Una scritta in verde recante il nome del gruppo e dell’album su uno sfondo completamente rosso: è questa la tanto semplice quanto riconoscibile copertina di Talking Heads: 77, il primo disco dei Talking Heads, band fondata dallo stravagante ed eclettico musicista David Byrne nel 1974. I Talking Heads sono stati uno dei gruppi che meglio è riuscito a portare elementi innovativi nella musica pop, in grado di mescolare abilmente generi diversi fra di loro e contribuendo in prima persona alla nascita della new wave.
La prima incarnazione dei Talking Heads nasce a New York nel 1974 dall’incontro di David Byrne, Tina Weymouth e Chris Frantz, tre giovani originari di Rhode Island che si trasferiscono nella Grande Mela in cerca di fortuna. La New York degli anni ’70 è un centro nevralgico per quanto riguarda l’arte e la musica pop: è la città di Andy Warhol e della sua Factory, dei Velvet Underground e di Lou Reed, una città piena di stimoli e dal ritmo frenetico, che nel giro di poco tempo avrebbe vissuto in pieno l’esplosione del fenomeno punk. È proprio il mondo del punk che apre la strada al successo dei Talking Heads: il loro primo concerto si svolge il 5 giugno 1975 come band di spalla ai Ramones, all’epoca ancora quattro semisconosciuti, al CBGB, storico locale di New York che ha visto esordire sul proprio palco alcune delle band più importanti del panorama new wave e punk americano.
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Nel 1977 il trio diventa definitivamente un quartetto, con l’ingresso del tastierista e chitarrista ex-Modern Lovers Jerry Harrison e nello stesso anno pubblica il suo album d’esordio: Talking Heads: 77. Questa opera prima presenta già molti degli elementi innovativi che ricompariranno successivamente nella discografia dei Talking Heads e che faranno scuola nel corso degli anni: i brani non hanno la stessa frenetica energia e immediatezza del punk più grezzo, ma sono dei brillanti quadri sonori, in cui si fondono schitarrate funky e una ritmica fra il rock and roll e la dance; le sonorità apparentemente allegre, ripetute ostinatamente come un tic nervoso, fanno da sfondo agli ironici testi di critica sulla contraddizioni di una società, cantati da Byrne nella sua riconoscibilissima voce meccanica e ossessiva. L’effetto che si ottiene è un crescente sentimento di paranoia e di estraniamento della realtà, rafforzato dalla nevrotica ritmica dei brani. Perfetta sintesi di ciò e il singolo più celebre dell’album, Psycho Killer: trascinato da una tagliente linea di basso, il brano è una scarica di tensione adrenalinica, dove Byrne si immedesima nel ruolo di uno schizofrenico assassino e ne descrive il suo disturbato comportamento. Psycho Killer però riscuote particolare successo anche grazie a una macabra coincidenza: infatti, nonostante la canzone fosse già nel repertorio dei Talking Heads da anni, la sua pubblicazione avviene solo qualche mese dopo l’arresto dell’assassino David Berkowitz, noto anche come figlio di Sam, inducendo erroneamente il pubblico a pensare che fosse lui il protagonista del brano.
L’esordio dei Talking Heads non passa inosservato, finendo per attirare l’attenzione del celebre musicista Brian Eno, il quale rimane talmente impressionato dalla proposta musicale di Byrne e compagni che decide di entrare in contatto con loro per produrne il successivo album nel 1978: da questa collaborazione nasce More Songs About Buildings and Food, secondo disco della band, dove viene ripresa la vincente formula del primo album ma con meno timidezza e più convinzione, concentrandosi in particolare su una ritmica e un groove sempre più maniacali e sovrapposti. Fra gli alienanti brani del disco si ritaglia anche un posto una inusuale cover di un grande classico del musicista soul Al Green, Take Me to the River, che verrà estratta come singolo e lancerà il disco nelle classifiche americane, canadesi e addirittura australiane.
Nel 1979, sempre sotto la supervisione di Brian Eno, esce Fear of Music: questo disco sancisce il raggiungimento della maturità per le teste parlanti di Byrne, ormai ben conscio dei propri mezzi e pronto a stupire nuovamente il suo pubblico. Fear of Music si apre con la tribale I Zimbra, selvaggia danza di follia dadaista il cui testo è l’adattamento di un poema di Hugo Ball, mentre alla chitarra spicca la presenza del visionario Robert Fripp dei King Crimson. I restanti brani del disco uniscono il funk e la psichedelia, la disco e il rock, disorientano l’ascoltatore in un trionfo di percussioni, chitarre distorte e suoni elettronici, frutto della geniale stravaganza nata dalla collaborazione fra Byrne e Eno. È con questo disco che i Talking Heads si conquistano definitivamente il favore della critica, diventando una delle band più apprezzate del momento.
