Circa due anni fa Anne Ross, production designer di Sofia Coppola, portò all’attenzione della sua collega La notte brava del soldato Jonathan (1971) di Don Siegel. Le disse: «Devi farne una nuova versione o un remake». Coppola alzò subito le mani: «Non farei mai un remake di un film». Nonostante questa dichiarazione di principio, guardò il film ed esso cominciò a sedimentarsi nella sua mente.
La notte brava del soldato Jonathan di Don Siegel
Il thriller sentimentale di Siegel è una trasposizione del romanzo The Beguiled (1966) di Thomas Cullinan. Siamo nel Mississipi, durante la guerra di secessione americana. Una giovanissima allieva del Miss Martha Farnsworth Seminary for Young Ladies si avventura nel bosco in cerca di funghi. Si imbatte in un plus improvviso e inaspettato: il corpo di un caporale nordista nel fogliame. Spaventata, presto si rende conto che l’uomo non può farle del male, perché è in condizioni fisiche disperate. Rispondendo alla sua affaticata richiesta di aiuto, gli offre un riparo dai cannoni della guerra presso il suo collegio. Il caporale, che si presenta subito come Jonathan McBurney, chiede se non ci sia alcun uomo. La bambina risponde di no e fa presente che non sarà calorosamente accolto, ma la prospettiva è sempre migliore di quella attuale. In effetti oltre che guarire, McBurney vede subito il vantaggio di essere un beato tra le donne, le quali non toccano un corpo maschile da molto tempo. Don Siegel dà il suo contributo a una corrente florida del cinema americano degli anni ’70. Erano i tempi della liberazione sessuale dalle precedenti repressioni di Hollywood, dal passato americano bigotto. La notte brava del soldato Jonathan quindi è figlio del suo tempo: un b-movie provocatorio, torbido, che, secondo lo stesso regista, doveva mostrare «il desiderio fondamentale della donna di castrare l’uomo». Rifletteva un’ansia del genere maschile che allora era più che viva, trasferendola così nel protagonista Clint Eastwood. Le tensioni e contese sessuali regnano, opposte a un contesto puritano. Il titolo originale del film è The Beguiled, rispettando l’omonimo romanzo. Il verbo inglese to beguile significa sedurre qualcuno al fine di ingannarlo. The Beguiled quindi si riferisce a qualcuno che è stato adescato e tradito. La storia costruirà un sinistro doppio filo su chi sia il soggetto in questione. Il torbido esce fuori non soltanto dalla fluidità di Eastwood, che passa dalla lusinga sessuale di una a quella di un’altra, ma da come il sesso si leghi alla violenza, sia maschile che femminile, oltre che alla sfera dell’inconscio: agli impulsi proibiti dell’incesto, a rapporti sessuali di genere fluido o a relazioni tra individui di età sin troppo lontana.
La reinterpretazione di Sofia Coppola
Non sorprende che il film abbia solleticato la sensibilità di Sofia Coppola, diventata un baluardo del cinema femminile pop. Non rinuncia alla sua idea di non fare un remake e specifica, infatti, che intende riprendere The Beguiled per farne una rilettura da un’angolazione diversa. Si discosta dal punto di vista «macho» di Eastwood e sceglie di assumere quello delle donne rinchiuse nel collegio, isolate dalla guerra e così anche dal mondo esterno. La percezione tutta femminile dell’imprigionamento è una sua prerogativa costante. Esordì nel 1999 con Il giardino delle vergini suicide, dove una Dunst giovanissima faceva parte del misterioso collettivo delle sorelle Lisbon, segregate in casa da una madre a sua volta puritana. Ci fu poi Lost in Translation (2003) con Scarlett Johansson e Bill Murray. Tokyo era popolata da voci incomprensibili, isolando i protagonisti e parlando eloquentemente di una loro dissociazione più intima, che riposava insonne in stanze doppie di hotel, ricreate per essere il bozzolo di una singola personalità. Coppola poi confermò un sodalizio con Dunst in Marie Antoinette (2006), dove gli ambienti frou frou di Versailles decoravano il confinamento angusto della regina adolescente. Non sono esenti i meno riusciti Somewhere (2010) e The Bling Ring (2013), che parlavano a loro volta di una profonda disconnessione dalla realtà, di nuovo in ambienti privilegiati – come quello di origine di Coppola, d’altronde, etichettata spesso come “figlia di papà”.
Il principio per L’inganno era rendere non più i personaggi femminili come proiezioni erotiche, sinistre, talvolta caricaturali, dell’ego maschile di John McBurney, ma indagare più a fondo nei loro motivi di anelito sentimentale o sessuale, di una più generale voglia di liberazione. Coppola così elimina molti punti osé dell’opera precedente, come l’incesto, per rispondere alle sue specifiche prerogative, molto meno sensazionalistiche e più compassate.
