Il livello di difficoltà di giochi come Crash Bandicoot, di cui è uscito recentemente un remake su PlayStation 4, oggi è considerato particolarmente elevato: quando uscirono, invece, era la norma. Cos’è cambiato in questi anni? I videogiochi di oggi sono davvero più semplici di quelli di 20 anni fa, e perché?
Sicuramente il grado di sfida medio dei videogiochi singleplayer è diminuito: sono più lineari, spesso facilmente completabili senza dover ricominciare nemmeno un livello. Non ci sono più missioni o livelli particolarmente ostici, come poteva ad esempio essere quello del treno in GTA: San Andreas. La campagna di uno degli ultimi Call of Duty può essere finita in poche ore senza particolari problemi e, per la maggior parte dei giocatori, senza perdere mai in una missione. Rimangono ancora giochi particolarmente difficili, come i Dark Souls, ma in generale la difficoltà è diminuita. Quindi, che cosa è cambiato?
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Prima di tutto dobbiamo considerare che non esiste un solo tipo di giocatore medio, ma abbiamo diverse tipologie di utenti, ognuna con esigenze diverse, differenziate per età, disponibilità economiche e tempo libero. Abbiamo da una parte il pubblico tradizionale, quello di ragazzi tra gli undici e i sedici anni, i bambini più piccoli e una fetta sempre più consistente di giovani e adulti. A ognuna di queste categorie l’industria videoludica deve fornire esperienze di gioco diverse: ad esempio i giochi online competitivi sono più diffusi tra i più grandi, tra i quali è anche più diffuso il PC come piattaforma. Dobbiamo però considerare che il numero di giocatori più anziani è cresciuto moltissimo negli ultimi anni: in passato erano molti meno, e c’erano molti meno videogiochi che si rivolgevano a questo tipo di pubblico.
Concentriamoci ora sulle due fasce di età più basse: bambini tra otto e undici anni e ragazzi tra undici e sedici, che nell’immaginario collettivo costituiscono la maggior parte dei giocatori. Giocano prevalentemente titoli tripla A su console, giochi che, soprattutto per quanto riguarda i più piccoli, vengono comprati da genitori e familiari. Sono loro, insomma, i nuovi giocatori, quelli che trovano sotto l’albero di Natale la loro prima console, ed è con loro che dobbiamo fare i conti quando parliamo di una riduzione della difficoltà nei videogiochi. Perché proprio con loro? Semplicemente perché la maggior parte dell’offerta sul mercato videoludico mainstream è rivolta a loro. Le grandi industrie del settore (Activision, EA, Ubisoft) producono per loro, che sono i principali consumatori dei vari Assassin’s Creed, Battlefront e FIFA. Sono gli eredi di chi giocava ai Crash e ai primi Battlefront, non troppo interessati al mondo dell’eSport e alle produzioni meno conosciute. Hanno però gusti diversi dai loro predecessori: spesso iniziano a giocare su smartphone e tablet, hanno avuto accesso prima a Internet, che usano anche per seguire assiduamente i diversi infuencer, che condizionano pesantemente i loro acquisti. Tante piccole differenze, che però portano gli sviluppatori a proporre giochi diversi, anche sfruttando le nuove tecnologie.