L’anno successivo i Talking Heads raggiungono quello che probabilmente il picco della loro discografia con il quarto album, terzo consecutivo prodotto da Eno, intitolato Remain in Light: in questo disco, fortemente influenzato dall’afrobeat di Fela Kuti, musicista nigeriano fatto scoprire da Eno ai componenti del gruppo, la band sperimenta complesse poliritmie unite a sonorità sempre più funk ed elettroniche, creando dei brani contraddistinti da un tanto intricato quanto coinvolgente tappeto ritmico. Inoltre, va sottolineata l’introduzione di loop e campionamenti all’interno dei brani, una vera e propria innovazione per la musica pop dell’epoca. Nonostante la complessità ritmica delle canzoni, i singoli estratti dal disco ottengono un buon successo commerciale in particolare la allucinata Once in a Lifetime, il cui videoclip diventa immediatamente iconico grazie ai folli balletti di Byrne.
Dopo aver pubblicato quattro dischi nel giro di quattro anni, bisognerà aspettare fino al 1983 per un nuovo lavoro in studio, Speaking in Tongues, preceduto dall’album live The Name of This Band is Talking Heads: è con questo quinto album che il gruppo si guadagna il maggior successo commerciale, grazie soprattutto ai brani Burning Down the House e This Must Be the Place (che darà il titolo all’omonimo film di Paolo Sorrentino, grande fan della band). Manca però quello che è diventato un elemento portante del gruppo: si interrompe il sodalizio artistico con Brian Eno, lasciando la possibilità al musicista britannico di dedicarsi ad altri progetti. Il tour di Speaking in Tongues viene documentato dal regista de Il silenzio degli innocenti Jonathan Demme, che partorirà il film concerto Stop Making Sense del 1984: qui si può apprezzare tutta la lucida follia dell’istrionico e scatenato Byrne, inizialmente solo con chitarra acustica e una radio su un palco spoglio, salvo poi essere raggiunto mano a mano dai suoi compagni di band e da numerosi musicisti di spalla.
Fra il 1985 e il 1988, i Talking Heads pubblicano altri tre album in studio: Little Creatures, True Stories e Naked. Nonostante ci sia ancora qualche interessante spunto, la deriva pop del gruppo sembra aver preso il sopravvento, lasciando poco spazio all’esplosiva creatività che aveva contraddistinto i lavori precedenti. È una delle prime avvisaglie che ormai il gruppo sta perdendo la voglia di suonare insieme di un tempo per dedicarsi maggiormente ai progetti paralleli dei singoli. Dopo una pausa di circa tre anni, nel dicembre del 1991 i Talking Heads annunciano il loro scioglimento, con i quattro membri della band decisi a intraprendere strade diverse.
Dopo la separazione, tutti i quattro membri dei Talking Heads continuano a lavorare nell’ambito della musica: David Byrne si dedica alla carriera solista, collaborando con numerosi artisti fra cui lo stesso Brian Eno, e fonda un’etichetta discografica di world music, la Luaka Bop; il batterista Chris Frantz e la bassista Tina Weymouth — sposati dal 1977 — continuano a suonare con i Tom Tom Club, band secondaria formata quando già militavano nei Talking Heads e comparsa anche nelle riprese di Stop Making Sense; il chitarrista Jerry Harrison, infine, comincia a fare da produttore a numerose band di successo nel corso degli anni ’90, fra cui i Violent Femmes e i No Doubt.
Dopo essere stati divisi per più di dieci anni, i Talking Heads si riuniscono in via eccezionale il 18 marzo 2002, in occasione della cerimonia per il loro ingresso nella Rock and Roll Hall of Fame: nel corso della serata, il quartetto suona tre dei brani più di successo della loro discografia, ovvero Psycho Killer, Burning Down the House e Life During Wartime. Questa è l’ultima volta in cui, ad oggi, tutti i quattro membri dei Talking Heads hanno suonato assieme: nonostante nel corso degli anni ci siano state più mormorii su possibili reunion, Byrne ha sempre negato questi rumori, dicendo che non c’è alcuna speranza di rivedere la band nuovamente assieme sul palco.
Ancora oggi, i Talking Heads sono una delle band che più è stata capace di cambiare la musica popolare degli ultimi cinquant’anni: oltre ad aver dato un importante contributo alla diffusione della new wave negli Stati Uniti, Byrne e soci hanno influenzato musicisti di ogni genere, dai R.E.M. ai Primus, da Eddie Vedder a St. Vincent (con la quale Byrne ha collaborato nel disco del 2012 Love This Giant). Addirittura i Radiohead hanno scelto il loro nome in omaggio all’omonimo brano della band newyorchese, contenuto nell’album del 1986 True Stories.
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