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Battle royale delle battle royale

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Nicolas Foresti

Vi racconterò una storia di battle royale.

Tanto, tanto tempo fa, a darsi battaglia nella grande arena dei videogiochi c’erano gli horror. A colpi di jump-scarestorytelling, questi videogiochi combattevano senza sosta gli uni contro gli altri per decidere chi avrebbe avuto lo scettro di migliore. Ma il loro tempo finì: come gli Dei di giorni più remoti World of Warcraft e Minecraft ci insegnano, gli uomini sono volubili e si annoiano in fretta. Arrivarono i MOBA, e con loro la grande apertura sullo scenario degli eSport. Poi arrivarono i survival: dagli zombie ai dinosauri, la lotta per la sopravvivenza divenne una lotta per il trend, e forse, come figlio di questi ultimi, arrivò la battaglia delle battaglie: la battle royale delle battle royale.

È indubbio e sacrosanto che i videogiochi seguano dei periodi di trend, si chiama maturità di un prodotto, e quando finiscono non cadono, di certo, direttamente nell’abisso del fallimento. Le community di giochi più “anziani” per quanto ristrette rispetto al loro apice, sono comunque ancora attive e corpose. È anche indubbio che certi prodotti siano stati, invece, scenari secondari per tutto il corso della loro vita, pur avendo un loro impatto sul mercato; basti pensare al genere delle visual novel, che di certo non hanno raggiunto la massa né rivoluzionato lo scenario videoludico nel modo in cui hanno fatto altri giochi. Quando si parla di scenari secondari è sempre difficile quantificarne il volume, ma riguardo a giochi di primaria influenza la maggiora parte delle persone avrà in mente dei titoli noti per antonomasia, per quanto difficile a volte possa essere da ammettere. È, di nuovo, indubbio che certi trend abbiano convissuto per una porzione della loro esistenza, rendendo difficile l’effettiva divisione temporale.

Una cosa è certa, oggi gli Hunger Games la battaglia è tra battle royale.

Cosa è una battle royale? Per i più navigati si parte dal concetto di king of the hill, vecchio come gli sparatutto, dove vince chi rimane per più tempo in una determinata zona. Il senso è lo stesso: in questi videogiochi vince l’ultimo che rimane in piedi.

Alle origini: Minecraft

Sembra quasi un’intestazione. Minecraft è stato all’origine di molti fenomeni, tanta è stata la sua influenza sul mondo videoludico del gioco in sé e delle sue mod.
Era il 2012, i Maya minacciavano l’umanità, Putin veniva eletto presidente e la regina Elisabetta festeggiava 60 anni di corona in testa, ma soprattutto Hunger Games usciva nella sale cinematografiche di tutto il mondo. Poco dopo, non nei cinema, usciva Hunger Games, una mod per Minecraft con un velatissimo richiamo al film, diventato quasi subito Survival Games per evitare guazzabugli di copyright. Se quel piccolo adorabile nerd avesse saputo cosa aveva appena iniziato. La mod era molto semplice e seguiva pari passo le meccaniche dei più famosi Hunger Games cinematografici: un gruppo di giocatori, una zona centrale di spawn colma di bottino, una vasta area selvaggia, tipicamente alla Minecraft, costellata di bottini minori. Hanno inizio così i primi Survival Games. L’ultimo che rimane in vita è il vincitore.

La battle royale di minecraft

DayZ Royale

Ricorderete tutti la mod che rese celebre i survival zombie attraverso Arma 2. DayZ fu una mod miliare che ebbe un enorme impatto sul mercato, tanto che i suoi sviluppatori vollero crearne una versione stand alone. Purtroppo ormai andava ad inserirsi in un nugolo di emuli, ed ebbe molto meno successo, soprattutto per i lunghissimi tempi di sviluppo e la varietà di alternative ormai presenti; nel frattempo la realtà legata al DayZ originale continuava a macinare giocatori ma soprattutto mod – sì, mod di una mod. Uno di questi appassionati giocatori muoveva i primi passi nel modding e creò la sua versione di battle royale. Sorpresa, sorpresa il “suo” DayZ si chiamava Playerunknown’s Battle Royale, dove Playerunknown era lo pseudonimo da modder che celava l’identità di Brendan Greene. La mod passò poi ad Arma 3, dove sfruttava una grafica più all’avanguardia e un engine più solido. L’idea prese piede abbastanza in fretta, nonostante tutti i problemi di cui soffriva DayZ, zeppo di bug come era e come, ormai, sempre sarà, cosa di cui, per altro, importava e importa poco alla community.

