«Mi chiamo Abdellah Taïa e vengo da un Paese dove l’omosessualità non esiste. Per molti anni ho pensato di essere l’unico omosessuale nel mio Paese». È con queste parole che Abdellah Taïa, marocchino, classe 1973, si è presentato più volte, dopo essere stato il primo scrittore, sceneggiatore e regista del Marocco a fare coming out. Nato e cresciuto in un quartiere molto povero di Salè, città a pochi chilometri da Rabat, in una famiglia numerosa, inizia a studiare letteratura francese presso l’università della capitale, continua gli studi poi a Ginevra nel 1998 e un anno dopo va alla Sorbonne di Parigi, città dove vive tuttora. Inizia a scrivere romanzi in lingua francese, molti dei quali sono d’ispirazione autobiografica. Decide in questo modo di raccontarsi attraverso le sue storie e di trasformare così i pezzi di vita in frammenti letterari. Attraverso la scrittura racconta la difficoltà di scoprirsi omosessuale in un contesto dove l’omosessualità è proibita.
L’inizio della lotta per l’uguaglianza
Il suo coming out è avvenuto dopo il successo del suo secondo libro, Le rouge du tarbouche, una raccolta di storie che ha definitivamente segnato l’inizio della sua battaglia contro le leggi antigay marocchine. Infatti, poco dopo la pubblicazione, una reporter del giornale franco-arabo Tel Quel lo ha intervistato con l’obiettivo di trasmettere un profilo autentico dello scrittore e del suo interesse nel parlare dell’omosessualità in Marocco. Nonostante le paure iniziali, Abdellah ha deciso di raccontare apertamente la sua vita da omosessuale, anche come tentativo di espiazione di tutte le sofferenze, psicologiche in primis, subite sin dalla prima adolescenza. Il risultato è stato un pezzo dal titolo Homosexuel, envers et contre tous, che ha avuto un impatto mediatico enorme, non solo in Marocco. Dichiarare di essere omosessuale in un Paese dove l’omosessualità è un crimine è già un gesto di coraggio. Lo è ancora di più se si pensa ad una famiglia che decide di voltarti le spalle. Infatti, la famiglia dello scrittore ha sempre ignorato la realtà, evitando anche di proteggere Abdellah quando, sin dall’età di undici anni, si sentiva chiamato nel mezzo della notte da uomini ubriachi che volevano avere rapporti con lui. Tutto il vicinato sapeva, tutti sentivano gli insulti verso quello che allora era soltanto un bambino, ma nessuno colpevolizzava le offese, nessuno condannava tali comportamenti. Questa indifferenza ha spinto Abdellah a pensare per anni di essere l’unico omossesuale, perché, come spiega lui, in Marocco molti uomini hanno rapporti omosessuali, ma la colpa principale di Abdellah era quella di sembrare effeminato. Per questo motivo ha deciso, all’età di tredici anni, di cercare di cambiare i suoi gesti, il modo di muoversi, di parlare e di osservare le persone. Ha deciso di cambiare il modo in cui viveva nel mondo: costruendosi questa prigione poteva essere paradossalmente libero.
Il sogno di esprimersi nell’arte
I film egiziani trasmessi alla televisione nazionale, che Taïa guardava da piccolo con le sorelle, dove le donne apparivano senza veli e l’alcol veniva consumando liberamente, gli hanno dato la speranza di poter esprimere veramente la propria personalità: l’idea di trasgressione che appariva in quei film lo faceva connettere alla sua omosessualità. Per questo motivo ha iniziato a sognare di diventare regista, per poi imbattersi nella scrittura per caso: il suo scopo è quello di denunciare, di essere un artista attivo e attento alle problematiche sociali, e, attraverso questo status privilegiato, di raccontare le difficoltà e le sofferenze. Sogno che ha coronato soprattutto grazie al suo libro L’Armée du salut, che è divenuto anche un film, proiettato in numerosi festival, tra i quali quelli di Toronto, Venezia e Tangeri. Film autobiografico, parla della vita di Abdellah, della sua consapevolezza di omosessuale, dell’ammirazione e desiderio sessuale verso il suo fratello di venti anni più grande, del rapporto complesso con una madre dittatoriale e con le sue sei sorelle che si prendevano gioco di lui per i suoi atteggiamenti da bambina o per il suo eccessivo attaccamento. Uno scorcio sulla difficoltà e la frustrazione di un adolescente, costretto a vivere con l’ipocrisia di uomini più grandi che spesso gli avanzavano richieste, condannando però pubblicamente l’omosessualità, per conformarsi, almeno in facciata, alla legge marocchina e alla tradizione musulmana.
