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Leopardi: il genio eccelso e la cagionevolezza

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Mattia Scarponi

«Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo anche savio, ma più tranquillo, ed io stesso certamente in un’ora più quieta conoscerò, la vanità e l’irragionevolezza e l’immaginario. Misero me, è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s’annullerà, lasciandomi in un vôto universale, e in un’indolenza terribile che mi farà incapace anche di dolermi».

[Da “Lo Zibaldone di pensieri”]

Di fronte all’impietosa crudeltà delle soprastanti parole si può rimanere spiazzati, a dir poco disorientati, finanche impietriti; ma con ogni probabilità alla maggior parte dei lettori questa tristezza non sembrerà una novità. Infatti, Giacomo Leopardi è notoriamente uno di quei poeti su cui la tradizione scolastica italiana punta molto, tanto da considerarlo un pilastro fondamentale di tutta la letteratura europea del primo Ottocento; ma, come sovente accade, la fama si rivela essere una medaglia bifronte, poiché l’essere ricordati come ingombranti personaggi storici può implicare l’essere dimenticati come persone nella propria autenticità. È così che nacque l’immagine ingiustamente stilizzata del povero ragazzo malandato ed emarginato, il quale diventa per forza di cose un piagnucoloso pessimista che trova una grama consolazione con la poesia.

«[…] e doloroso/io vivo, e tal morrò, deh tosto!»

[Da “La vita solitaria”]

“Ritratto di Giacomo Leopardi”, Domenico Morelli, 1845.

Tuttavia, l’etichetta scolasticamente affibbiata a Leopardi è quanto di più superficiale e falso vi possa essere: difatti nel corso degli anni fior fiore di critici e studiosi si sono espressi e confrontati sulla visione del mondo e sulla poetica del recanatese, sottolineando come il malmesso fisico di Giacomo abbia profondamente condizionato la sua esistenza. Ma cosa si sa effettivamente delle condizioni di salute di Leopardi? Quali malattie affliggevano il suo corpo? E come si sono evolute?

La gobba: una questione complessa

«Gobbus esto / Fammi un canestro! / Fammelo cupo / Gobbo fottuto!»

[Questa sarebbe la filastrocca con cui Leopardi veniva deriso dai compaesani al suo passaggio, stando alle biografie.]

Fra i tanti luoghi comuni che hanno spietatamente plasmato (e distorto) l’immagine di Giacomo Leopardi negli ultimi due secoli, ce n’è uno in particolare che lo ha reso oggetto di scherno da parte di numerose e folte generazioni di studenti: la gobba.

Il poeta recanatese interpretato da Elio Germano ne Il giovane favoloso.

«Chi ha la gobba porta fortuna, si dice, ma tu ce l’avevi davvero? Pensa che c’è chi, per giustificare la tua poesia, parte proprio dalla gobba, anziché dal rapimento».

[Da L’arte di essere fragili, Alessandro D’Avenia.]

I libri di letteratura sono soliti scovare la causa di questo caratteristico difetto fisico nello “studio matto e disperatissimo” che avrebbe impedito al recanatese di crescere adeguatamente: basti pensare che anche in virtù di questa curvatura il poeta era alto appena 1,41 m. Certamente la dicitura “salute cagionevole” rappresenta l’espressione più sentita nelle ore di italiano per liquidare la questione, ma la realtà del minuto marchigiano è molto più spinosa e articolata.

«[…] perché in somma io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s’andava formando e mi si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendendomi l’aspetto miserabile […]»

[Dalla lettera a Pietro Giordani del 2 marzo 1818.]

