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Irving, Thomas e una trade NBA in parità

Published by
Lorenzo Vagnoni

Le Finals NBA della scorsa stagione sono state la dimostrazione di come l’innesto di Kevin Durant – chiacchieratissimo e contestatissimo da tifosi e addetti ai lavori – all’interno del sistema di gioco dei Golden State Warriors abbia fatto riemergere e al tempo stesso rivisitato il concetto di superteam, ovvero una squadra nettamente superiore a tutte le altre e che rappresenta il nuovo gradino evolutivo a cui tendere per diventare vincenti non solo in campo, ma anche a livello dirigenziale.

Quando sembrava che solo LeBron James e compagni potessero ergersi come rivali e contraltari di una squadra apparentemente imbattibile, la serie finale dello scorso anno ha inevitabilmente scacciato ogni dubbio.

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Con un perentorio 4-1 i Warriors hanno vendicato lo smacco dell’anno precedente e considerevolmente minato aspettative e morale della franchigia dell’Ohio – che con un Lebron James in stato di quasi onnipotenza è riuscita a portare a casa una sola partita – portandola ad una post-season piena di incertezze e dubbi sul futuro riguardo la permanenza di LBJ ai Cavaliers.

In un’estate frenetica e piena di scambi – che hanno portato diverse stelle a cambiare casacca – nel tentativo di abbattere la squadra di tiranni che domina la lega, i malumori del Re sembravano ben poca cosa, e l’unico pensiero dei Cavaliers sembrava dover essere il trovare un modo per potenziare ulteriormente il roster, incrementando le armi a propria disposizione per compiere un nuovo tirannicidio.

Sennonché – come un fulmine a ciel sereno – nel mese di Luglio Kyrie Irving dichiara di voler abbandonare Cleveland e Lebron James, stufo del suo ruolo di ombra e desideroso invece di diventare il primo attore da qualche altra parte.

A parte le ovvie reazioni da parte di LBJ, il problema per il neo GM dei Cavaliers Koby Altman – subentrato a David Griffin – si è rivelato sin da subito abbastanza arduo: cercare di non svendere la propria stella per la fretta di concludere una trade (come accaduto invece nel caso Paul George), ma al tempo stesso provare a rafforzare il roster senza intaccare ulteriormente il monte ingaggi, su cui la luxury tax già grava famelica.

Al netto di tutto ciò, la trade che si è appena conclusa in queste ore, e che vede Irving accasarsi ai Boston Celtics in cambio di Isaiah Thomas, Jae Crowder, Ante Zizic e la prima scelta non protetta dei Brooklyn Nets, sembra essere una di quelle trade in cui – nonostante si sia dovuto fare di necessità virtù visti i tempi considerevolmente ristretti – entrambe le parti possono ritenersi soddisfatte.

Sulla sponda dell’Erie

L’acquisizione di Crowder, Thomas e Zizic non rappresenta necessariamente un’involuzione per i Cavaliers, anche se la perdita di Kyrie Irving rimane un colpo difficile da digerire per la franchigia che lo ha draftato e lo ha amorevolmente accudito nella sua evoluzione da promessa a stella della lega.

Si parla pur sempre di un giocatore capace di innalzare notevolmente il suo livello ai playoff – questo esempio valga per tutti – e che ha dalla sua l’essere ancora giovane (compirà 26 anni a Marzo dell’anno prossimo) e un ottimo contratto, che lo porterà a divenire free agent solo nel 2019.
Isaiah Thomas è un giocatore per certi versi comparabile a Kyrie Irving, sia da un punto di vista offensivo che difensivo, lato in cui sono entrambi dei punti deboli da coprire tramite un sapiente sistema difensivo di squadra. Il fisico e l’età fanno però pendere inesorabilmente la bilancia verso il neo acquisto di Boston.

Thomas è inoltre in scadenza di contratto – il principale motivo per cui è stato scambiato dai Celtics è il non voler assecondare le sue richieste contrattuali – e le cifre entro cui potrebbe essere rifirmato dai Cavaliers al termine di questa stagione passano inevitabilmente per le mani di LeBron James.

Nel caso in cui quest’ultimo abbandoni l’Ohio, Thomas rappresenterebbe l’ennesimo nodo da sciogliere per la dirigenza – pietra angolare per il nuovo corso o asset da cedere per il tanking – mentre nel caso in cui LBJ invece rimanesse sarebbe imperativo far rimanere IT, le cui richieste contrattuali però innalzerebbero di molto il già alto monte ingaggi di Cleveland.

Da un lato squisitamente tattico invece, il grosso problema dei Cavaliers sarà nascondere difensivamente Thomas, perché le sue ridotte dimensioni e la sua scarsa attitudine difensiva lo rendono un bersaglio fin troppo visibile quando la posta in palio si alza. Cleveland non possiede però dei difensori perimetrali della stessa qualità di quelli di Boston, Marcus Smart su tutti.

Inoltre sussistono grossi dubbi sulla sua tenuta atletica, sia per l’età anagrafica sia per il brutto infortunio all’anca dello scorso anno ai Playoff, con il concreto rischio che parte dell’esplosività che caratterizzava il suo gioco sia ormai andata perduta.