Essere omosessuale nel mondo arabo
La società musulmana è infatti in modo evidente ancora fortemente patriarcale, ed esalta inevitabilmente la figura dell’uomo e della mascolinità. Allo stesso tempo, la segregazione di genere, che a volte raggiunge livelli estremi nei Paesi musulmani più conservatori, incoraggia comportamenti che portano gli uomini a sentirsi maggiormente a loro agio in presenza di altri uomini e a camminare, per esempio, con un altro uomo tenendosi per mano come un segno di amicizia, non come un invito ad avere rapporti sessuali. Molto spesso gli abbracci e i baci sono ammessi, purché non siano interpretati come possibili tentazioni. Naturalmente, le relazioni omosessuali nel mondo musulmano esistono e talvolta non si fermano a un livello platonico e questo mostra anche una discrepanza tra ciò che la legge dice e proibisce e ciò che invece la società applica. Infatti, molte volte i gay sono tollerati. Tuttavia, il problema principale che affligge le persone omosessuali, in ogni parte del mondo, prima o poi nella loro vita, è il coming out. Per i musulmani questa può essere una decisione molto difficile, soprattutto in un contesto dove la necessità e la tradizione di sposarsi sono molto presenti. Infatti, rimanere single è spesso percepito come un disastro e le persone giovani cercano di sviare questo problema continuando i loro studi o andando all’estero. Alcuni omosessuali cercano di trovare altri omosessuali per organizzare un matrimonio combinato, ma questo non è molto facile. Pochi, invece, decidono di fare coming out. Come le famiglie reagiscono al coming out dipende da molti fattori, tra i quali la classe sociale e il livello di educazione. In casi estremi, è possibile che siano ostracizzati o attaccati fisicamente dagli altri membri della famiglia, oppure sottoposti a delle cure e trattamenti psichiatrici.
Cosa dice il Corano?
Il profeta Maometto non ha specificato punizioni per comportamenti omosessuali; solamente qualche anno dopo la sua morte i musulmani hanno iniziato a discutere su quale potesse esserne la punizione adatta. La condanna dell’omosessualità, così come quella cristiana, si basa soprattutto sulla storia della distruzione di Sodoma e Gomorra, raccontata nel Corano e nell’Antico Testamento, in versioni molto simili. Va sottolineato tuttavia che, mentre le scritture non possono essere soggetti a cambiamenti, le interpretazioni umane sì, e possono essere influenzati dall’epoca, dal luogo e dalla condizione sociale. In generale, è possibile affermare che l’omofobia nel mondo arabo non è un problema a sé stante, quanto parte dell’idea che i diritti individuali sono sottomessi agli interessi della collettività e, in primo luogo, al mantenimento dell’ethos islamico nella comunità. Di conseguenza, è necessario rispettare le norme sociali, soprattutto in contesti pubblici. Il sistema patriarcale è una di queste, e prevede ruoli definiti per uomini e per donne. Gli uomini gay, per questo motivo, sono visti come una minaccia all’ordine sociale. Gli uomini “mascolini” che hanno rapporto con altri uomini invece sono una cosa leggermente diversa. Infatti, nonostante la legge islamica proibisca i rapporti sessuali omosessuali, l’opinione popolare è meno ostile nei confronti di chi pratica il ruolo attivo: è sempre un uomo, che fa cose che gli uomini fanno, anche se non con una donna. Invece, chi svolge il ruolo passivo viene spesso visto con disgusto ed etichettato come un prostituto, dal momento che non è concepito come naturale svolgere un ruolo che, tradizionalmente, nella pratica sessuale è attribuito alla donna. È interessante notare, invece, come i rapporti tra donne non siano spesso presi in considerazione, forse, ancora una volta, come risultato di una società maschilista, dove le donne sono spesso viste come insignificanti.
