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Sinful Tunes: il blues afroamericano tra ribellione e rassegnazione

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Antonio Di Meglio

Le puntate precedenti:
1. Mama Africa – le origini africane del blues


Quando i primi schiavi neri arrivarono nella colonia inglese della Virginia, senza saperlo, furono i portatori di un’espressione musicale afroamericana che avrebbe cambiato la musica dei futuri Stati Uniti prima e del mondo intero poi, cioè il blues.

Al contrario di ciò che si è portati a credere, il destino del popolo nero in America non è mai stato passivo o inerte come spesso traspare dalla cinematografia. di certo è stato un destino infelice, ma non abbiamo evidenze che i neri d’America si siano rassegnati o abbiano rinnegato la loro cultura. Al contrario – se si indaga a dovere – emergono prove di “ribellioni” e varie attitudini contro la rassegnazione, che a primo impatto sembrano casi isolati mentre in realtà ebbero un background omogeneo proprio nel blues.

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Schiavi per caso

Il modo in cui i primi schiavi neri sono arrivati nella Virginia britannica riflette la scarsa estensione che ebbe il commercio schiavistico prima dell’indipendenza statunitense: infatti quegli schiavi arrivarono su una nave che di solito trasportava tutt’altro, ovvero derrate alimentari. Il motivo per cui la schiavitù era praticamente sconosciuta prima d’allora è da ricercare sia nella giovane età della colonia, fondata solo dodici anni prima, sia nel suo scopo originale di sfogo demografico e commerciale.

In altre parole la Virginia non aveva ancora una élite che avesse bisogno di grandi masse di manodopera servile, era composta invece quasi interamente da una middle class di aspiranti proprietari terrieri.

La schiavitù in Virginia prima del 1619

Un altro motivo per la modesta grandezza del commercio schiavistico era rappresentato dalle limitazioni imposte dalla Gran Bretagna alle colonie in materia di espansione, cosa che rendeva inaccessibili le grandi distese coltivabili del deep south e inutile un massiccio impiego di manodopera servile, quando le risorse accessibili quasi non bastavano per la popolazione libera.

In realtà una forma peculiare di schiavitù si era sviluppata, anche se quasi esclusivamente nel Nord. Si trattava della servitù a contratto, cioè la situazione in cui un proprietario terriero pagava viaggio, vitto e alloggio a una persona che ripagava il debito con il suo lavoro in condizione di schiavitù per un periodo variabile e in genere non inferiore a sette anni.

Molti di questi servi a contratto non erano africani, anzi, si può essere ragionevolmente certi che i neri fossero in assoluta minoranza. Non abbiamo stime precise di quanti africani ci fossero nelle colonie inglesi: le prime disponibili risalgono al periodo successivo alla Guerra d’indipendenza ma confermano gli africani come minoranza, con una percentuale che oscillava tra il 4% e il 20%.

Questa stima mostra l’esistenza di piccole comunità di neri, ovviamente schiavi, nel periodo compreso tra la fine della Guerra d’Indipendenza e la Guerra di Secessione. Viene logicamente da supporre  che prima del fiorire della schiavitù, non si potesse nemmeno pensare a comunità di afroamericani: e infatti i primi bluesman di cui abbiamo notizia vengono descritti come vagabondi solitari.

Il blues dei raminghi

Questo gruppo sparso di bluesman può essere diviso per comodità in tre sottogruppi, divisione che comunque non rispecchia la vita movimentata che facevano i primi bluesman. Il primo gruppo è quello che usava il blues esclusivamente come modo per ricordare le proprie radici: si trattava di persone che fuggivano dalla società propriamente detta e vagavano anche oltre i confini delle colonie inglesi, tanto che abbiamo testimonianze di bluesman in territorio indiano. Il secondo gruppo è quello che viveva ai margini della società: si trattava di individui che facevano della musica un mezzo di sostentamento contestualmente all’elemosina. Spesso erano persone fin troppo segnate dal lavoro servile sia nel fisico che nella psicologia, per cui il blues aveva il duplice scopo di essere un sostentamento sia economico sia spirituale. Il terzo gruppo era costituito da neri che vivevano negli strati più miserabili della società e che si dedicavano ad attività illegali di ogni sorta, tanto che la musica divenne una sorta di linguaggio in codice che potevano capire solo i bluesman: questo portò alla nascita di quello che venne poi chiamato double talk.

La prima conversione

Come si è visto, questa servitù temporanea creò i presupposti per dei modelli musicali che fossero espressione di una cultura autonoma da quella americana di origine europea ma allo stesso tempo riflettesse il nuovo contesto in cui si andava a trovare la cultura africana.