Il cancello di Martha Farnsworth
Al contrario del film di Siegel, Coppola rinuncia volutamente a un’intrusione diretta di immagini di guerra, mettendo da canto le soggettive in flashback di McBurney. Sin dalla scena di apertura, la guerra civile si manifesta attraverso il suono di cannoni più o meno lontani, sempre un po’ più in là della vegetazione rigogliosa che circonda il collegio. Infatti si svela subito il prezioso contributo del direttore della fotografia Philip Le Sourd, che inonda di luce ampi spazi verdi, in un formato pellicola 35mm in rapporto 1,66. Questo esalta nei campi lunghi la statura degli alberi in contrasto con le figure molto ridotte dei singoli individui. Il giardino entro il cancello di Martha Farnsworth coadiuva un’abitazione-bolla, marchio di fabbrica della regista. La casa ha una sua scansione di routine precisa: le giornate passano attraverso lezioni nozionistiche di lingua francese da cui è rimosso il pronome “il”, attraverso ore e ore di cucito e lavori di giardinaggio. Il concetto di nemico in guerra è lo sporco yankee, la banda blu, che le più piccole disprezzano acriticamente, come una pappa predigerita. Martha Farnsworth è a capo della comunità, orchestrando l’anestetizzata quotidianità delle ragazze. Coppola marca molto di più la sua forte religiosità con vestiti casti, immancabili preghiere prima dei pasti e letture serali della Bibbia. Le atmosfere gotiche e oppressive, risalenti alla versione letteraria, sono esaltate dagli interni, che in contrapposizione all’esterno sono spesso tenui o addirittura oscuri, valorizzati dal lume di candela.
Arriva l’uomo nero?
Il film parte dallo stesso punto: Amy, la più piccola del collegio, trova il corpo di McBurney nel bosco e lo raccatta per portarlo presso Martha Farnsworth. L’arrivo di un uomo presso il collegio allenta i sigilli della residenza: la sua inerzia è sconquassata, le sue abitudini lievemente modificate, l’incolumità delle donne è minacciata da McBurney in quanto uomo in tempi di magra. Si articola di più questo caporale nordista, si smussano i suoi contorni, rendendolo più umano. Il primo tradimento intessuto dalla storia infatti è quello di McBurney verso i suoi doveri militari. Avendo vissuto sul proprio corpo infortunato la violenza della guerra, non ne vede più i fasti patriottici e desidera solo fuggirne il più a lungo possibile, sperando che la signora Farnsworth cambi idea sulla sua dipartita celere. A loro volta le donne stanno compiendo un atto traditore, nascondendo un nemico nelle loro stanze invece che consegnarlo all’esercito. In primis le donne di Coppola sono molto meno isteriche di quelle di Siegel, portate invece a una compassione di fondo: le condizioni del soldato sono pietose e in fondo si tratta di una situazione da cui ne guadagnano anche loro, per quanto nascostamente. Il senso di sorveglianza è reso dalla regia e dalla sceneggiatura attraverso vari espedienti, che sono valsi alla Coppola il premio alla miglior regia nell’ultimo festival di Cannes, diventando la seconda donna a vincerlo nella storia del concorso. Si ripetono delle scene di vedetta in cui a turno una delle ragazze sbircia al di là del proprio giardino con un monocolo, ripresa da lontano, come se noi spettatori fossimo a nostra volta degli osservatori vigilanti, nascosti in qualche cespuglio. La camera ogni tanto si pone alle spalle dei personaggi o appena lontano, impedendoci di vedere i loro volti mentre conversano e imponendo una lieve distanza, la stessa che tante di loro cercano di mantenere davanti alla presenza di questo estraneo.
Il conflitto tra i sessi si manifesta sin da subito dalla colonna portante del collettivo femminile, Martha. L’uomo, in quanto scomoda minaccia, viene spogliato di qualsiasi caratteristica distintiva che possa renderlo materia di una conoscenza privilegiata: non si memorizza il suo nome perché non importante, la sua opinione è irrilevante e ciò che si fa per la sua guarigione non deve essere interpretato come un piacere a suo vantaggio. Tuttavia è proprio con il suo corpo che si familiarizza fin da subito, da quando Farnsworth passa un panno bagnato sulle membra sporche del caporale, addormentato. Coppola sottolinea questo movimento, facendo sì che la direttrice, tormentata tra un pudore riluttante e una curiosità rinnovata, indugi più del necessario su di esso. La giovane, sensuale e ribelle Carol (Elle Fanning) lo vede come un’occasione di scoprire piaceri erotici inediti e proibiti, lontano dalla noia dello stile di vita della Farnsworth. Così anche Edwina, repressa maestra dagli occhi bassi e tristi, unica adulta insieme a Martha, contempla turbata la sua strana presenza virile.
Non è però attraverso la sua sola presenza fisica che McBurney pensa di sedurre le donne e di guadagnarsi una permanenza a lungo termine. L’interazione con lui è un’occasione per disvelare la specifica sensibilità dei quattro personaggi femminili principali. Si fa a turno ossequioso e diplomatico con Martha, un cauto e acuto confessore con Edwina, interpretando il suo desiderio di libertà, di fuga dalle sbarre del collegio e facendolo suo. Risponde poi con simpatia alle occhiate sensuali di Carol e ancora diventa il migliore amico della piccola Amy. Così il suo nome al contrario si pronuncia, diventa John e non soltanto Jonathan, segno quindi di una confidenza preferenziale che ognuna di loro crede una conquista esclusiva. La sua opinione diventa importante, le vesti delle ragazze che s’aggirano per casa sono ora ornate da una spilla oppure dagli orecchini custoditi a lungo nel portagioie.