Se l’aver aggiunto Isaiah Thomas a roster è una scommessa che regge su due o tre variabili, Jae Crowder è invece un perfetto innesto in ottica anti Golden State per i Cavaliers: un 3&D versatile nei quintetti piccoli che può rilevare il veterano Richard Jefferson con uno dei contratti migliori della lega – tre anni di contratto restanti a circa 7 milioni annui – e che può garantire preziosi minuti di riposo a LeBron.

L’unico neo per Crowder potrebbe essere l’adattamento a un nuovo ruolo all’interno della sua nuova squadra, dove non sarà più uno stabile titolare del quintetto base – come a Boston – bensì un giocatore in uscita dalla panchina.

Ante Zizic – nonostante sia un rookie della più bell’acqua e non abbia sostanzialmente ancora dimostrato nulla nella NBA – risolve un grosso problema dei Cavaliers dello scorso anno, ovvero la mancanza di un reale centro di riserva; questo limitava enormemente le possibilità di rotazione di Tyrone Lue, costringendolo per ampi sprazzi di stagione a utilizzare Channing Frye in questo ruolo.

A tutto questo si aggiunge la scelta non protetta dei Brooklyn Nets per il prossimo draft – che realisticamente pone Cleveland almeno in lottery – la quale può tramutarsi sia in un futuro giocatore, sia in un asset da spendere nel prossimo mercato.

In base a quanto scritto sopra – e al netto della scommessa Isaiah – la trade risulta ottima per i Cavaliers, che riescono a mantenersi competitivi per il prossimo anno e futuribili sul breve termine nonostante la perdita di un pezzo pregiato come Irving, risparmiando anche una discreta somma dal punto di vista del monte ingaggi.

Gita al TD Garden

Le scelte dei Nets rappresentavano il più grande tesoretto a disposizione di Danny Ainge e dei Boston Celtics, gelosamente mantenuto intatto fino alla trade in questione e che ha iniziato a pagare dei corposi dividendi.

Dopo lo scambio con gli Utah Jazz che ha portato Gordon Hayward ad accasarsi a Boston, questo ulteriore movimento di mercato consolida l’ottima strada imboccata dai Celtics, che risultano ulteriormente rinforzati rispetto allo scorso anno, pur avendo perduto importanti uomini di rotazione e con solo quattro giocatori reduci dalla scorsa stagione.

Considerato questo, sarà necessario per i bianco verdi ritrovare un’alchimia di squadra e un’identità che l’anno scorso è stata la forza trainante della loro stagione e che li ha portati fino ai playoff.

Kyrie Irving rappresenta un upgrade enorme in attacco rispetto a Isaiah Thomas, sia per i motivi già espressi sopra (età e contratto) sia perché in mano a un guru della panchina come Brad Stevens – capace di sfruttare in maniera efficace trattatori di palla creativi come il nativo di Melbourne – il talento offensivo di Irving può ulteriormente sbocciare; tutto questo ammesso che quest’ultimo accetti un certo tipo di pallacanestro fatta di lavoro lontano dalla palla senza pretendere di stringerla tra le sue mani ogni due possessi.

Inoltre Kyrie rappresenta – incredibilmente – anche un upgrade difensivo rispetto a Thomas, perché non solo avrà dei difensori perimetrali molto più efficienti ad aiutarlo, ma anche per il fatto che la sua altezza non lo renderà un mismatch a prescindere contro ogni difesa NBA, con viva gioia di Stevens.

Se a ciò si aggiunge che l’età media dei giocatori importanti per il futuro dei Celtics si aggira fra i 25 e i 27 anni, si ottiene un nucleo che – se mantenuto – potrà dire la sua negli anni a venire nella Eastern Conference.

Il grosso problema che però Boston dovrà affrontare il prossimo anno sarà proprio il vuoto di leadership che si è venuto a creare con la partenza di Thomas e Crowder, e che difficilmente giocatori chiave come Hayward e Irving potranno colmare, viste le differenti personalità e il loro ingresso in uno spogliatoio che non conoscono.

And the winner is…

Questa trade – imbastita velocemente e figlia della volontà di un singolo – rappresenta quindi un ottimo compromesso per entrambe le squadre, che riescono a limitare i danni e a ottenere qualcosa di positivo sia nell’immediato, che per il prossimo futuro.

Se da una parte Boston si ritrova con un organico ridotto all’osso e con probabili problemi di leadership, dall’altra Cleveland deve scommettere su un giocatore che ha già mostrato i suoi limiti – e non è detto che ripeta la strabiliante stagione dell’anno scorso – con in più la spada di Damocle della decisione di LeBron James pendente sul capo.

Boston però acquisisce uno dei migliori giocatori della lega e va a consolidare un nucleo giovane che può rappresentare l’unica alternativa ad Est a Cleveland, mentre quest’ultima migliora la profondità del suo roster e limita i danni nel perdere un fenomeno assoluto come Irving.

Con un verdetto di sostanziale parità non resta che mettersi comodi e attendere il primo scontro fra queste due squadre, che già si preannuncia infuocato per i vari nodi da sciogliere e per i desideri di rivalsa che i vari interpreti porteranno sul parquet.

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Lorenzo Vagnoni

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