E il Marocco?
La pratica sessuale tra persone dello stesso sesso, sia maschile che femminile, è del tutto illegale nel Paese. L’articolo 489 del codice penale marocchino criminalizza gli atti osceni contro natura con un individuo dello stesso sesso, e le pene vanno da sei mesi a tre anni di reclusione, con una multa da 120 a 1200 dirham. È importante ricordare la discrepanza tra la legge e la sua applicazione, con un grado di tolleranza esteso soprattutto nelle località di vacanza, come Marrakesh, dove spesso questi rapporti rientrano anche nella prostituzione maschile. Tuttavia, anche qui, non sono mancati arresti, anche di cittadini non marocchini, come il caso mediatico del britannico Ray Cole, che ha speso diciannove giorni in prigione per avere una relazione omosessuale con un marocchino a Marrakesh. Per quanto riguarda la politica governativa, nessun partito ha mai fatto dichiarazioni pubbliche a favore dei diritti LGBT e il governo promuove comportamenti nell’interesse della tutela della tradizione del Paese, della cultura e dei costumi religiosi. Infatti, nelle scuole sono vietati libri che trattano l’argomento, e in termini di politica estera il governo si è opposto alla partecipazione di un International Gay and Lesbian Rights Representative in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite del 2001, concernente l’AIDS-HIV. Nel 2005 è stata fondata però l’organizzazione non governativa marocchina di Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender, nota con il nome di Kif-Kif, che in dialetto marocchino vuol dire uguale. Illegale in Marocco, è stata registrata nel 2008 in Spagna e il suo scopo principale è quello di difendere i diritti delle persone omosessuali, in modo particolare con l’abrogazione dell’articolo 489 del codice penale, anche grazie all’aiuto di diversi gruppi di sostegno che lavorano con progetti indipendenti in organizzazioni LGBT locali al di fuori del Marocco. Dal 2010, Kif-Kif pubblica e diffonde clandestinamente la rivista mensile Mithly, il primo periodico stampato in un paese arabo e musulmano, edito in arabo e in francese. Il nome è un gioco di parole che vuol dire allo stesso tempo “omosessuale” e “come me”, ed è un termine che è stato introdotto recentemente anche dai media arabi per parlare degli omosessuali in modo politically correct, in sostituzione del termine offensivo zamel. Tuttavia, dopo i primi numeri, è stato dichiarato che la pubblicazione proseguirà solo online dal momento che la distribuzione cartacea resta difficile e pericolosa.
Questi tentativi e la letteratura di Abdellah Taïa mostrano che qualcosa sta cambiando, che uno spostamento verso l’individualità sta avvenendo, attraverso una letteratura che difende la libertà, parlando della realtà. Perché quando non si parla di realtà si commette violenza e ci si sottomette alle regole della società nella quale si vive. Raccontare la realtà è l’unico modo per affermarsi come oggetti pensanti, capaci di riflettere e di criticare. Abdellah Taïa e altri come lui sono una piccola luce in una strada ancora lunga, dove lo scopo è quello di riscoprire la libertà nell’Islam inteso come una cultura, modo di vivere e di relazionarsi, non solamente come un insieme dogmi religiosi da seguire. Come dice Abdellah nel suo ultimo romanzo, Celui qui est digne d’être aimé, «Allah mi amava tanto e in fondo non aveva nulla contro la mia omosessualità».