lì, come una tranquilla e libera esposizione di sé. Aveva un volto tondeggiante con delle guance consumate, gli angoli della bocca all’ingiù e degli aloni scuri sotto agli occhi. Soprattutto aveva uno sguardo inconfondibile, grazie al quale non ha mai dovuto invidiare le sue colleghe, spesso più banali, superficiali, stereotipate. Era Jeanne Moreau, morta il 31 luglio di quest’anno. È stata attrice, regista, perfino cantante. Oggi la ricordiamo specialmente per le sue straordinarie performance, che le sono valse la stima di grandi registi come Jean-Luc Godard, François Truffaut, Louis Malle, Jacques Demy, ma anche Rainer Werner Fassbinder e Orson Welles. Quest’ultimo addirittura la riteneva la più grande attrice in circolazione.
Che cosa aveva di così speciale questa donna di modesta statura, spesso dall’aria malaticcia? E perché la sua apparizione nella storia del cinema internazionale fu così importante?
Quando nacque una stella
Nonostante l’aspetto distinto e raffinato, Jeanne Moreau non crebbe affatto nella bambagia. Nacque nel 1928 a Parigi. Suo padre era un ristoratore di origini contadine, sua madre una ballerina inglese del Folie-Bergére. In seguito alla crisi economica del 1936, visse gran parte della sua gioventù in povertà, al quinto piano di un palazzo di Montmartre. Era spesso malata, reclusa a letto da lunghe convalescenze. Durante queste stasi costrette sviluppò l’amore per la letteratura, leggendo come un’ossessa tomi invidiabili, ad esempio i libri di Zola a soli tredici anni. Attraverso questi maturò l’amore per la parola, specialmente quando decantata ad alta voce. Fiorì soprattutto un intelletto poetico, una voglia di non limitarsi ad esperire arte, ma a farla. Voleva uscire da quelle quattro mura, soffocata dal recidivo puzzo di cucina, che diventò il simbolo di una condizione finanziaria da cui liberarsi al più presto. Ciò non era in contrasto con i voleri dei genitori, anche se quest’ultimi immaginavano un miglioramento economico diverso, magari con un posto da impiegata. L’idea di rendersi indipendente con la recitazione era scandalosa, ma Moreau non ha mai dato peso agli scandali, proseguendo imperterrita per la sua strada.
Il presidente francese Macron, omaggiandola alla morte, ha ricordato come la scintilla dei suoi occhi ispiri ancora oggi non una rigida deferenza, ma un sentimento di libertà e di insolenza. Quest’ultima non era di tipo tracotante, volgare, perché Jeanne Moreau aveva pur sempre ereditato dai genitori una correttezza e un’educazione che gliel’avrebbero impedito, ma è di quel tipo che la faceva sedere nei suoi primi set cinematografici e la poneva in attesa del successo con una pazienza sfrontata, come se esso dovesse semplicemente accadere prima o poi. Non era nemmeno partita come attrice di cinema, ma di teatro. La possibilità di lavorare nel cinema le si presentò quasi per caso, quando le balenò l’idea di partecipare a un provino per un film, nonostante non si fosse fino ad allora interessata a questo settore culturale. Il suo primo ruolo fu marginale, in Dernier amour (1949) di Jean Stelli. Lo fece quasi per scherzo, nonostante sapesse che per l’opinione comune, tra cui quella dei genitori, essere un’attrice di cinema era ancora più malvisto del fare la teatrante. Tuttavia fu non solo il primo sassolino verso una carriera stellare, ma anche l’inizio di una passione inestinguibile. Trasferì la sua innata curiosità e la sua vivacità intellettuale nei progetti a cui aderiva. Le piaceva lavorare con artisti giovani, desiderosi di apportare nuove idee di cinema, intraprendenti, coraggiosi quanto lei. Infatti fu proprio un regista emergente, Louis Malle, a farla notare nel panorama internazionale grazie al suo primo ruolo di rilievo in Ascensore per il patibolo (1958). Lì interpretava la moglie di un ricco industriale che pianifica l’omicidio del marito con il suo amante, per poi fuggire insieme. Difficile determinare quanto lo stesso Malle si fosse reso conto sin dall’inizio che la struttura corale dell’opera aveva ben due picchi fulgenti: non solo la colonna sonora di Miles Davis, ma anche la sua migliore “indossatrice”, Jeanne Moreau. È diventata iconica la scena della sua camminata sconsolata per le vie della Parigi notturna, a suon di jazz e pioggia. Persino quando doveva interpretare l’angoscia di una donna in attesa dell’amante, forse