Questo tuttavia creò un contrasto abbastanza evidente anche ai neri dell’epoca, che da una parte dovevano adattarsi e dall’altra dovevano mantenere un’autonomia culturale. L’esempio lampante di questo conflitto, oltre che il vero atto di nascita del blues, è l’uso dell’inglese. Di solito chi tra gli africani sapeva l’inglese era colui che concludeva gli accordi con i negrieri e spesso si trattava di membri importanti della comunità se non proprio di capitribù. Ne deriva che gli schiavi non sapessero parlare per nulla in inglese e quasi certamente non imparavano durante il viaggio in nave – il cosiddetto middle passage – durante il quale le comunicazioni tra negrieri e schiavi non avevano bisogno di parole. Anche nei momenti dedicati alla musica – riferiscono le fonti pervenuteci – gli schiavi parlavano nella loro lingua. In realtà durante il viaggio gli schiavi, essendo spesso originari di zone diverse, con dialetti se non proprio lingue diverse, dovevano trovare il modo di comunicare attraverso una lingua comune. Nel caso di dialetti diversi il problema era superabile, mentre nel caso di lingue completamente diverse spesso chi era in minoranza o si adattava linguisticamente o finiva per essere emarginato anche tra gli schiavi, spesso con conseguente depressione e morte (la mortalità tra gli schiavi durante il viaggio era quasi del 60%).

Nel periodo precedente all’indipendenza delle tredici colonie gli schiavi venivano tenuti per due o tre anni nelle colonie insulari della Gran Bretagna in modo che potessero imparare la lingua del posto cui erano destinati. Questo tuttavia probabilmente non vale per i primi schiavi arrivati in Virginia, visto che erano bottino strappato da commercianti inglesi a navi probabilmente olandesi, questo porta a concludere che essi impararono l’inglese già in Virginia, permettendoci di datare la nascita del blues intorno al 1622 circa.

La “conversione linguistica” è solo uno degli esempi che testimoniano la nascita del blues e di tutta la cultura afroamericana. Si potrebbe citare il fatto che gli schiavi abbandonarono giocoforza i loro strumenti africani e che, per quanto riguarda il periodo pre-indipendenza, nacquero stili solistici, prima inesistenti nel patrimonio africano, dove la musica era l’occasione per riunire le persone presenti nel proprio quotidiano e pertanto aveva sempre bisogno di un pubblico che partecipasse attivamente all’improvvisazione. Questo bisogno di essere in relazione con un pubblico e dialogarci potrebbe essere un fattore che contribuì sia a diffondere l’inglese tra i neri, sia a far sviluppare loro un uso personale della lingua. I neri iniziarono così a costruire il double talk, una sorta di linguaggio cifrato che potevano capire solo loro, spesso usato indistintamente sia nell’ambito di piccole ribellioni nei campi sia in ambito criminale, due usi che agli occhi dei neri erano entrambi modi di disubbidienza verso una società ostile.

Il double talk era il linguaggio in codice usato dagli afroamericani, una specie di linguaggio figurato in cui termini inglesi comunissimi assumevano tutt’altro significato attraverso le metafore dei bluesman. Queste metafore non erano quasi o per nulla capite dai coloni, i quali credevano (in gran parte) che si trattasse solo di un modo piuttosto primitivo di esprimersi: per esempio l’espressione canned heat (letteralmente “calore in latta”) era usata dagli afroamericani per indicare un whisky di scadente qualità, l’espressione divenne chiara al di fuori delle comunità nere solo durante il periodo del proibizionismo (1919-1933). Questo linguaggio, che agli occhi dei coloni era solo bizzarro e sgrammaticato,  rappresentava solo un motivo in più per considerare gli africani come una razza inferiore da trattare con falso paternalismo.

Deep South

Il blues già dai suoi albori fu uno strumento di resistenza culturale per afroamericani, ma fu anche un tramite che permise loro di adattarsi a un nuovo contesto sociale. Un indice di questo adattamento è appunto l’uso dell’inglese nel blues, un’espressione culturale che gli afroamericani consideravano retaggio della loro terra natia. Anche lo stile musicale solistico fu una novità per gli afroamericani. Come per la lingua, fu dettato da esigenze evidenti anche a loro dal momento che erano in pochissimi e sparsi su tutta la east coast. Questo però non vuol dire che non potesse nascere un nuovo blues che fosse “di gruppo”: per questo bisogna aspettare fino alla fine della Guerra d’Indipendenza americana.

La fine della Guerra d’Indipendenza infatti aprì le porte al commercio schiavistico su larga scala come diretta conseguenza della possibilità di conquistare e coltivare le vaste distese del deep south. Il commercio di schiavi subì un’impennata dopo il 1803, quando l’amministrazione Jefferson concluse l’acquisto del vasto territorio della Louisiana, che andò a raddoppiare il territorio degli Stati Uniti.