La mappa di DayZ

H1Z1/Just Survive

Nel 2015 Daybreak Game Company lancia H1Z1, un pretendente al trono degli zombie survival, dal sapore più arcade rispetto a DayZ. Si crea un buon seguito, soprattutto tra tutti i delusi dalla versione stand alone del “survival orginale”, e si fa un certo nome nonostante tutti i vari difetti da gioco ad accesso anticipato. Dal lag ai tempi di attesa per iniziare una partita, o anche solo connettersi ai server di gioco. Un anno e innumerevoli patch dopo, gli sviluppatori pensarono bene di cambiare rotta: era il Febbraio 2016 e Steam titolava H1Z1: King of the Hills tra le nuove uscite. La mappa del mondo di H1Z1 non era più popolata da zombie (la versione originale survival si chiamava ormai Just Survive), bensì i giocatori venivano lanciati nel mondo di gioco da un aereo e dovevano sopravvivere in un’arena grande 64 Km quadrati pronta a restringersi in cerchi sempre più piccoli e posizionati casualmente. Restare fuori dall’area sicura significava morte per asfissia. In questo scenario “da sogno”, i giocatori dovevano trovare armi e protezioni sempre migliori, di casa in casa, di città in città o arrischiandosi verso gli air-drop casuali che ogni tanto piovevano dal cielo, craftando tutto il necessario per rimanere in vita. Ovviamente l’ultimo rimasto in piedi sarebbe stato il vincitore. Interessante l’introduzione della modalità a squadre da 2 o da 5 giocatori.

La copertina di H1Z1: King of the hill

La vera pecca di H1Z1 e della sua versione della battle royale è l’impronta marcatamente arcade, cosa che ha pesato molto nel grande disegno delle cose e che, ora, vede il gioco come pallido riflesso di ciò che poteva essere, soprattutto davanti alla trazione devastante del suo primo rivale odierno, Playerunknown’s Battlegrounds, senza contare la miriade di glitch grafici e i già citati server non sempre all’altezza. Come se non bastasse, l’ultima patch prima di uscire dall’accesso anticipato ha, secondo molti giocatori, marcatamente peggiorato il sistema di combattimento, forse proprio nel tentativo di scrollarsi di dosso l’etichetta arcade per virare verso la visione più realistica che caratterizza PUBG.

Non tutti sanno che il padre delle battle royale Playerunknow/Brendan Greene, in seguito al successo ricevuto dalla sua mod di DayZ figurava come consulente all’interno del gruppo di Daybreak durante lo sviluppo di King of the hill. A progetto ormai lanciato, Greene decise di mettersi a lavorare in proprio per dare vita al suo sogno, la battle royale definitiva.

The Culling

Un paio di mesi dopo l’avvento di H1Z1: King of the hill arriva sul mercato una nuova proposta di battle royale, molto più aderente all’idea di Hunger Games: una cupola più piccola, più selvaggia e meno post-apocalittica, senza veicoli o città, di nuovo sotto il costante pericolo del gas che periodicamente la rimpicciolisce fino all’arena centrale.  L’impianto è simile a tutti gli altri, ma introduce alcune piccole novità: una valuta, i F.U.N.C. (Flexible Universal Nano Compound), un controverso sistema di crafting, i vendor, macchinette dove comprare oggetti di vario tipo, e la possibilità di chiamare il proprio air-drop in punti specifici della mappa, dal contenuto variabile in base ai propri perk.

