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La libertà all’interno del classicismo

Published by
Matteo Petroncini

Il fatto che parlando di periodo classico in musica inevitabilmente ci si ricolleghi anche al concetto di perfezione formale non deve stupirci. Gli anni a cavallo tra il Diciottesimo e il Diciannovesimo secolo hanno infatti visto allo stesso tempo la nascita, la standardizzazione e la distruzione di tutte le più importanti forme musicali. Le colonne portanti di questo capitolo di storia della musica sono Haydn, Mozart e Beethoven.
Facciamo però un passo indietro: perché questo periodo viene chiamato classicismo? In musica infatti non vi è stato un vero e proprio archetipo classico come per le arti figurative, la letteratura e l’architettura. Per ragioni di interrotta tradizione infatti non ci sono giunti, se non in piccolissime tracce, manoscritti riguardanti la musica greca o latina. Viceversa tutta la musica occidentale fa riferimento al gregoriano come prima forma musicale scritta, secoli dopo le altre grandi arti. Ad ogni modo, la musica occidentale ha lentamente conquistato un substrato, e dopo sperimentazioni e grandi apici di musicalità è riuscita a costruire dei canoni mirati alla consonanza e al soddisfacimento della percezione acustica.

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Questo non vuol dire che la musica di Mozart sia semplicemente un sollazzo per l’orecchio del suo pubblico: l’articolazione ferrea, ma allo stesso tempo spontanea, di consonanze e dissonanze, di ritmo e armonia, di timbri e dinamica, ha infatti reso i suoi brani equiparabili a una tragedia di Sofocle.
Un altro motivo per cui possiamo considerare questo periodo come fonte della classicità in musica è il fatto che le acquisizioni di quegli anni siano diventate l’ago della bussola per i compositori a venire, che si sono posti in atteggiamento favorevole o rivoluzionario nei confronti dei canoni scolpiti dalla triade Viennese. Le grandi forme che si affermano sono la sonata (per qualsiasi strumento, anche per più di uno), la sinfonia (per orchestra), il quartetto e il concerto (per strumenti solisti e orchestra). Queste quattro forme, per quanto stravolte e magari meno usate negli anni, sono durate fino ai giorni nostri. Hanno scritto sonate Chopin, Liszt, Prokofiev, Stravniski e addirittura Sciarrino. Le sinfonie sono arrivate a Mahler e Shostakovitch, persino Berio ha ripreso degli scritti sinfonici di Schubert per scrivere il suo lavoro Rendering.

Come per ogni argomento occorre guardare più da vicino la situazione ed evitare generalizzazioni. Se infatti per Mozart e Haydn vale il discorso sulla naturalezza e la spontaneità, lo stesso non può essere detto per Beethoven. Il vero padre del classicismo è Haydn per due motivi: è il più vecchio ed è stato il maestro degli altri due, per quanto Beethoven non si fosse trovato benissimo con lui. La sua opera è estremamente variegata, e la sua particolarità è un’intensa ironia che ha fatto sì che i suoi brani, dopo una lunga latenza, siano rientrati di diritto nel repertorio, nonostante la padronanza di sonate e quartetti sia a volte inferiore a quella di Mozart. Quest’ultimo invece rappresenta la conferma: è infatti chiaro come il bambino prodigio manifesti nella sua musica tutti i vantaggi della sua dedizione infantile alla composizione. Mozart infatti parla il linguaggio musicale come parla il tedesco, il tempo di composizione delle sue innumerevoli opere corrisponde al tempo di esecuzione. La padronanza delle forme si percepisce nella scrittura semplice, ma allo stesso tempo geniale. Mozart compie inoltre una grande innovazione: egli infatti era un grandissimo esperto del genere operistico, del quale possiamo riscontrare le caratteristiche drammaturgiche anche nei pezzi solistici, cameristici e orchestrali del compositore di Salisburgo. Questo perché tende a caratterizzare i temi in modo melodico, tanto da poter collegare a una determinata frase il carattere del vecchio baritono, dell’eroico tenore o del bel soprano.

La caratterizzazione delle linee verrà poi canonizzata da Beethoven in maniera diversa, che rimarrà valida anche per tutto il romanticismo. Beethoven è diverso, sarà infatti lo “smantellatore” delle forme classiche, pur rimanendoci sempre dentro. Mentre i manoscritti di Mozart sono fluidi e senza correzioni, i suoi sono dei veri e propri campi di battaglia: l’uno pensa e scrive di getto, l’altro ragiona e pianifica per ore; uno scrive più di quaranta sinfonie e diverse opere, l’altro nove sinfonie e un’opera molto controversa. L’inferiorità numerica però si riflette in un’attenzione maniacale e in un’innovazione nel comporre che porterà i suoi successori a doversi reinventare. Nella musica di Beethoven si riscontrano due particolari motori: l’estrema caratterizzazione dei temi (tanto da essere riconoscibili anche al secondo ascolto) e il complesso di inferiorità nei confronti di Bach. È evidente quando si analizza l’Ouverture Leonora, della quale esistono tre versioni. Si osserva lo sviluppo del tema, che dalla prima alla terza versione diventa sempre più particolare, più comunicativo, fino ad essere un vero e proprio concetto stigmatizzato nel brano, chiaro e puro. La competizione con Bach deriva dal fatto che Beethoven era stato uno dei pochi a usare come materiale di studio il grande contrappuntista, elemento visibile dai numerosi momenti di polifonia che si incontrano in ogni tipo di suo scritto. Allo stesso tempo però il contrappunto delle fughe poco si confà alla volontà di esaltare le caratteristiche del tema. Nella polifonia barocca, infatti, le voci rinunciano a parte della loro indipendenza per andare a partecipare al processo musicale. Anche quando scrive la Grande Fuga, Beethoven rende il soggetto così caratteristico che si fa fatica a collegare quella scrittura a quella di Bach.

Quando si parla di rigidità formale del periodo classico si commette un grosso errore: la forma è importante nella comunicazione perché si adatta ai pattern neurologici umani, ma allo stesso tempo è fondamentale un grado di libertà che ci comunichi quello che l’uomo cerca dall’alba dei tempi: libertà nella sicurezza.

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