Se davvero si fosse incurvato col solo studio, allora si dovrebbe parlare di cifoscoliosi dell’età evolutiva: questa è una patologia a causa ignota (anche se con ogni probabilità vi sono implicati in primis fattori genetici e poi anche ambientali) ed esordio precoce che comporta deviazione latero-posteriore e rotazione di alcune vertebre. Verosimilmente nel poeta c’era davvero una componente genetica predisponente alla curvatura viziata della colonna vertebrale; tuttavia il solo atteggiamento posturale errato dei suoi pomeriggi di studio ed il fatto che nei primi anni di vita non sia stato segnalato nulla di grave (un amico di famiglia, il Marchese Solari di Loreto, scrisse testualmente: «L’ho lasciato sano e dritto, lo trovo dopo cinque anni consunto e scontorto, con avanti e dietro qualcosa di veramente orribile») non sembrano giustificare la gravità delle sue condizioni di salute maturate nel corso dello sviluppo e dell’età adulta.

La biblioteca dello “studio matto e disperatissimo”.

Difatti nel corso della sua vita Giacomo ha poi sviluppato problemi neurologici (formicolii, alterata sensibilità negli arti, cefalee); problemi cardiovascolari (data l’alterazione conformazione della gabbia toracica); problemi respiratori (anche/probabilmente per gli stessi motivi di cui sopra); stanchezza cronica e febbri ricorrenti; probabile fotofobia, cioè eccessiva sensibilità degli occhi verso la luce (lo studio serrato e imperterrito nella biblioteca paterna, pur non essendo causa di fondo, non ha di certo aiutato); probabili reumatismi (quindi dolori a muscoli ed ossa); probabili sindromi infiammatorie gastrointestinali.
Un quadro clinico davvero intricato nonché delicato, che fa di Leopardi un malconcio genio la cui sofferenza era tale da farlo autoconvincere di essere sul punto di morire già nel 1816.

«Qualche bene o contento/ Avrà fors’altri; a me la vita è male».

[Da Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.]

Ma qual è allora l’origine della fin troppo celebre gobba? Le ipotesi più accreditate tengono in considerazione ovviamente la già citata predisposizione genetica, ma anche il contesto familiare (i genitori, come capitava spesso nei matrimoni nobiliari, erano consanguinei e ciò aumenta vertiginosamente la probabilità di avere una progenie con una malattia genetica) e la situazione sociale (all’inizio dell’Ottocento le condizioni igieniche dei paesi di campagna erano pessime e conseguentemente le epidemie ritornavano con frequenza assidua).
Una delle teorie più accreditate in assoluto (formulata alla conclusione di una ricerca condotta nel 2005 da due pediatri, Edoardo Bartolotta e Sergio Beccacece) sostiene che alla base della vistosa prominenza del dorso vi fosse il morbo di Pott. Quest’ultima patologia (che peraltro in seguito avrebbe segnato le schiene di Gramsci, Cardarelli e Moravia) è una forma di tubercolosi extra polmonare a localizzazione ossea, esitante in una destruente e deformante osteomielite. Come nella normale tubercolosi, si ha una risposta (mediata dal sistema immunitario) da parte dell’organismo, con la formazione di granulomi tubercolari: ciò avviene generalmente nel polmone e, se non più controllato, si può rompere in seguito e disseminare in altre sedi – tra cui la colonna vertebrale. Ne deriva un progressivo indebolimento delle vertebre, che si infrangono riducendo dello spazio tra esse compreso e provocando cifosi, danneggiamento di midollo e radici dei nervi spinali, da cui i sintomi suddetti. Di per sé questa ipotesi rappresenta una spiegazione verosimile, data la diffusione della tubercolosi all’epoca; vi morirono infatti il fratello Luigi Leopardi e la celebre Silvia (vero nome: Teresa Fattorini).
Un’altra importante alternativa diagnostica assolutamente degna di menzione (derivata da un approfondito studio portato avanti dal docente di neurochirurgia Erik Sganzerl) è invece rappresentata dalla spondilite anchilosante giovanile. Tale patologia reumatica nasce come processo infiammatorio interessante una o più vertebre, determinato dallo stesso sistema immunitario. Quest’ultimo, andando letteralmente in tilt dopo l’attacco di un patogeno esterno (generalmente un virus, ma può anche essere un’infezione batterica), genera una risposta destruente contro le articolazioni prima periferiche e poi vertebrali, danneggiando in seguito altre strutture in maniera irreparabile (a meno che non si intervenga per tempo). Anche in questo caso l’ipotesi risulterebbe alquanto verosimile poiché alla base di questa malattia c’è una precisa predisposizione genetica e familiarità, favorita dalla consanguineità dei suoi genitori; peraltro, questa malattia insorge soprattutto nei maschi nella prima adolescenza, periodo in cui Leopardi ha visto comparire (come sopra riportato) i primi segni della sua condizione.
La sindrome di Scheuermann rappresenta infine la terza opzione diagnostica più plausibile: difatti, similmente alla precedente spondilite, questa patologia tiene conto del fattore genetico il quale, assieme a fattori esterni (probabilmente microtraumatismi), determina un danneggiamento dei piatti cartilaginei posti a separazione di due vertebre adiacenti. Tale sindrome esordisce in età adolescenziale e porta precocemente a una più o meno grave deformazione dorsale e lombare.
Sono state poi fatte altre ipotesi di malattie che potessero fornire una spiegazione valida alla gobba di Leopardi: tra le più comuni, seppur molto meno probabili, si annoverano celiachia (forma molto grave), diabete (per la neuropatia), epilessia.