Abituati a film e serie tv spettacolari e ricche di colpi di scena, per i nuovi giocatori la storyline principale deve intrattenere non tanto per la sua complessità e perché li mette di fronte a enigmi o scenari difficili da superare, ma perché è interessante, con personaggi complessi e non stereotipati. Il videogioco diventa così quasi un film interattivo, complice anche l’incredibile sviluppo dei motori grafici: il focus dell’esperienza di gioco singleplayer passa dal gameplay allo sviluppo della trama. La vera sfida, invece, in molti casi arriva dopo. La possibilità di inserire in un videogioco modalità multiplayer online è forse la causa principale del perché i singleplayer sono più facili che in passato. Infatti ora, tranne rarissimi casi, il videogioco non si esaurisce nella sua trama principale. Le modalità multiplayer danno infatti la possibilità di prolungare per moltissimo tempo l’esperienza di gioco, giocando per scalare classifiche virtuali o ottenere nuovi oggetti. Questo è lampante per gli sparatutto: se in passato un gioco come HALO puntava quasi tutto sulla trama, oggi i vari Battlefield e Call of Duty hanno una campagna breve, lineare e per nulla impegnativa, quasi un tutorial che prepara i giocatori al multiplayer, che diventa così la modalità principale. Persino serie nate esclusivamente come singleplayer hanno aggiunto modalità online, come gli ultimi Far Cry e Assassin’s Creed. Il multiplayer permette inoltre di creare un gioco per tutti, fruibile a più livelli: così i giocatori occasionali potranno divertirsi comunque giocando la campagna principale, mentre quelli più esperti troveranno un grado di sfida adatto a loro giocando online.
Grande è stato l’impatto di smartphone e tablet sui nuovi videogiocatori, che in molti casi hanno visto in questi la prima piattaforma su cui giocare. Smartphone e tablet sono così diventati un nuovo terreno di scontro per i produttori e al tempo stesso hanno portato nuove innovazioni, contribuendo ad esempio alla diffusione delle microtransazioni. Come si traduce questo nell’industria videoludica mainstream? Prima di tutto in una contaminazione di feature tipiche dei giochi mobile, come le già citate microtransazioni, l’aspetto social, meccaniche gestionali o il sistema di loot casuale, come se si aprissero dei “pacchetti di carte”. Queste rende i videogiochi più facili? Non direttamente. Però gli utenti sono abituati a giochi più semplici, più immediati: questo li porta a ricercare un’esperienza simile anche sulle piattaforme convenzionali. Infine i giochi mobile hanno portato a un grande cambiamento in quello che è il senso di progressione: se prima lo scopo del gioco nella maggior parte dei casi si esauriva nel completare la storyline principale, ora risiede maggiormente nell’ottenere punteggi più alti, nel collezionare nuovi oggetti e nello scalare classifiche virtuali in cui si è costantemente in competizione con migliaia di altri giocatori: questo inevitabilmente porta a focalizzarsi di più su questi aspetti. Esempio lampante è FIFA 17: la modalità Carriera è sostanzialmente la stessa di sempre, mentre la nuova campagna, in cui impersoniamo una giovane promessa del calcio, è breve e tutto sommato semplice da superare, ricca di cutscene e di colpi di scena. Qual è però la modalità d’elezione? Ultimate Team, che combina al meglio il classico gameplay della serie con pacchetti da aprire per trovare i calciatori più forti da schierare nella propria squadra, sfide online e classifiche da scalare.
Altro contributo fondamentale dei videogiochi mobile è l’aver ampliato enormemente il pubblico interessato a questa forma di intrattenimento: pubblico che diventa un possibile acquirente di videogiochi tradizionali, e di cui quindi bisogna catturare l’attenzione. Come? Proponendo un tipo di divertimento per tutti, più accessibile e in cui non bisogna sforzarsi più di tanto.
La semplificazione dei videogiochi, però, non soddisfa le esigenze di tutto il pubblico: resiste una nicchia di giocatori che cerca continuamente nuove sfide, anche al di fuori del multiplayer online. Così abbiamo una serie di titoli che hanno tra i loro punti di forza la difficoltà, difficili da completare, che spesso richiedono ore di grinding e di pianificazione: il caso per eccellenza è la serie di Dark Soul, che deve gran parte della sua meritata fama proprio alla sua complessità. Anche in questo sottogenere, però, possiamo assistere ad una riduzione della difficoltà, evidente ad esempio con gli ultimi Monster Hunter: più aumenta la fama di questi giochi, più vengono richiesti dal pubblico mainstream, più gli sviluppatori per venire incontro alle esigenze di quest’ultimo sono costretti a semplificare.
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