scomparso, forse traditore, l’attrice aveva dato al suo passo un incedere di tipo nuovo, incredibilmente misurato. In esso il senso d’abbandono non risultava trattenuto, anzi, era espresso ancora più fortemente. Era incoronato dall’espressività del suo volto intelligente, capace di mostrare al contempo un primo rancore, l’ansia vagabonda, una stanca disperazione. L’illuminazione era quel quid in più che la valorizzava, proprio perché interprete di progetti nuovi e audaci: invece che illuminare pienamente il suo volto con luci del set, esso era parzialmente in penombra, riflettendo più che altro le luci dei locali notturni. La Parigi degli anni ’50, il jazz, il noir di derivazione americana e la femme fatale rivivevano in lei, ma in modo del tutto inedito.
Il rapporto con la camera non fu subito naturale, esattamente come la sua disinvoltura del tutto acquisita. Seppe però farsi strada, acclimatarsi alla maniera dei gatti, regalando al cinema le sue storiche performance. Come sostenne in una videointervista a CineTfò il rapporto che stabiliva con il regista attraverso la camera da presa era di tipo emozionale, di intuitiva complicità. Proprio su Louis Malle diceva di non aver bisogno nemmeno che parlasse. Recettiva com’era all’ambiente creato, riusciva a capire già dal principio cosa pensava e voleva la regia. Allo stesso modo intendeva il cinema come un donarsi senza tante sovrastrutture di pensiero, disinteressandosi a esso come un veicolo per delle affermazioni filosofiche sin troppo consapevoli.
Un modello femminile nuovo
Per questo motivo è difficile sostenere che Jeanne Moreau fosse una sorta di militante femminista del cinema di quei tempi, forse perché si limitava a essere sé stessa nei vari aspetti della vita senza aver paura di essere giudicata. Ciò però era già abbastanza forte, rappresentando un’eredità importante per le future attrici del cinema francese. Seguiranno infatti delle rilevanti figure femminili spesso complesse, versatili, investite in ruoli sfaccettati e irriducibili alla percezione maschile: Catherine Deneuve, Juliette Binoche ma anche le contemporanee Marion Cotillard e Isabelle Huppert. Di quest’ultima va menzionato proprio per la sua controversa attualità il personaggio interpretato in Elle (2016) di Paul Verhoeven.
Tornando a Jeanne Moreau, le performance successive ad Ascensore per il patibolo, infatti, sono una serie notevole di donne poco ortodosse. Recita in Les amants (1958) di Malle, Moderato Cantabile (1960) di Peter Brooks, La notte (1961) di Michelangelo Antonioni, Il processo di Welles (1962), Il diario di una cameriera (1964) di Buñuel, La sposa in nero di Truffaut (1968). Tra i tanti altri spicca il personaggio che l’ha consacrata definitivamente alla storia del cinema, cioè Catherine in Jules e Jim (1962) di nuovo di Truffaut. In tutti questi ruoli ricorre un rifiuto delle regole di comportamento borghese destinato a lasciare un’impronta indelebile nell’immaginario cinematografico. Ad esempio in La notte interpretava una donna alienata dalla vacuità morale del boom economico. Quell’ennui tipica dell’epoca e già interpretata in film precedenti era depurata dai sentimentalismi francesi, isolata in un deserto interiore senza sconti. Si ripeteva in esso una sua peculiare qualità: non una ribellione focosa, ma un amaro, elegante rifiuto. Vagava in un’inquieta ricerca all’interno di magnifici scenari a campo lungo di Milano, squadrata da aridi palazzoni e di seguito in feste mondane popolate da voci frivole. Pur sapendo che la solitudine alle feste è un peccato per la morale borghese, non le importava nulla, camminando in disparte, aspra, meditando sulla fine dell’amore per il marito (Marcello Mastroianni). Se per altri della sua stessa classe la fine dell’amore avrebbe semplicemente lasciato il posto all’ipocrisia coniugale, per lei la fine dell’amore doveva essere la fine del rapporto (economicamente conveniente), la fine dell’angoscia per lasciare il posto a qualcosa di nuovo e più benefico. Anche nella vita ha parlato dei suoi rapporto amorosi come condotti con una coerente onestà. Il senso di indipendenza da lei emanato era collegato con la libertà d’amare o non amare più. Ciò non era da poco, in un contesto pubblico come quello dello star system in cui ogni rapporto privato è giudicato dalla pubblicità e spesso succube di essa.