L’acquisto della Louisiana raddoppiò la superficie degli Stati Uniti, creando una valvola di sfogo demografico.

La nuova ondata di schiavi in arrivo provocò la formazione di piccole comunità nere su tutto il territorio del paese: il blues era appena diventato uno stile musicale per comunità intere.

La parola “comunità” può trarre in inganno: al contrario di ciò che mostrano le rappresentazioni tradizionali del cinema e non, le piantagioni – e quindi le comunità – che annoveravano centocinquanta o più schiavi comprendevano sì un territorio molto esteso (pari alla metà o più dei terreni disponibili al sud), ma erano pochissime, tanto da essere possedute dall’uno percento della popolazione. La restante metà di appezzamenti era divisa tra piantagioni con un numero di schiavi tra cinquanta e centocinquanta. Quelle con meno di cinquanta schiavi erano di proprietà di famiglie bianche di bassa estrazione sociale, chiamate “spazzatura bianca” dai latifondisti.

Il blues che nacque da questa ondata di schiavismo vide la luce in un contesto molto diverso dal precedente. Con il grande afflusso di schiavi il blues divenne una musica comunitaria, come lo erano stati i suoi predecessori africani.  Essendo la musica di vere e proprie comunità, sebbene piccole, veniva meno il carattere solista a favore di un vero e proprio dialogo paritario tra i vari interpreti, ma le differenze erano anche altre. Quello precedente era stato un blues di neri che, sebbene vivessero con un piede dentro e uno fuori dalla società propriamente detta, avevano acquistato la loro libertà, mentre il nuovo blues era a tutti gli effetti la musica di schiavi senza possibilità di riscatto.

Questi schiavi vivevano in un contesto in cui davvero non avevano altro di personale oltre alla musica, mentre i bluesman precedenti potevano trovarsi a combattere per ottenere qualcosa in più del semplice diritto di cantare. Essi potevano esercitarlo senza restrizioni, mentre gli schiavi potevano farlo a patto di compromettere la loro produttività.

La seconda conversione

Agli schiavi non restava altro che il blues con il senso di comunità ad esso connesso, motivo per cui il blues divenne lo sfondo costante di ogni attività compiessero. Abbiamo notizia di canzoni improvvisate dagli schiavi in ogni occasione, dal lavoro nei campi ai funerali. Ogni avvenimento, piccolo o significativo, aveva un suo sottofondo musicale, ma come fu per i loro predecessori, anche gli schiavi sperimentarono una conversione che avrebbe cambiato per sempre il loro modo di vivere il blues: la conversione al cristianesimo. Gli schiavi si convertirono proprio alla religione dei loro aguzzini, il che suggerirebbe che sia stata una conversione forzata o dettata dall’istinto di autoconservazione: in realtà la situazione era un po’ più complessa.

L’evangelizzazione degli afroamericani si lega alle condizioni di vita che essi affrontavano all’interno delle piantagioni. All’alba o prima c’era la sveglia e un pasto, spesso condiviso con i maiali o altri animali della piantagione: quando non era condiviso con gli animali, questo pasto era comunque del tutto simile a quello del bestiame, e ci sono pochi resoconti che documentano altri pasti oltre a questo. Dopo il pasto iniziava il lavoro, che gli schiavi svolgevano sotto sorveglianza, venendo puniti duramente a ogni mancanza. Per evitare di lasciare qualcuno indietro con il lavoro essi si affidavano al canto e al ritmo di quest’ultimo: questo tipo di canzoni furono chiamate work song. Verso mezzogiorno gli schiavi avevano una piccola pausa che in genere usavano per cantare. A volte il canto era una copertura di eventuali atti proibiti che facevano ai danni della produttività delle piantagioni: sono documentati anche casi di veri e propri piani di sabotaggio della produzione da parte degli schiavi, poi scoperti. Nel caso venissero sorpresi venivano puniti pubblicamente con delle frustate, che gli schiavi consideravano la punizione più umiliante, visto che li metteva esposti davanti alla loro comunità. Nel pomeriggio c’era un secondo turno di lavoro e poteva esserci un’altra pausa prima che fossero scortati nel capanno in cui venivano fatti alloggiare.

La foto risale alla fine del periodo schiavistico e testimonia la brutalità delle punizioni inflitte agli schiavi.

