“Una volta, un tizio che faceva un censimento, provò ad interrogarmi. Mi mangiai il suo fegato, con un bel piatto di fave, ed un buon Chianti… ”
Sir Anthony Hopkins, nel ruolo di Hannibal Lecter nell’omonimo film (1991).
Quello sopra accennato è senza dubbio un pasto decisamente insolito, introvabile nei ristoranti e ignorato da tutti i programmi di cucina; con ogni probabilità, tuttavia, la curiosa pietanza ha un qualcosa di inspiegabile e talmente intrigante da spingere uno dei killer più famosi della storia del Cinema a dare sfogo a tutta la sua creatività culinaria attraverso mille declinazioni diverse (leggi ‘spiedini di guance e funghi’) pur di soddisfare una strana e proibita voglia.
Beninteso: sia chiaro da subito che questo scritto non vuole spingere alcun lettore a cibarsi (o anche solo ad assaggiare) carne umana. Il presente articolo vuole invece approfondire un fenomeno relativamente non così insolito in natura e invece ormai rarissimo nelle popolazioni umani (con le dovute eccezioni), le cui conseguenze sulla salute possono essere pesantissime.
Ma si proceda con ordine.
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Per cannibalismo, dunque, si intende letteralmente una forma di predazione infraspecifica, ovvero l’atto di mangiare un individuo appartenente alla propria specie. È dunque una definizione molto ampia, che racchiude implicazioni di natura antropologica, etnologica ed etologica. Il termine deriva dallo spagnolo canibal, a sua volta alterazione di caribal, termine che nella lingua dei Caraibi indica un caribe ardito, il quale poi è passato ad indicare la popolazione stessa delle Antille. La parola sarebbe stata usata la prima volta da Cristoforo Colombo in uno dei suoi diari, proprio per descrivere queste popolazioni autoctone (che egli riteneva discendenti del Gran Khan) aventi tale insolita e spaventosa condotta alimentare; nemmeno lo stesso Colombo credeva a tali voci, ma le stesse si allargarono con impressionante velocità in Europa favorendo la creazione di uno stigma che sarebbe rimasto nei secoli. Ovviamente il fenomeno dell’antropofagia (termina che designa in maniera più precisa questo fenomeno) ha radici più profonde, con ogni probabilità addirittura preistoriche: già ne Le Antilogie attribuite a Protagora, l’autore per descrivere le differenze presenti tra le varie popolazioni afferma che
“i Massageti squartano i genitori e se li mangiano, perché pensano che l’esser sepolti nei propri figli sia la più bella sepoltura; invece se qualcuno lo facesse in Grecia, cacciato in bando morirebbe con infamia, come autore di cose turpi e terribili”.
Tuttavia è a seguito della scoperta dell’America che l’attenzione in merito a questo tema si amplifica: oltre all’esperienza di Colombo, si possono citare le numerose documentazioni relative ai costumi antropofagi della cultura Azteca (in termini di sacrifici e cannibalismo di massa), mentre un’altra testimonianza celeberrima della metà del millecinquecento viene fornita da Hans Staden, soldato tedesco che venne catturato dalla popolazione dei Tupinamba in Brasile: fu l’unico dei suoi compagni a sopravvivere, sfuggendo alla orribile sorte di essere scannato e divorato. L’opinione pubblica europea di quegli anni era fortemente interessata all’argomento, tanto che le alte sfere del potere vedevano il fenomeno come giustificazione sufficiente a legittimare il processo di riduzione in schiavitù che si andava attuando in quel periodo. Ne seguì un intenso afflato nello studio di questo tema: secoli dopo Protagora, Montaigne sottolineò di nuovo il tema della molteplicità delle culture attraverso il suo celebre saggio Dei cannibali; ma la visione fin troppo positiva (per non dire buonista) proposta dal saggista francese condizionò così tanto le interpretazioni successive da far nascere teorie simboliche dell’antropofagia, spesso di matrice strutturalista. Un esempio è dato da Marvin Harris, antropologo di formazione marxista, per il quale il cannibalismo è un’usanza normale nelle società guerriere di tipo pre-statale divenuta tabù con la nascita dello Stato (concetto che però collide con la già citata situazione degli Aztechi). Si può poi citare William Arens, che col saggio Il mito del cannibale, nel suo tentativo di dimostrare come il fenomeno sia stato considerato in maniera esagerata, arriva addirittura a negare la stessa esistenza del cannibalismo, imputando l’origine di questa calunnia ai colonialisti; è bene comunque osservare che questa teoria ha comunque mietuto le sue vittime, dato che oggi il cannibalismo è percepito come un tabù sociale (tanto che può essere usato come mezzo per infondere paura e screditare gruppi di persone) e peraltro è divenuto difficile trovare testi sulla storia di qualche popolazione che menzionino questo aspetto sgradevole del loro passato. Tante teorie antropologiche ed etnologiche, spesso confuse ed in contraddizione: ma, di fatto, allo stato attuale è innegabile negare che l’antropofagia sia viva e vegeta, essendo tale pratica presente in diverse popolazioni tribali sparse sul globo ed essendo la stessa sporadicamente oggetto di episodi isolati anche nei Paesi Occidentali. A tal proposito, un diverso tipo di approccio è stato adottato negli anni recenti da G. Guille-Escuret nella sua trilogia Sociologia comparata del cannibalismo: egli tratta l’antropofagia in una maniera diversa da quanto fatto dai suoi predecessori, ovvero considerando le caratteristiche della società umana, indagando i fenomeni nelle loro cause ed effetti attraverso lo studio delle interazioni tra singolo individuo e società. Ci si stacca così parzialmente dalla antropologia e dall’etnologia per approdare alla sociologia.
