Mercoledì 6 settembre la Commissione d’Inchiesta dell’Onu, nel suo quattordicesimo rapporto sulle violazioni dei diritti umani e crimini di guerra commessi in Siria, ha accusato Assad di aver usato armi chimiche almeno in quattro occasioni fra marzo e giugno del 2017. Fra queste vi è l’attacco del 4 aprile a Khan Sheikhoun, che ha causato la morte di almeno 83 persone, tra cui 30 bambini, divenendo uno degli attacchi più noti e scioccanti all’interno della guerra siriana negli ultimi tempi, sicuramente da un punto di vista mediatico.
La guerra in Siria è una di quelle questioni nelle quali, purtroppo, è impossibile non imbattersi. È una guerra complicata e difficile da definire. Iniziata sotto forma di proteste anti-regime durante le cosiddette “primavere arabe”, vede adesso mischiarsi la lotta alla sopravvivenza di un regime arabo violento e autoritario, quello del sovrano Bashar al-Assad, le ambizioni di un gruppo terroristico che cerca di creare uno stato autosufficiente, l’Isis, le rivendicazioni delle minoranze etniche discriminate per anni, e il coinvolgimento di potenze straniere che vedono in questa guerra un’occasione per trasformare gli equilibri geopolitici a proprio favore. Purtroppo, dopo sei anni e mezzo di guerra civile, la Siria è un Paese che giace tra le sue rovine e la sua rinascita sembra ancora troppo lontana, dal momento che il governo Siriano, lo Stato Islamico, le fazioni curde e altri gruppi ribelli continuano a combattersi per le parti più importanti del Paese.
L’attaco di Khan Shaykhun
L’attacco di aprile è stato il peggiore da anni: iniziato intorno alle 6 di mattina ora locale, ha colpito la città di Khan Shaykhun, a circa settanta chilometri da Idlib. Esaminando i corpi delle vittime, si è pensato subito a un attacco eseguito con armi non convenzionali, o comunque diverso da un attacco col cloro, sostanza usata molto da Assad negli ultimi anni. I testimoni hanno infatti raccontato di persone con difficoltà respiratorie, schiuma alla bocca, vomito e pupille ridotte a un puntino, tutti sintomi compatibili con l’utilizzo del sarin, un tipo di gas nervino, che agisce rapidamente ed è più letale del cloro. Qualche ora dopo c’è stato un altro attacco, con armi convenzionali, all’ospedale dove era stata portata la maggior parte dei feriti fino a quel momento. Attacco che ha fatto immediatamente ipotizzare che si trattasse della strategia double tap, ovvero bombardare i soccorritori che cercano di aiutare le persone rimaste ferite nel primo bombardamento. In questo modo i danni e i morti vengono massimizzati.
Perché si è pensato subito ad Assad
Diversi attori internazionali, tra cui l’Unione Europea e gli Stati Uniti, hanno individuato sin da subito nella figura di Bashar al-Assad il responsabile dell’attacco. Infatti, il sarin era già stato impiegato dalle truppe di Assad diverse volte, tra le quali ad agosto 2013 nell’attacco chimico con i razzi nei sobborghi di Damasco, nell’area di Ghouta, dove rimasero uccise 1.400 persone e fu oltrepassata la cosiddetta linea rossa di Obama, ovvero il limite, dato dal divieto di usare armi chimiche, che, se oltrepassato, avrebbe portato a un intervento militare statunitense, cosa che però non avvenne. Inoltre, anche la tattica del double tap è stata spesso usata da Assad. Il governo russo ha tentato di difendere il governatore siriano, accusando gli stessi ribelli di essere artefici dell’attacco, per poi smentire e attribuire il fatto all’aviazione siriana, con la giustificazione però che fossero diretti contro un deposito di sostanze chimiche e non contro la popolazione civile: le sostanze chimiche si sarebbero poi disperse, provocando morti e feriti. Anche se è vero che la zona colpita è sotto il controllo completo dei ribelli che si oppongo ad Assad, ovvero, semplificando, un insieme di gruppi jihadisti, islamisti e moderati che per ragioni di opportunità si sono uniti per combattere contro il regime, nella provincia di Idlib abitano però anche numerosi civili. Molti di questi sono originari di altre zone della Siria e sono stati costretti a emigrare in seguito agli assedi militari delle forze armate del governo. Il regime siriano e i suoi alleati sono le uniche forze militarmente coinvolte che hanno mostrato l’interesse e la volontà di bombardare i ribelli, soprattutto per distruggere ulteriormente il morale della popolazione. Un altro motivo che ha portato a pensare immediatamente ad Assad è il fatto che le bombe fossero state verosimilmente sganciate da aerei militari: i ribelli siriani non dispongono dell’aviazione, quindi non sono in grado di compiere un attacco di questo tipo. Infine, è completamente improbabile pensare che le bombe siano state sganciate dalla coalizione internazionale che combatte in Siria, guidata dagli Stati Uniti, dal momento che questa ha come obiettivo principale l’abbattimento dello Stato Islamico.