Nei giorni festivi gli veniva data metà o l’intera giornata per le loro musiche. Lo stessa valeva per i funerali, nel cui caso venivano effettuate due cerimonie: una sbrigativa per seppellire il morto e un’altra che durava un giorno intero (a scelta degli schiavi). Anche durante queste cerimonie gli schiavi improvvisavano canti e danze in onore del morto. Tutti i resoconti pervenutici sono concordi sul fatto che, nel caso dei funerali, gli schiavi improvvisavano canti e danze di felicità, al contrario delle  altre occasioni, in cui davano libero sfogo al blues nel vero senso della parola.

Queste manifestazioni musicali erano nient’altro che i prototipi di ciò che in tempi più vicini a noi, gli schiavi appena liberati e i loro discendenti chiameranno spiritual e gospel. Lo spiritual era più antico del gospel, da cui si differenziava per la matrice più marcatamente animista e per l’essere eseguito solo durante cerimonie religiose, il gospel al contrario è più recente e fu il sostituto delle work song in quanto veniva cantato indifferentemente durante il lavoro e in altre occasioni. Col tempo il gospel andò a soppiantare lo spiritual, tanto che spesso vengono usati come sinonimi, visto il comune stile basato sul call and response tra coro e solista.

La diffusione che ebbe lo stile gospel può dare l’idea di come fosse percepita la conversione religiosa dagli schiavi. Il gospel infatti era cantato nelle occasioni più disparate e aveva come argomento storie tratte dal libro dei Salmi: tuttavia la chiave di lettura non era quella della sottomissione. Nei gospel del periodo schiavistico c’erano allusioni più o meno marcate alla libertà da conquistare: n’erano di immediate, come il paragone con la schiavitù e liberazione degli ebrei dall’Egitto, o altre come quella un po’ più sibillina del fiume Giordano in riferimento al Mississippi visto come una via di fuga. Anche in questo stile musicale interveniva il double talk, ma in maniera meno oscura visto che la fonte dei gospel era conosciuta anche dai padroni.

L’evangelizzazione degli afroamericani fu completata formalmente solo nella prima metà del Diciannovesimo secolo, principalmente per due motivi: da una parte i missionari erano pochi, dovevano adempiere altri obblighi verso le comunità a loro affidate e avevano pochi mezzi per istruire gli afroamericani, dall’altra i proprietari terrieri erano indifferenti se non proprio ostili alla conversione degli schiavi percependo il pericolo di un eventuale messaggio cristiano contrario alla schiavitù. Quando la conversione divenne inevitabile i proprietari terrieri provarono ad anticipare i vari missionari inculcando agli schiavi un’idea di cristianesimo come sottomissione al padrone. I loro sforzi furono inutili in quanto si affidarono il larga parte a missionari afroamericani convertiti da quelli di origine europea. Questi missionari neri di certo non erano stati istruiti ad essere alfieri della libertà dai missionari europei, tuttavia essendo in grado di leggere, si erano fatti la loro idea personale di cristianesimo. Abbiamo molte testimonianze sotto forma di diario, scritte da missionari afroamericani in cui affermano di istruire gli schiavi secondo il desiderio dei padroni durante il giorno e di recarsi di notte negli alloggi degli schiavi per predicare la libertà, la disobbedienza e la speranza di una vita migliore.

L’allevamento degli schiavi

Gli effetti di questa conversione furono enormi: già nel 1812 durante un conflitto tra inglesi e statunitensi, moltissimi schiavi tentarono e riuscirono a fuggire su invito degli inglesi, preparando così il terreno per la Guerra di Secessione americana. Gli effetti di questa conversione furono amplificati inconsapevolmente dai proprietari terrieri che reagirono ai sempre più alti costi di schiavi “freschi” con l’allevamento degli stessi, facendo in modo di far approvare una precisa legislazione in merito. I latifondisti riuscirono a ottenere di poter trattare gli afroamericani come vero e proprio bestiame, da cui li differenziava la capacità di parlare. Questa pratica, tuttavia, non fece altro che amplificare il senso di comunità degli schiavi e il loro desiderio di rivalsa.

Bibliografia

Sulla musica degli schiavi fino alla Guerra di Secessione c’è un’infinità di fonti da archivio, queste sono state studiate da Dena J. Epstein che le analizza nel volume:

Sinful Tunes and Spirituals: Black Folk Music to the Civil War, il volume contiene anche una vasta bibliografia di fonti divise per argomento, quasi tutte si possono reperire su internet.

Per quanto riguarda la storia statunitense, un testo leggero e attento agli afroamericani è Storia degli Stati Uniti di Oliviero Bergamini.

Sul double talk il miglior testo in circolazione è Angeli perduti del Mississippi. Storie e leggende del blues, che è  un vero e proprio dizionario, mentre sulla tratta atlantica in generale c’è La tratta degli schiavi. Un saggio di storia globale, di Olivier Petrè-Grenouilleau.

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