L’arena centrale in The Culling

The Culling presenta partite più veloci e preferisce un gioco più orientato al corpo a corpo, nonostante, comunque, la presenza di armi da fuoco, archi o lance. Introduce delle trappole con cui incapacitare o rallentare l’avversario e tendere agguati. Già citato il controverso sistema di crafting: combinare gli oggetti in inventario, composto da solamente 5 slot, risulta impossibile. Per creare l’arma base del gioco, un coltello, sarà necessario raccogliere una pietra e combinarla con un’altra a terra; questo, a sua volta, combinato con un bastone frutterà una lancia, e così via fino ad armi più potenti che però non sostituiscono quelle ottenute dagli air-drop. Quasi ogni ricetta richiede, inoltre, una piccola quantità di F.U.N.C., ottenuti nei modi più disparati come ricompensa: riciclando armi, entrando negli edifici, trovando, colpendo e uccidendo gli avversari o in apposite casse sparse per la mappa.

Anche The Culling introduce la modalità a squadre, ma il basso numero di giocatori ha ben presto ucciso questi server.

Interessante è invece il sistema dei perk, le abilità del proprio personaggio. Azioni come muoversi più velocemente, creare oggetti in silenzio e rapidamente, ottenere bonus ai danni con certi tipi di armi, influenzano anche il contenuto dei drop. Con un massimo di tre perk a giocatore e un quarto ottenuto uccidendo gli avversari, questo sistema influenza grandemente il gioco e la sua tendenza ad una più attenta e profonda strategia.

Purtroppo questo battle royale non brilla per capacità di programmazione: i movimenti e i combattimenti sono innaturali e strani, le animazioni non all’altezza, l’assalto all’arma bianca a volte del tutto arbitrario con il suo sistema di danni, parate e la possibilità di disarmare l’avversario. Resta comunque un prodotto meritevole se visto nei suoi limiti, ma fortemente inferiore rispetto alla concorrenza.

Ritorno alle mod: Ark: survival of the fittest

Ark, nato come survival, con il suo mondo popolato da dinosauri, ha voluto la sua fetta di mercato. Essendo all’origine un battle royale tanto quanto lo fosse DayZ, ovvero solo in parte e in maniera intrinseca al suo essere survival, non ha dovuto modificarsi troppo per inserirsi nel trend. Un sistema di crafting ben costruito, una grafica pesante quanto accattivante e la novità di inserire dinosauri assassini dietro ogni palma, sono la base della sua evoluzione in battle royale. Studio Wildcard, i padri di Ark, lo chiamano MOSA (Multiplayer Online Survival Arena), tanto per cambiare, ma il risultato non cambia: i giocatori vengono lanciati nel mondo di gioco vicino ad un’arena centrale ricolma di armi e oggetti importanti. Combattere o fuggire per tornare più tardi con un’orda di dinosauri è la scelta da fare. Le partite durano dai 30 minuti alle 3 ore in base alla modalità – cosa che bilancia anche la velocità di crafting e taming in proporzione – e il finale è sempre lo stesso: l’anello della morte che si restringe finché i giocatori non sono costretti a fronteggiarsi.

Una tribù pronta alla battaglia finale

Dinosauri, survival e tech tree che va dal neolitico al futuristico per ora non hanno trovato terreno fertile tanto quanto gli altri battle royale. È indubbio che Ark abbia messo del suo nel genere per modificarlo a dovere, risultato abbastanza diverso dagli altri, il che ha prodotto risultati tanto positivi quanto negativi. La vera pecca sono i difetti del gioco base: un’AI per nulla all’altezza che incastra i dinosauri in grosse rocce o alberi, da qui una gestione delle collisioni al limite del ridicolo, un sistema di costruzione traballante sotto certi aspetti e un’ottimizzazione grafica così imbarazzante da far tremare anche i computer più potenti. Inoltre, la pessima gestione del titolo in sé da parte degli sviluppatori non ha aiutato a farsi amare: con un gioco zeppo di bug si sono lanciati in un secondo progetto/mod, a pagamento, Scorched Earth, che introduce una mappa desertica più difficile e alcuni nuovi animali, seguito a ruota da Ragnarok, ennesima mappa dal sapore più fantasy, questa volta gratis per tutti i possessori del gioco base. Finendo in bellezza con l’uscita a sorpresa dall’accesso anticipato ad un prezzo ridicolo, 60€ per un gioco che sa ancora troppo di beta.