Il rapporto delle Nazioni Unite
La Commissione d’Inchiesta ONU sulla repubblica araba di Siria, creata con la risoluzione S-17/1 dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite con l’obiettivo di investigare sulle violazioni dei diritti umani internazionali commessi in Siria dal 2011, ha ufficialmente accertato la responsabilità del governo siriano, specificando che l’attacco a Khan Sheikhoun è solamente uno degli altri venti attacchi chimici effettuati tra marzo 2013 e marzo 2017 dalle forze governative. Le conclusioni apportate dalla Commissione si basano sulle interviste di 43 vittime e testimoni dell’attacco, sui quadri tecnici di bordo degli aerei impiegati che hanno registrato i movimenti, su analisi condotte tramite satellite e foto, e sulla relazione dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, eseguita partendo da campioni medici prelevati dalle vittime, che già a giugno aveva confermato l’utilizzo del gas sarin -o altre sostanze simili- nell’attacco. Il rapporto ONU ha inoltre confermato l’ipotesi della tattica double tap sopracitata: l’attacco verificatosi ore dopo in un punto medico ha ostacolato i salvataggi e le opportune cure delle vittime.
La Commissione riporta anche altri crimini di guerra commessi in Siria tra marzo e luglio, evidenziando che più di 600.000 persone sono ancora senza cibo e assistenza medica, e subiscono bombardamenti in modo indiscriminato. Le zone di de-escalation, stabilite tramite un accordo tra Iran, Russia, Turchia e Kazakhstan lo scorso maggio, con l’obiettivo di creare delle aree immuni dallo spargimento di sangue, hanno portato alla riduzione di violenze in alcune parti, ma allo stesso tempo ad un aumento di quest’ultime in altri luoghi, dove gruppi armati si sfidano per avere il controllo del territorio. Le forze governative e i gruppi armati hanno stipulato accordi per l’evacuazione di combattenti e civili da sette città tra aprile e maggio, ma, nonostante la presenza di organizzazioni umanitarie, le evacuazioni sono state forzate, senza consultare i civili su dove volessero andare. Molti di loro sono quindi scappati per la paura di essere imprigionati o arruolati nel servizio militare, senza garanzia di fare ritorno alla propria vita normale.
Infine, il rapporto menziona l’attacco areo condotto dalla coalizione statunitense lo scorso marzo ad Al-Jinah, nella provincia di Aleppo, in un luogo religioso, che ha portato alla morte di almeno 46 persone, tra cui cinque bambini. Gli Stati Uniti già a giugno avevano giustificato l’attacco con l’obiettivo di colpire un punto di ritrovo di Al-Qaeda e che solo un civile fosse morto, ma l’ONU sottolinea la mancanza di precauzioni sufficienti per proteggere i civili e classifica questo attacco come una grossa violazione del diritto internazionale.
E adesso?
Come precedentemente illustrato, il regime siriano aveva già impiegato del gas sarin diverse volte, tra le quali nel drammatico attacco dell’agosto del 2013, rimasto però impunito sul piano militare, nonostante l’utilizzo di armi chimiche sia contro il diritto internazionale. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, unico organo in grado di autorizzare un intervento internazionale, non riuscì infatti a trovare un accordo, a causa della presenza di attori dagli interessi tuttora divergenti, come Russia e Stati Uniti. Gli Stati Uniti, spinti anche da molte proteste internazionali e un digiuno per la pace promosso dal Papa, non dettero seguito alle minacce di un intervento unilaterale. La Russia, d’altro canto, si propose come mediatrice per promuovere un accordo con Assad, con lo scopo di smantellare l’arsenale chimico ed evitare il ripetersi di attacchi di quel tipo. Come sappiamo non andò così, e allo stato attuale sarebbe impossibile ripercorrere una strategia diplomatica per minacciare Assad, perché le cose sono cambiate. In primis, la Russia è coinvolta militarmente in Siria, dove ha mandato mezzi e uomini per assicurarsi della sopravvivenza del regime di Assad. Infatti, Putin vuole preservare il suo unico sbocco sul mar Mediterraneo (grazie alla base navale di Tartus), e soprattutto vuole cercare di imporsi espandendo il proprio controllo geopolitico, a discapito in primis del ruolo degli Stati Uniti in Medio Oriente. Assad, infine, grazie anche all’appoggio russo, è riuscito a riconquistare Aleppo, uno dei campi di battaglia più importanti, e a ridurre notevolmente il potere dei ribelli, spostando la bilancia dei rapporti a proprio favore, e cacciando l’Isis da luoghi strategici, tra cui Palmira. Lo scorso luglio invece, Trump e Putin, durante il loro primo incontro, hanno raggiunto un accordo per un cessate il fuoco nella parte sud-ovest del Paese. Nel frattempo, i combattenti Curdi hanno ottenuto territori nel nord della Siria, a discapito ancora dell’Isis, che sta perdendo territori anche in Iraq. Equilibri dunque incerti e una tregua molto lontana, come dimostra anche il recentissimo raid aereo israeliano, dove almeno quattro cacciabombardieri israeliani hanno colpito poco prima dell’alba il Syrian Scientific Researchers Center di Masyaf, nella provincia di Hama, sospettato di essere uno dei centri di ricerca militari siriani dove sono state sviluppate armi chimiche. Israele, infatti, è un altro attore che si è inserito in questo conflitto, schierandosi contro Assad con attacchi a convogli militari siriani o basi legate a Hezbollah, suo storico rivale, che nel tempo si è ritagliato un ruolo molto importante nella guerra in Siria, appoggiando il governo ufficiale.
Troppi dunque gli interessi in gioco e gli attori coinvolti, la sola cosa certa è la risposta di Damasco alle Nazioni Unite, che con una lettera afferma di non aver mai usato armi chimiche contro la sua popolazione, in primo luogo perché non ne possiede. Ma la realtà ci dimostra il contrario e la pace essere ancora troppo lontana.