«Vita trista e infelicia»: la presunta depressione e la grande sensibilità

«Or poserai per sempre,/ Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,/ Ch’eterno io mi credei. […]/ Al gener nostro il fato/ Non donò che il morire. Omai disprezza/ Te, la natura, il brutto/ Poter che, ascoso, a comun danno impera,/ E l’infinita vanità del tutto».

[Da A se stesso.]

Un altro luogo comune ampiamente diffuso tra i banchi di scuola riguarda la psicologia leopardiana: come precedentemente affermato, il poeta recanatese viene infatti sovente ritratto come un depresso senza speranze che, date le sue condizioni precarie, acquisisce una visione della vita pessimista, a tratti spietatamente nichilista. Egli è dunque in apparenza «la quintessenza del giovane che nessun giovane vorrebbe essere», come appositamente scritto da D’Avenia; è però lo stesso scrittore siciliano a demistificare questa ingenua ma radicata impressione, attraverso le parole del poeta:

«Questa ed altre misere circostanze ha posto la fortuna intorno alla mia vita, dandomi una cotale apertura d’intelletto perch’io le vedessi chiaramente e m’accorgessi di quello che sono, e di cuore perch’egli conoscesse che a lui non si conviene l’allegria, e, quasi vestendosi a lutto, si togliesse la malinconia per compagna eterna e inseparabile. Io so dunque e vedo che la mia vita non può esser altro che infelice: tuttavia non mi spavento, e così potess’ella essere utile a qualche cosa, come io procurerò di sostenerla senza viltà».

[Tratto sempre dalla sopracitata lettera a Pietro Giordani.]

