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Pio V, un altro “Papa Buono”

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Sergio Flore

Regnò in un periodo di profonda crisi per il Cattolicesimo e per la Chiesa, impegnata su più fronti a schiacciare l’imperante ribellione protestante. Si dice che avesse «trasformato Roma in un enorme monastero». Fu a buon diritto l’uomo a cui si dovette la vittoria europea a Lepanto, la battaglia che segnò l’inizio della fine della secolare minaccia turca.

Eppure, per gli standard morali attuali, il ritratto che verrebbe fuori dalle cronache di Pio V, papa dal 1566 al 1572 e ultimo pontefice santo prima di Pio X sembrerebbe, banalmente, essere quello di uno spietato inquisitore, un fanatico tiranno, e persino un guerrafondaio. Un po’ di sano “revisionismo”, nel 446° anniversario della battaglia di Lepanto, è quantomeno dovuto.

La storia di Pio V inizia in Piemonte, nel 1504. Michele Ghislieri nasce a Bosco il 17 gennaio da una famiglia profondamente devota e discendente della nobiltà bolognese decaduta e, si dice, cacciata dalla città proprio a causa delle sue posizioni guelfe.

Materialmente parlando, ben poco della passata nobiltà familiare venne ereditato dal giovane Michele, che per i primi anni della sua vita dovette lavorare come pastore per conto del padre. La svolta religiosa avvenne più tardi, quando, a sedici anni, l’incontro con una coppia di frati domenicani lo convinse a chiedere alla famiglia il permesso di potersi unire alla confraternita nel monastero di  Voghera. La sua intelligenza e curiosità lo portarono poi a studiare presso l’Università di Bologna per diventare, a soli vent’anni, professore di filosofia.

Nonostante i successi con i suoi studenti e la consacrazione a prete, a ventiquattro anni, Michele Ghislieri non si fece prendere dall’orgoglio né dalla vanità, perseverando nella povertà, nella preghiera e nelle privazioni che la vita di un frate prescriveva. Severità, moralità e correttezza, che contraddistinguevano la sua condotta con gli studenti, lo seguiranno anche nella sua carriera di inquisitore quando, nel 1550, Papa Giulio III lo nominerà Commissario Generale del Sant’Uffizio. Famoso è l’episodio di Sisto Senese, ebreo convertito al Cattolicesimo ma caduto nell’eresia, convinto poi a rinnegare il suo errore da Ghislieri, che riuscì a fargli concedere la grazia dal Papa.

Ritratto di Michele Ghislieri, El Greco.

Dopo la sua nomina a vescovo di Nepi e Sutri e poi a cardinale, alla morte di Pio IV nel 1565 il Conclave elesse il sessantaduenne Ghislieri nuovo Papa, sotto il nome di Pio V. Persino la sua nomina fu eccezionale. È da questo pontificato che i papi non hanno più un giullare di corte. Anche l’uso di lanciare monete al popolo adorante da parte del Papa venne abolito. Pio V, invece, distribuì personalmente somme di denaro nelle case dei poveri e ai monasteri che più ne avevano bisogno.

Le abitudini spartane di Pio V non cambiarono: niente banchetti per il nuovo pontefice, che preferì investire in opere buone i denari risparmiati con il suo stile di vita austero. Tra i primi atti del suo pontificato vi fu la ristrutturazione di chiese e conventi, una sorta di previdenza sociale per i mendicanti, l’abolizione del carcere per i debitori insolventi, regole più severe per il rispetto delle festività e dei giorni santi, il riscatto di molti schiavi cristiani caduti nelle mani dei turchi, a cui venivano date libertà, alloggio e supporto economico, e l’aiuto ai cattolici inglesi vittime delle persecuzioni. Il Papa incoraggiò spesso cardinali e membri dell’alto clero ad abbandonare il lusso e lo sfarzo, consapevole dell’impatto emotivo che questo cambio di “stile” avrebbe potuto dare nella lotta all’eresia. La bontà con cui il pontefice si avvicinava ai poveri e gli ultimi della società era accompagnata dalla severità con cui venivano punite sodomia (col rogo) e stupro (con la decapitazione).