Non il migliore dei battle royale, neanche il peggiore, di certo vale la pena provare la sua versione survival classica.

Il colosso Playerunknow’s Battleground

La visione di Greene prende vita tardi ma si inserisce prepotentemente e si insedia sul trono dei migliori. Uscito nel Marzo 2017 in accesso anticipato ha velocissimamente scalato le classifiche. Con uno sguardo rivolto più verso il realismo, vuole forse reincarnare quello che era il progetto nato su Arma 2 e 3 (titolo che si vede come simulatore militare). Il concetto è sempre quello, nulla cambia. Giocatori paracadutati su una grande isola, un’arena che si restringe sempre di più ad anello ed in modo casuale, cercare armi, armature e medicine di casa in casa, viaggiare più velocemente ma rumorosamente per la mappa con veicoli di varia natura, restare in piedi fino alla fine.

La novità? Nessuna, a parte la modalità zombie, ancora in lavorazione – dove pochi giocatori combattono contro decine di altri, i quali possono usare solo i pugni – riprende in maniera egregia gli stilemi di genere e introduce una balistica e un sistema di combattimento impeccabile, una sfida continua e tensiva skill oriented e tante ore di gioco, eliminando elementi più statici come il crafting. Di certo i problemi non mancano: se infatti va tutto bene sul fronte del combattimento, quello della fisica lascia a desiderare. Non è raro vedere veicoli glitchare o traballare dopo un incidente o un salto. Pecche di minima importanza se si pensa al fatto che è nelle mani dei giocatori da solo pochi mesi e che gli sviluppatori sono attivissimi, grazie anche agli ottimi risultati in termini di numeri: quasi due milioni di giocatori nel solo mese di agosto (secondo Steam Charts), quadruplicando quelli di Dota 2 nello stesso mese; secondo le statistiche della piattaforma di streaming più famosa, Twitch, PUBG ha fatto ciò che nessun gioco era mai riuscito a fare dal 2014, cioè scalzare League of Legends dal primo posto in classifica come gioco con più spettatori (riferendosi sempre al mese di Agosto). Il successo è innegabile, la sua natura streaming friendly mischiata alla qualità del prodotto hanno dato il via ad una macchina che sembra impossibile fermare.

Ritardatari

Di fronte al successo del genere battle royale è difficile stare fermi a guardare. Lo era ai tempi di H1Z1, con i suoi numeri più contenuti, ora è semplicemente necessario entrare in corsa e cavalcare il cavalcabile. Epic Games e il suo Fortnite lo sanno bene. Nato come zombie survival nel 2011, disponibile a pagamento da Luglio 2017 e gratis nel 2018, è un multiplayer massivo, con componenti di costruzione e base defend, che ha voluto modificarsi tanto quanto ha fatto Ark. La versione battle royale, parallela al gioco base e gratuita, è un rimaneggiamento del concetto originale, che non introduce nulla di nuovo al genere se non la possibilità di costruire ovunque come quella di distruggere qualsiasi elemento. Non è presente un sistema di crafting, le armi sono divise in tier colorati in base alla potenza e alla rarità (feature che proviene dal survival originale).

Art Style dei tipici nemici di Fortnite nella sua versione originale

Con la sua grafica “cartonesca” e azzeccata, la possibilità di costruire fortini quando l’area di gioco è stretta e mortale, un sapore arcade perfettamente inerente al gioco in sé e l’essere gratuito, si è presto costruito un buon seguito, utile anche a pubblicizzare il gioco originale. Questo ha creato qualche attrito con Bluehole Inc., gli sviluppatori di PUBG, dato che, in una prima fase, Epic Games aveva collaborato con Greene per creare il mastino delle battle royale.

Da citare un illustre ritardatario che però sta passando un po’ in sordina: Rockstar e la sua Motor Wars, una nuova modalità battle royale per GTA V, molto orientata all’uso dei veicoli, ma perfetta per l’enorme mappa di Los Santos.

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Nicolas Foresti

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