Le chirurgiche parole di Leopardi sono sia macigni che smascherano “l’arido vero” sia fiamme di leggerezza «[che] comunicano […] un senso di dolcezza, anche quando definiscono un senso d’angoscia» (cit. I. Calvino, Lezioni Americane): ma le parole hanno un peso sempre, e in questo caso parlare a priori di “depressione” (termine peraltro abusatissimo nel linguaggio comune) risulta decisamente stucchevole e fuori luogo. La depressione viene attualmente concepita come un disturbo psichico caratterizzato da abbassamento persistente del tono dell’umore, che si configura nell’ambito del DSM V come Depressione Maggiore qualora vengano rispettati numerosi e specifici criteri: tra questi spiccano l’essere apatici e disinteressati a tutte le attività possibili, la pressoché quotidiana riduzione della capacità di pensare o concentrarsi, e il fatto che l’episodio non sia attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza o a un’altra condizione medica generale – tutti aspetti estranei alla condizione del recanatese. Come spiegare allora questa malinconia persistente? Considerando la precarietà delle condizioni di salute, l’età adolescenziale in cui l’infelicità ha cominciato a distruggere le illusioni dell’infanzia e le severe proibizioni paterne, è verosimile la psiche di Leopardi abbia fatto esperienza non tanto della depressione maggiore, quanto piuttosto della depressione adolescenziale. Quest’ultima (precedentemente trattata in maniera approfondita in questo articolo) è una condizione parafisiologica abbastanza duratura, tappa imprescindibile del processo evolutivo e che solo in rare e specifiche casistiche sfocia in un processo propriamente patologico: è il ragazzo che inizia a comprendere la relatività della vita in relazione allo scorrere irreversibile del tempo, che realizza che le certezze infantili non sono più valide e che necessita dunque di capire chi sia lui e in quale direzione proiettare la sua vita. È, in termini più semplici, un ragazzo in crisi che cerca di capire come dare un senso alla sua esistenza. In genere questa condizione ha espressioni e gravità variabili da individuo a individuo e, nel caso di Leopardi, è possibile ipotizzare che la grande sensibilità e l’intelletto che caratterizzavano il poeta abbiano reso tale condizione particolarmente intensa e dolorosa. Ciò non toglie che sia possibile uscire dalle crisi, per le quali oggi si hanno farmaci e psicoterapia; ma c’è anche chi come Giacomo Leopardi ce la fa da solo, resistendo pazientemente con le proprie forze e facendo del dolore la propria arma.
Ma a questo punto verrebbe da chiedersi perché il sentimento di tristezza sia rimasto costante per tutta la vita del poeta, anche molto dopo la fine dell’adolescenza. In tal senso, nel mare magnum di avvenimenti che hanno caratterizzato la vita del poeta, la spiegazione può risiedere in due direttive principali: il peggioramento progressivo delle condizioni di salute (trattate in dettaglio nel prossimo paragrafo) e la vita amorosa costantemente deludente. A tal proposito, deve essere citata l’ipotesi raramente affrontata dai critici del passato (a causa della mentalità più proibizionista di quelle epoche) di una presunta omosessualità/bisessualità da parte del recanatese. Non così tanto remota, stando ad alcuni studi che rivelano che già ne Lo Zibaldone si trovano passi in cui Leopardi considera tali orientamenti come normalissimi nell’antica Grecia ma deprecabili ai suoi tempi. Gli oggetti del desiderio di Leopardi secondo i suddetti controversi studi sarebbero stati certamente le figure femminili che gli sono classicamente affiancate (figure ideali e idealizzate come Silvia, Nerina, Beatrice, Laura, Aspasia, Saffo e donne vere quali Gertrude Cassi Lazzari e Fanny Targioni Tozzetti) ma soprattutto il fidato Ranieri, verso il quale il poeta (stando sempre alle sopracitate ricerche) avrebbe nutrito un profondo amore a senso unico, testimoniato dai toni particolarmente affettuosi che gli riservava nelle sue lettere. Ma allo stato attuale questa rimane solo una teoria da approfondire.

Antonio Ranieri .

Il declino fisico e la morte: ipotesi di una fine misteriosa

“Due cose belle ha il mondo:/ amore e morte.”

[Da Consalvo.]