La condotta del nuovo Pontefice non tardò a garantirgli la stima della popolazione e dei monarchi che avevano la fortuna di intrattenere rapporti con lui. L’ambasciatore spagnolo definì, profeticamente, il nuovo Papa «un santo» e «il migliore Capo della Chiesa degli ultimi trecento anni». Forse fu proprio la nuova autorevolezza del Pontefice a rendere possibile l’intensa attività diplomatica che in pochi si sarebbero aspettati da un “papa-asceta”. Nella gestione della questione protestante la parola “compromesso” venne abolita. L’intransigenza di Pio V si scontrò infatti pesantemente con l’imperatore del Sacro Romano Impero Massimiliano II, convinto della necessità di tollerare almeno una parte delle nuove sette e chiese eretiche che stavano prendendo piede in Europa. I risultati diedero ragione al Pontefice, che riuscì a impedire uno scisma pericolosamente simile a quello anglicano in Polonia, e a mantenere – almeno momentaneamente – la lealtà della Prussia.

Diverso esito ebbe la lunga guerra diplomatica tra Pio V e la Regina d’Inghilterra Elisabetta, culminata nel 1570 – nonostante i tentativi di mediazione da parte di Massimiliano e l’esitazione di altri monarchi cattolici (Pio V suggerì a Spagna e Francia l’ipotesi di un embargo anti-inglese) con la bolla papale Regnans in Excelsis che scomunicava la sovrana.

La battaglia di Lepanto.

Il Papa non era riuscito a proteggere l’Inghilterra e i sudditi cattolici dall’eresia protestante, ma si sarebbe rifatto l’anno successivo, con la vittoria della Lega Santa contro i turchi ottomani nella battaglia di Lepanto. Nella seconda metà del XVI secolo, i turchi avevano già tentato di assediare Vienna, si erano spinti fino all’Ungheria e, grazie a una flotta considerata invincibile, minacciavano Malta, le isole greche e le coste italiane. L’attacco turco all’isola di Cipro, fino a quel momento una colonia veneziana, rappresentò la fortuita e a lungo attesa occasione per costruire un’alleanza tra le due principali potenze marittime cristiane: la Serenissima e la Spagna.

Nonostante le difficoltà (tra cui i tentativi dei veneziani di stipulare una pace separata con i Turchi) e l’iniziale diffidenza tra le parti, la Santa Alleanza venne infine formata: ne facevano parte Venezia, Genova, i ducati di Urbino, Firenze, Parma e Savoia, Malta, la Spagna e, ovviamente, lo Stato della Chiesa.

Per Pio V la preghiera fu un’arma forte almeno quanto la spada: digiunò e pregò per tutta la durata dei preparativi e della battaglia e ordinò l’imbarco di preti e chierici su tutte le navi da guerra, incaricati di benedire i soldati e celebrare costantemente la messa sulle navi. Il giorno dello scontro, interrompendo una discussione con il tesoriere del regno pontificio, si affacciò a una finestra, guardò a est e disse: «la flotta cristiana ha vinto». La sua intuizione (o visione?) venne confermata poche settimane dopo, quando le notizie della vittoria degli europei giunsero a Roma.

Pio V morì circa sei mesi dopo la battaglia, il primo maggio 1572, e con lui si dissolse di fatto la Lega Santa.

La tomba del Papa nella Basilica di Santa Maria Maggiore.

Nonostante la fine del mito dell’invincibilità turca, l’abile politica estera e la saggia gestione degli affari temporali, furono altri gli atti (teologicamente) più duraturi di Pio V: il proseguimento del percorso di standardizzazione del rito della messa e del catechismo romano già iniziato con Pio IV e il Concilio di Trento, e l’elevazione di San Tommaso d’Aquino a Dottore della Chiesa, che avrebbero finalmente scoraggiato pericolose “interpretazioni” e deviazioni dottrinali.

Venne beatificato nel 1672 e canonizzato santo da Papa Clemente XI il 22 maggio 1712. Scrisse di lui lo storico e teologo cardinale John Henry Newman«non nego che San Pio V fosse severo e austero quanto potrebbe esserlo un cuore che brucia di amore divino… eppure tale vigore ed energia erano necessari per quel tempo. Egli fu un soldato di Cristo in un’era di ribellione e insurrezione».

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