Nei suoi vari ruoli emergeva una femminilità sia dura che amorevole. Non era riconducibile ad alcun stereotipo di donna della storia del cinema. Era colta, intellettuale, ma non rigida o soltanto calcolatrice. Non era propriamente distante né dipendente, mai civetta, perché troppo matura. Era proprio Truffaut a dire: «Ogni volta che me la immagino a distanza la vedo che legge non un giornale ma un libro, perché Jeanne Moreau non fa pensare al flirt ma all’amore». Era ben lontana dall’immagine fortemente sessualizzata di Brigitte Bardot, ma la sua sensualità era altrettanto trascinante e più sentimentale. Proprio lei era la protagonista di una scena ai tempi scandalosa di Les amants, dove il suo volto veniva inquadrato mentre aveva un orgasmo. Moreau però si è sempre pronunciata contro la banalizzazione del sesso e dei rapporti tra uomo e donna. È diventata celebre una sua frase a tal proposito: «La libertà che la donna è riuscita a conquistare si rivolge tutta contro di lei. Vi sono donne che hanno tutto per essere felici e non lo sono perché confondono la libertà con la facilità».
Catherine di Jules e Jim
Rimane ancora oggi inimitabile l’anarchia del suo personaggio in Jules e Jim. Qui l’attrice mostra le sue capacità di indossare le più disparate vesti, dai lunghi abiti della posata aristocrazia a quelli dell’energico ragazzo di strada, senza perdere un timbro personale. Catherine è la femminilità sfuggente, indomabile che caratterizza i sorrisi enigmatici delle antiche sculture greche. Il menage à trois da quest’opera in poi diventerà un leitmotiv per i suoi ruoli, ma questo è il più iconico. La libertà d’amare qui si tramuta in una fatalità tragica, condotta con uno strano, candido sorriso. Come in Les amants o Moderato cantabile, ammetteva di essere fatta non per un solo grande amore, ma per tanti grandi amori. Qui ciò è portato alla sua massima ambiguità espressiva senza scadere ancora nella svendita di sé. La celebre corsa sul ponte colpì un’intera generazione di cinefili – e non solo – per la sua energia giovanile, la voglia di vivere, di sconfiggere qualsiasi ruolo predefinito. Era un’espressione delle Nouvelle Vague nei suoi anni più fiorenti. L’attrice francese raramente è stata così lieve e allo stesso tempo crudele, come un’entità eterea che calpesta le pretese altrui con un perfetto senso di innocenza. Nella stessa opera era capace di meditare l’omicidio con tranquilla padronanza di sé, ma anche giocare con i propri amanti con la leggerezza di un’adolescente e ancora dare un tocco materno e amorevole alla propria figlia. Ancora di più qui diede la sua performance canora più celebre: Le tourbillon de la vie. Di nuovo c’era una compresenza di caratteri indefinibile: da una parte l’atteggiamento posato e grazioso con cui scandiva le parole, dall’altro uno sguardo che nel sorriso più solare continuava a non lusingare nessuno, ma mostrava quanto appartenesse soltanto a sé stessa. Catherine scivolava da un letto all’altro corrispondendo ai suoi sentimenti di momento in momento, ammettendo la variabilità, libertà di essi, senza curarsi affatto delle ripercussioni morali o dei vincoli della fedeltà amorosa. Lungi da Truffaut però fare un’ode al rapporto completamente libero, affermando infatti che Jules e Jim «È un inno alla vita e alla morte, una dimostrazione