Un altro punto poco chiaro della vita del poeta riguarda la conclusione della stessa: si sa con certezza che Leopardi si spense a Napoli dopo una breve vita fatta di poesie, ragionamenti, viaggi; di fatto, però, non si sa come ciò sia avvenuto. È possibile quindi fare delle ipotesi in merito, ricostruendo l’evoluzione del quadro clinico del poeta in relazione agli spostamenti effettuati e agli ultimi anni della sua vita.
Partendo dal principio (e quindi dalle precarie condizioni di salute delineate in precedenza), a circa vent’anni (periodo del soggiorno romano del poeta) Leopardi fu colpito da un infelice “mal di visceri” comportante stipsi, diarrea, dolore addominale. Questo aspetto gastrointestinale è divenuto poi un motivo ricorrente nella vita del recanatese, in quanto tale sintomatologia veniva ad accentuarsi di volta in volta in concomitanza dei viaggi che lo stesso effettuava; certamente le abitudini non propriamente salubri di Leopardi (il bere quantitativi eccessivi di caffè, l’essere ingordo di dolci, lo scrivere di notte per poi riposarsi durante il giorno) hanno inoltre contribuito a peggiorare il quadro. Tra il 1827 e il 1828 (anni trascorsi tra Bologna, Recanati e Pisa) si verificò un violento «assalto al petto dove il dolore si accresceva effettivamente con l’impazienza e l’irrequietezza»: è verosimilmente un episodio di angina pectoris, provocato non tanto da condizioni di malattia alle coronarie quanto piuttosto dalla sofferenza degli organi del torace data dalla deformità costituzionale del poeta (che gli provocava difficoltà respiratorie, compressione degli organi e dei vasi, probabilmente ipotensione). Sempre in quegli anni poi Leopardi sperimentò, suo malgrado, un ingravescente peggioramento della vista: la flussione di cui parla lo stesso poeta è credibilmente una importante forma di ipermetropia, che dunque gli impediva di avere una corretta visione da vicino; a questo difetto si sovrappose successivamente un’infezione oftalmica (si è ipotizzato essersi trattato di herpes zoster oftalmico o tracoma) che, provocando una importante infiammazione, resero il poeta “un gufo” dalla vita notturna a causa della importante sensibilità alla luce solare (fotofobia). Negli ultimi anni il poeta soggiornò a Napoli, dall’amico Ranieri: qui l’emottisi (ovvero la tosse sanguinolenta – gli “spurghi di sangue”), la difficoltà a respirare, gli episodi di angina e i dolori diffusi si intensificarono sempre più crudelmente. Si venivano a manifestare gli effetti finali del cuore polmonare cronico, condizione patologica provocata da sofferenza polmonare cronica dovuta, nel caso del poeta, all’importante deformità toracica e forse anche a una tubercolosi secondaria, ottenuta come riaccensione del focolaio acquisito in giovane età. Dopo aver patito enormi sofferenze, Leopardi si spense definitivamente il 14 giugno del 1837.

«La morte non è male: perché libera l’uomo da tutti i mali, e insieme coi beni gli toglie i desideri. La vecchiezza è male sommo: perché priva l’uomo di tutti i piaceri, lasciandogliene gli appetiti; e porta seco tutti i dolori. Nondimeno gli uomini temono la morte, e desiderano la vecchiezza».

[Dai Pensieri.]

Relativamente alla causa della morte ci sono versioni contrastanti. Ranieri, nel suo scritto Sette anni di sodalizio con Leopardi, afferma che la morte del poeta venne provocata da idropisia“, ovvero pericardite essudativa, condizione patologica che porta «le acque, che già da tempo tenevano le vie del cuore, [a riversarsi] micidialmente nel sacco che lo ravvolge», culminando con un tamponamento cardiaco che infine avrebbe arrestato del tutto l’attività cardiaca. Questa versione è stata però contestata dai posteri: dato che il medico che aveva effettuato l’autopsia non fu lo stesso che redasse il certificato di morte, è possibile che il primo dottore si sia rifiutato quindi di porre la sua firma su un documento ufficiale che avrebbe avuto molta risonanza, data la fama internazionale del poeta. Questo perché verosimilmente Leopardi morì di colera, il morbo che affliggeva Napoli in quegli anni; e il destino del cadavere delle vittime di questa malattia era uno solo, la fossa comune – una fine decisamente non idonea per un intellettuale del genere. Da ultimo, si deve citare anche la curiosa ipotesi del prof. Gennaro Cesaro: Leopardi sarebbe morto di ingordigia, avendo mangiato un chilo di confetti cannellini (di cui era golosissimo) seguiti da una tazza di brodo caldo di pollo e una limonata fredda: una congestione intestinale fatale. Ipotesi insolita, ma non del tutto escludibile.

Leopardi morente.

La verità forse non si saprà mai davvero: ma forse è meglio così, è meglio ricordare questa vaghezza propria di chi nell’infinito ci è naufragato davvero diventando immortale.

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Mattia Scarponi

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