Personaggio affascinante musicalmente e umanamente, l’anglo-ghanese Benjamin Clementine, pelle e occhi neri, fisico efebico e personalità complessa e travolgente, con una storia affascinante alle spalle e un’indole poetica d’altri tempi, ritorna con il secondo lavoro: I Tell A Fly.
Clementine è salito agli onori della stampa grazie alla sua opera prima, At Least For Now, vincitrice del Mercury Prize 2015, che gli ha valso accostamenti a Nina Simone per il mood soul e la voce potente, eppure delicata, pronta ad accarezzare e a graffiare, laddove serve, e a Satie per la perizia e la stravaganza ai tasti del pianoforte (imparato da autodidatta), sempre in bilico tra classicismo e avanguardia. A contribuire alla figura e alla poeticità del personaggio, un passato da busker per le vie di Parigi, dieci anni vissuti in strada tra ristrettezze e performance intense di cui si ritrovano ancora testimonianze su Youtube, il tutto in funzione di una voglia di libertà senza compromessi, una indole bohemien che ritroviamo anche nel nuovo I Tell A Fly.
Laddove in At Least For Now vi era una compostezza di fondo, una composizione tutto sommato pop su cui Clementine era libero di viaggiare con pianoforte e voce (come si può notare in instant classics quali London o Cornerstone) e una attitudine minimalista (pochi e leggeri tocchi di archi e leggeri spunti elettronici, specialmente nell’opening Winston Churchill’s Boy), oltre che una precisa idea vocale in bilico tra cantautorato all’americana e pura perizia tecnica soul, a riempire quasi ogni istante dell’album, I Tell A Fly presenta genesi e intenzione completamente diverse. Un album volutamente anticommerciale, sofferto al punto tale che lo stesso autore ha minacciato più volte la casa discografica (Behind/EMI) di mollare tutto e ritornare alla vita da busker in caso non avessero accettato l’album da lui proposto.
I Tell A Fly si sviluppa come un album poco cantato, destrutturato, caotico: nelle precise intenzioni di Clementine, innanzitutto poeta e poi musicista, l’album è più vicino a un’opera teatrale e non a una raccolta di canzoni; l’autore, partendo dalle sue esperienze personali e ponendosi a filtro di ciò di cui racconta, quale narratore interno e commentatore non imparziale, ci trasporta in un balletto onirico, narrandoci del viaggio di due mosche, simbolicamente organismi alieni, stranieri, di passaggio in luoghi di guerra. L’attitudine autobiografica dell’autore emerge prepotente (e volutamente) persino in un concept del genere: alieno dalla nascita, per colore della pelle, collocazione geografica, aspirazioni e proposta artistica, Clementine sostiene di aver avuto l’ispirazione iniziale per l’album dal suo visto da artista per gli USA, che lo definiva come «un alieno dalle straordinarie abilità», cosa che dopo averlo lasciato perplesso, a tratti irritato, ha fatto propria, in virtù del suo status di viaggiatore ed esploratore, mai a proprio agio in alcun posto.
Così, in I Tell A Fly, l’esperienza umana di Clementine si unisce al suo sguardo sul mondo: la scelta di ambientare il viaggio delle due mosche nei luoghi di conflitto, dalle scuole londinesi teatro di bullismo ad Aleppo, per approdare alle coste della Sicilia in un barcone di profughi, fa decisamente parte delle nuove strade sperimentate dall’artista, sempre più teatrali e a tratti parodistiche, sperimentate già in Hallelujah Money, singolo apripista dell’ultima fatica dei Gorillaz, Humanz. La politicizzazione del brano (un grottesco ritratto di Donald Trump su ritmi che strizzano l’occhio alle sperimentazioni elettroniche più notturne) risulta quasi un apripista per quello che è il nuovo corso di Clementine, che ha ammesso di essere stato influenzato nella scrittura dalle elezioni presidenziali USA del 2016.
Apre l’album Farewell Sonata, quasi un passaggio di consegne tra il vecchio e il nuovo Benjamin. Un pianoforte rassicurante cede pian piano il passo a synth analogici e poche parole corali: «Farewell Alien», è la dichiarazione di intenti già trattata prima, l’inizio del viaggio di un essere che non ha casa, non ha patria. God Save The Jungle riprende parzialmente la forma canzone abbandonata nel primo album, confezionando un pezzo dal sapore esotico costruito sul contrappunto tra clavicembalo e percussioni orientali. «Old alien in foreign lands again/You better beat it and go back home/Cause if they find you they will kill you», canta Clementine, in un crescendo che va a trarre ispirazione dal ben noto inno inglese.