Una questione di fiducia
Il tentennamento tra la possibilità di dover andarsene subito e la lotta per protrarre il termine della sua permanenza è un punto molto più sviluppato da Coppola che da Siegel. Esso infatti è intimamente connesso con quanto possa solleticare la percezione di queste ragazze della loro femminilità e del loro senso di solitudine. Il passaggio dall’ostilità a una sostanziale benevolenza, per quanto vigile, si manifesta nel cambio di spazi. Dal relegamento in una stanza privata, il caporale comincia a camminare per le altre ale della casa, a curare il giardino e assistere alle attività delle altre. Coppola rende con un’atmosfera sospesa, una versione delicata del filone thriller, la fragilità di questo tacito accordo tra sessi, in cui la forza fisica del maschio può trasformarsi sempre nella sua versione negativa, rompendo una debole convivialità con l’irruzione di una violenza incontrollabile. È tutta una faccenda di controllo, infatti, colorando il film di una vena più sardonica e giocando sui ruoli di genere. Mai come nel punto più nevralgico dell’opera emerge la domanda: chi sta ingannando chi? Da che parte è il manico della scopa? Questa casa sembra relegare l’uomo in un letto a fiori e farlo muovere soltanto con un esplicito permesso, ma allo stesso tempo egli in quanto tale fa esplodere desideri sino ad allora inespressi, di cui l’insopprimibile libidine maschile vuole approfittare senza un aut-aut monogamico. I rituali religiosi diventano un rumore vuoto e una sequela di gesti meccanici, mentre nel tumulto di sé si accarezzano soggetti di natura ben diversa.
Infatti se il generale McBurney si insinua nei favori di ben tre donne diverse, allo stesso tempo esse credono di fare un loro privato gioco, di piacere sessuale al riparo da occhi indiscreti e potenziali rivali. Coppola non è nuova all’argomento della repressione femminile: già in Il giardino delle vergini suicide la giovane Lux vendicava la sua voglia di esplorazione sessuale oltre le sterilizzazioni simboliche ed egoiste della madre, parlando di quanto fosse folle stroncare le pulsioni nascenti di un’adolescente per la paura che il mondo esterno le faccia del male. Così anche qui McBurney è l’incarnazione di un mondo fino ad allora relegato fuori dal cancello, la mutevolezza di esso e la sua pericolante umanità. È anche una vita messa alla prova, che domanda ogni giorno di scegliere come operare. L’alterità da cui erano isolate le ragazze fa sì che l’esperienza umana in sé sia irriducibile ai recinti costruiti da Farnsworth. Eppure la sopravvivenza richiede anche misure conservative.
Scontri di genere
Coppola rielabora la violenza esplicita di Siegel con alcune ellissi e sparuti deliri di risvolto comico. Scegliendo uno screen-time più ristretto, cioè novanta minuti circa, il passaggio repentino dalla prima sezione della storia alla seconda (breve) fa sì che ne soffra anche la caratterizzazione dei personaggi e il ritmo narrativo. Tuttavia c’è il tempo per un’orchestrazione nera di inganni, dove esplodono i caratteri irrazionali dell’uomo e quelli più freddi e brutali delle donne, una volta che la loro sicurezza e la loro essenza è minacciata. L’uno è spesso impulsivo, dimenantesi in una furia animalesca e geloso di ciò che ritiene gli dia una sostanziale autorità mascolina, un esplicito dominio. L’altra è silenziosa, pronta a tramare e ordinare gli elementi a disposizione per trovare della materia d’inganno, appunto, e sopravvivere. Se Cechov diceva che una volta entrata una pistola in scena, essa dev’essere usata prima o poi, Coppola non si serve della lezione nella maniera più ovvia. La messa da parte dell’unica cartuccia a disposizione di Martha per difendersi la dice lunga sul tipo di contrapposizione instaurato dai due poli di genere nei momenti più tesi del film. Coppola mostra allora questo collettivo non solo nei suoi momenti di deriva taciturna e di rivalità, ma anche nelle sue risorse e collaborazioni solerti. Il genere gotico qui diventa la malinconia femminile in controluce. Ma è anche l’intrusione elettrizzante e pericolosa dell’uomo, come dell’anarchia della guerra. La regista dice a Rollingstone: «Il mio scopo principale era immaginare com’era per queste donne, che erano state cresciute per essere delle signore, dover sopravvivere durante un tempo così brutale.» Quest’ultimo d’altronde è evento guerresco imposto dall’alto, abbandonandole a se stesse e costringendole ad una scrupolosa e rigida autodifesa, oltre che alla reinvenzione di sé.