Adottando dunque un approccio di stampo sociologico (soprattutto per quanto riguarda la sociologia alimentare, la sociologia dei costumi e la criminologia clinica), è stato possibile dare una definizione più specifica delle varie forme di cannibalismo.
In relazione alla condizione fisica della vittima, si distinguono un cannibalismo che può esercitarsi su carne umana di soggetti morti (necrofagia) o ancora in vita (antropofagia propriamente detta).
Relativamente all’appartenenza sociale, si parla di endocannibalismo quando la vittima fa parte dello stesso gruppo sociale, se invece la stessa ne è aliena si avrà a che fare con esocannibalismo.
Infine, la distinzione (forse) più interessante, basata sulle motivazioni alla base dell’atto antropofago. Si parla infatti di
“infliggere dolore agli altri e subirlo io [lui] stesso. Il desiderio di infliggere dolore è tutto ciò che esiste di più nobile”.
Da ultimo, si deve aggiungere che secondo alcuni esistono alcune sottotipologie di attività antropofaghe, rappresentate dal vampirismo, dalla coprofagia, dalla dermatofagia e dalla spermatofagia; ma ovviamente queste esulano da tutta la spiegazione precedente e rientrano esclusivamente in alcune branche di psicopatologia.
Di fronte ad un atto così tanto efferato come quello di squartare un essere umano e mangiarlo come se fosse una vivanda qualunque, rimanere sconvolti è la minima reazione che ci si può aspettare. Ma se per un attimo si rimane lucidi e si va oltre l’istintiva paura, si realizza che ci sono degli interrogativi che necessitano di una risposta. Cosa accade al cannibale dopo il suo pasto? Diventa davvero più forte e robusto? Ci sono dei rischi per la sua salute (escludendo ovviamente la salute mentale degli psicopatici, per i quali è necessario un immediato ricovero in psichiatria)?
Al di là di quanto riportano gli antichi miti e le antiche testimonianze, e nonostante l’organismo umano sia effettivamente ricchissimo di nutrienti, ad ogni pasto antropofago il cannibale mette fortemente a rischio la sua salute, nel breve e nel lungo termine.
Innanzitutto, molto dipende dalla qualità e dalla cottura della carne ingerita: di certo mangiare carne cruda non è la cosa migliore da fare, poiché la dentatura umana non è molto adatta per fare grosse lacerazioni su tessuti così elastici e resistenti. Si rischiano dunque danni ai denti e lesioni alla muscolatura della mandibola e all’articolazione temporo-mandibolare, ma non solo. Difatti il rischio di contrarre infezioni di varia natura è davvero altissimo, soprattutto se i cadaveri non vengono conservati. Alcuni cannibali, poi, hanno l’abitudine di bere i liquidi e le secrezioni della vittima: in particolare l’ingestione di sangue, oltre ad amplificare ulteriormente il rischio di infezioni, crea notevoli danni all’apparato gastroenterico (è decisamente poco digeribile) e soprattutto al fegato (che ne risulterà particolarmente affaticato sino a rischiare l’insufficienza d’organo). Il pericolo maggiore viene tuttavia dalla parte più pregiata dell’uomo: il cervello. Esistono infatti delle malattie del sistema nervoso che vengono causate da particolari glicoproteine aventi una conformazione tale da risultare molto resistenti e particolarmente dannose. Sono i prioni, agenti proteici (originariamente scambiati per patogeni infettivi) i quali sono letteralmente in grado di ridurre il cervello ad una spugna molle e piena di buchi (encefalopatia spongiforme) attraverso un danneggiamento irreversibile dei neuroni. Di tutte le malattie di questo gruppo (che annovera anche la presenza del morbo della mucca pazza) quella connessa col cannibalismo è il Kuru, diffuso soprattutto tra le popolazioni autoctone della Nuova Guinea. La malattia prevede tre stadi in successione:
• Un primo momento in cui ad essere alterati sono deambulazione, postura, articolazione del parlato, perdita della capacità di muovere finemente mani e piedi;
• Una fase successiva dove il paziente presenta notevoli handicap, non potendo camminare senza supporto, esasperandosi i tremori e l’andatura incerta e comparendo tic muscolari da shock, labilità emotiva, scoppi di risa, depressione e rallentamento dei processi cognitivi.
• Lo stadio terminale, prevede un peggioramento dei precedenti sintomi cui si affiancano incontinenza urinaria e fecale, comparsa di ulcere, incapacità di mangiare autonomamente.
L’uomo è però capace di reagire ed adattarsi: lo dimostrerebbe la recente scoperta di geni mutati i quali, tramite la produzione di specifiche proteine, proteggerebbero dal Kuru e potrebbero quindi rappresentare una ottima possibilità per la gestione delle malattie da prioni.
In conclusione, il cannibalismo è un fenomeno strano, spaventoso, ripugnante, ma al tempo stesso complesso e per nulla scontato. C’è da preoccuparsene? Una risposta univoca non la si può dare; quel che è certo è che
“talvolta si vorrebbe essere cannibali, non tanto per il piacere di divorare il tale o il talaltro, quanto per quello di vomitarlo.”
– cit. Emile Michel Cioran.
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