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La soluzione alle stragi non è il controllo delle armi

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Matteo Roccalberti Spina

Per capire quello che sta succedendo negli Stati Uniti, ormai da anni, occorre partire dai numeri. Dal massacro di Sandy Hook, a dicembre 2012, in cui un ragazzo uccise sei adulti e venti bambini in una scuola elementare prima di suicidarsi, negli USA ci sono state 1.518 sparatorie (nella statistica sono riportate solo quelle che hanno generato dai quattro feriti in su), che hanno ucciso 1.715 persone e ne hanno ferite 6.069. I morti aggiornati a ieri, secondo The gun violence archive, invece, sono stati 11.686 nel solo 2017. Numeri da guerra civile, per quella che dovrebbe essere una democrazia evoluta, che giustamente hanno riacceso il dibattito: occorre davvero stringere i controlli sulla vendita e sul possesso delle armi?

In realtà probabilmente la stretta sulle armi non è la risposta, e per dipanare il ragionamento bisogna partire da un esperimento distante nel tempo e apparentemente scollegato dal tema delle armi da fuoco. Verso la fine degli anni Settanta lo psicologo Bruce K. Alexander condusse un esperimento sociale alla Simon Fraser University, con lo scopo di dimostrare che la dipendenza da eroina non è squisitamente fisica, ma interconnessa strettamente con l’ambiente in cui il soggetto vive, e con i rapporti e le relazioni sociali che esso mantiene. Venne quindi creato un ambiente grande circa duecento volte lo spazio tradizionalmente riservato a un ratto da laboratorio, inserendo in esso sedici ratti di ambo i sessi assieme a tutti i confort e alle distrazioni disponibili, compresa acqua addizionata con gli oppiacei. Nonostante lo studio fosse rifiutato dai due maggiori giornali scientifici, Science e Nature, venne pubblicato nel 1978 su Psychopharmacology. I tentativi di riprodurre i risultati dell’esperimento, chiamato Rat Park, hanno prodotto risultati contrastanti e non univoci, ma lasciano una suggestione che in parte può spiegare il motivo di azioni sconsiderate e distruttive, al pari dei fatti di Las Vegas.

Qualcuno si chiederà che senso ha paragonare le regole sulla vendita delle armi da fuoco con la dipendenza da oppiacei. In effetti l’associazione non è immediata, ma intuibile. Qualcuno si è mai chiesto come mai gli Stati Uniti (che oltretutto non vanno considerati come entità unica, così come non si può considerare entità unica l’Unione Europea; ci sono cinquanta stati, ognuno con regole diverse e approcci diversi) abbiano questo problema con le armi? In Italia ad esempio non c’è un limite numerico alla detenzione di pistole e fucili per chi ha la licenza di caccia, e non viene richiesto un controllo psicologico a chi ne fa richiesta; c’è sì un limite alla detenzione delle munizioni, ma è impossibile creare un registro che ne tracci l’acquisto, considerando che molti ricaricano e quindi comprano solo la polvere, e ogni appassionato di armi ha la sua ricetta per costruirsi le cartucce. Eppure in Italia, patria delle mafie e con un sistema di tracciamento incontrollabile, le stragi non ci sono, e non avvengono con la frequenza con cui avvengono negli USA. E stiamo parlando di paesi occidentali con economie avanzate, che non sono in guerra civile e in cui il tasso medio di istruzione è buono. Allora, dove sta la differenza?

Nelle relazioni. Nei rapporti. Perché come in informatica il problema sta nella mano che corre sulla tastiera, con le armi da fuoco il problema sta nella mano che le impugna. Perché gli USA hanno insegnato a 300 milioni di persone la cultura dell’individualismo, e se io ho ragione, allora gli altri hanno torto. E se gli altri ce la fanno e io no, allora mi stanno fregando. E se mi stanno fregando, allora devono morire. I ragazzi della Columbine erano degli emarginati, e furono uno dei casi che fece più scalpore, tanto da fare la storia. Quei ragazzi avevano deciso che visto che non avevano amici, allora gli altri non meritavano di averne. Non meritavano di vivere. Ma la soluzione non è stringere i controlli sulle armi da fuoco. Non è venderne di meno, a meno persone, con trafile più lunghe. La soluzione è lavorare sulla comunità, sul sistema sociale; la soluzione è creare rapporti sociali e umani equilibrati, avere un sistema sanitario accessibile e inclusivo, un’istruzione universitaria che non condanni ad avere debiti a vita, condizioni lavorative dignitose, la tutela della casa. La soluzione è creare sicurezza sociale, rispetto dell’individuo, leggi che puntino a riabilitare l’uomo e non semplicemente a punirlo, concetto difficile per il paese con la popolazione carceraria più grande del mondo in appalto a società private le quali, peraltro, spesso e volentieri cedono la manodopera (mal pagata, quando non gratuita) dei detenuti. Il problema dell’individualismo, in fondo, è la solitudine. Che uccide molto più delle pistole.

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Matteo Roccalberti Spina

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