Better Sorry Than Asafe rincara la dose: tra clavicembali ottocenteschi e cori maschili, Clementine da il via al viaggio delle due mosche in un pezzo che muta e oscilla come lo sbattere di un’ala. Si giunge così a Phantom Of Aleppoville, singolo trainante dell’album: dal sapore quasi Gorillaz agli inizi, il brano si riconfigura quasi subito come un insieme di quattro o cinque frammenti in sequenza nell’arco di sei minuti circa. In un ritmo al tempo stesso moderno e classico, l’autore partendo dalla questione siriana giunge a considerare ogni forma di bullismo, compreso quello subito nell’infanzia a causa della sua condizione e razza. Aleppoville è, nella fantasia di Benjamin, un posto in cui chiunque è vittima di bullismo senza alcun motivo. Il fantasma del titolo va ad essere proprio quella ragione per cui chiunque viene maltrattato, una ragione invisibile, più probabilmente inesistente.
La manieristica e poco incisiva Paris Cor Blimey apre la seconda parte dell’album, un brano sul periodo parigino dell’autore inglese, appesantito da un arrangiamento neoclassico che non lascia il minimo spazio all’ascoltatore, ma che fa percepire le aperture della successiva Jupiter come un sospiro di sollievo. Jupiter è senz’altro il pezzo più pop dell’intero gruppo: sensuale, black e world, evolve quasi con sorpresa in una coda spacey dal sapore beatlesiano, scandita da synth analogici usati a mo’ di radar. Ode From Joyce continua a fondere insieme ritmi urban e pad spaziali, persino cori gospel: i due insetti viaggiatori passano in volo radente su un’America densa d’orgoglio, contraddizioni e talenti sprecati.
One Awkward Fish, coi suoi ritmi fusion incalzanti e il cantato litanico, sembra pagare pegno a Blackstar, opera ultima del compianto David Bowie: il narratore parla di un ragazzo strano, problematico, probabilmente vittima di violenze, un ragazzo turco di cui non ricorda neanche il nome, sperando nella maturità dell’età adulta, che abbia avuto la possibilità di una vita migliore, felice. La marinaresca By The Ports Of Europe apre la parte finale dell’album, un canto di speranza allegro, ma oscuro, sostenuto da un basso pulsante, che si configura come un inno al migrante del nuovo millennio, quello che scappa dall’inferno in cerca di una vita quantomeno decente. Quintessence riprende il minimalismo e il gioco di sussurri presenti nell’opera prima di Clementine: «They say you must become an animal/For the animal to protect us/The good good animal and so we go to war», la bestializzazione dell’uomo viene affrontata da Clementine con inconsueta leggerezza.
I cinque minuti di Ave Dreamer chiudono l’album, ancora una volta l’animo black e soul di Clementine sbuca fuori con prepotenza su di un tappeto di synth e trilli di clavicembalo, ancora una volta c’è un epico sapore di inno, con tanto di cori. L’autore, nel brano finale, va a sperare che i sognatori siano abbastanza forti da sopportare l’arrivo dei barbari, con l’assoluta certezza data dalla storia che la vita in sé saprà sopravvivere ai tempi più oscuri.
Un lavoro oltremodo difficile, stancante per l’ascoltatore, commercialmente un (pre)annunciato suicidio, To Tell A Fly è un viaggio ad alta velocità sul mondo e in slow motion nella mente inquieta di Clementine, una personalità forte che sa di voler veicolare il proprio messaggio solamente secondo le sue condizioni, al punto di preferire il rassicurante oblio della strada a soluzioni di comodo atte a spingere la sua persona verso l’heavy rotation. Chi si aspettava un album accessibile, un suadente e paradisiaco successore della purezza di At Least For Now, un compendio di tante piccole perle prese a se, rimarrà, almeno inizialmente, inevitabilmente deluso. Eppure, i pregi di To Tell A Fly emergono a un ascolto differente, integrale, nel concepire l’album come un’opera unica, nel farsi accompagnare dalla sua genesi travagliata e ispirata dalle parole dell’autore. Compito difficile senza un po’ di ricerche: dei due insetti protagonisti, infatti, tra le lyrics dell’album si parla poco o niente. L’impressione è che essi siano più una metafora dell’autore per suggerire una chiave di lettura: intendere l’album e le canzoni in esso contenute come una raccolta di frammenti, di scampoli di situazioni percepite dall’alto, senza mai fermarsi.
Facile pensare che i temi che Clementine ha deciso di trattare avrebbero avuto presa su un pubblico maggiore se solo avesse scelto di confezionarli in modo meno criptico: ad ogni modo, nella sua estrema “non-radiofonicità”, To Tell A Fly resta un album a suo modo ottimamente fruibile e persino un buon portone d’ingresso per l’ascoltatore verso correnti di sperimentalismo più spinto, mentre il buon Benjamin Clementine continuerà a seguire il proprio percorso a prescindere da quello che penserà il pubblico, il che, in un’era di pop studiato a tavolino, resta oltremodo rassicurante per una delle voci e delle personalità più interessanti degli ultimi anni.
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