dell’impossibilità di qualunque combinazione amorosa al di fuori della coppia». Catherine era folle nei suoi svincolamenti anarchici, ma era «una forza della natura». La stessa Jeanne Moreau ne era l’interprete ideale, poiché capace di trasmettere nella sua impressionante gamma espressiva una donna esente da qualsiasi artificio e il cui senso di verità non era grossolanamente dichiarato, ma era implicitamente collegato alla naturalità del suo corpo. Truffaut disse che non voleva alienare il pubblico con un personaggio interamente feroce, considerate le sue azioni. Aveva bisogno di un misto di dolcezza e asprezza, un pizzico di malinconia che erano proprie di Jeanne Moreau. Esse difatti esplosero in Le tourbillon de la vie, per cui Macron l’ha ricordata nello stesso omaggio sopracitato.
Un grande senso di controllo
Molto fece anche la derivazione teatrale dell’attrice. Si è detto che era amante della parola a voce alta sin da bambina e difatti era capace di comunicare moltissimo soltanto dalla modulazione della voce. Persino quando Malle in Ascensore per il patibolo inquadrava soltanto la sua bocca, che diceva «Je t’aime, Julien…», l’erotismo si sprigionava con grande fluidità. Se è vero che un’attrice risulta tanto più brava quanto fa sembrare spontanea un’interpretazione finemente lavorata, allora Jeanne Moreau aveva già dimostrato allora di saper fare meravigliosamente il proprio mestiere. Con essa poteva far indovinare allo spettatore immediatamente che tipo di cultura ci fosse dietro al suo personaggio, dalla cameriera di Buñuel alla borghesia già citata. Inoltre aveva la cultura e la dizione precisa tipica dei teatranti, di contro alle frequenti frivolezze o approssimazioni degli attori cinematografici. Oriana Fallaci disse di lei in un’intervista del 1963: «Le sue risposte furono puntuali come il suo appuntamento, senza errori di sintassi o grammatica: cosa assai rara per una diva del cinema. Le pronunciava con dizione perfetta scandendo le frasi come se dettasse a una dattilografa: coi punti, le virgole, i punti e virgola, le virgolette tutte al loro posto». Non è un caso, d’altronde, che preferisse la compagnia di Moravia o Vittorini, ad esempio, a quella dei suoi colleghi.
Persino quando la voce veniva a mancare, come nel doppiaggio de La notte a causa del suo italiano poco sciolto, non si sentiva alcuna carenza. Imbavagliata della sonorità di essa, aveva sempre le innumerevoli risorse del suo volto e del suo portamento.
Questo ricchissimo senso del controllo si trasferisce nella personalità delle sue donne e certamente nella memoria cinefila, che il 31 Luglio ha giustamente un pianto una grande scomparsa. Jeanne Moreau però non avrebbe voluto che si retrocedesse in sentimenti nostalgici. «Nostalgia for what? Nostalgia is when you want things to stay the same. I know so many people staying in the same place. And I think, my God, look at them! They’re dead before they die. That’s a terrible risk. Living is risking».
Di conseguenza più che interrogarsi su cosa c’è di irrecuperabile in seguito alla morte di un’attrice del suo calibro, si può guardare ai nuovi “luoghi” del cinema contemporaneo. Si può volgersi a cosa si è guadagnato con la sua eredità lasciata, sperando che non si smetta mai di rischiare con nuovi, multiformi e arditi personaggi femminili.