È il 2 ottobre 2017 e, il giorno dopo aver annunciato i risultati del referendum ampiamente a favore della secessione da Madrid, il presidente della Generalitat de Catalunya Carles Puigdemont i Casamajò annuncia l’indipendenza della Catalogna. Due colonne di reparti meccanizzati si mobilitano durante la notte: da Castellon de la Plana lungo l’Autopista de la Mediterrania e da Saragozza lungo l’Autopista 2 convergono rispettivamente su Tarragona e su Lleida per stroncare la ribellione, ma i reparti militari residenti in Catalogna, i Mossos de esquadra e alcune milizie popolari create nei giorni precedenti riescono a bloccare entrambe le offensive sul Segre e dell’Ebro. Il governo Rajoy cade il giorno successivo e il Re attribuisce il mandato all’attuale presidente del Senado Pio Gracia Escudero.
Lo stato maggiore dell’esercito di Madrid nei giorni seguenti, vedendosi incapacitato a proseguire, inizia a pensare al bombardamento navale di Barcellona: il governo di Puigdemont decide di bloccare le entrate e le uscite dal paese, con l’unica eccezione dei volontari internazionali provenienti in buona parte da reparti di privatisti e congedati russi. Il 5 Ottobre lo Stato Maggiore dell’aviazione è pronto ad avviare una campagna di bombardamenti su tutto il territorio catalano, ma l’intervento del Re e comandante in capo delle Fuerzas Armadas Filippo VI decide di fermare tutto nella speranza di evitare ulteriori morti civili e invia una delegazione guidata dal nuovo capo del governo ad Amposta, cittadina posta sull’Ebro, per ottenere un cessate il fuoco. Mentre il corteo di blindati procede a zig zag con il nuovo presidente a bordo, sfila di fronte al parco Xiribecs lungo Avinguda Josep Taradellas e diretto verso il Municipio, fino a giungere in vista dei resti del ponte sospeso costruito nel 1915 simbolo della città, minato e distrutto all’inizio dell’offensiva per ostacolare il passaggio delle forze lealiste.
Dopo due giorni di trattative, Puigdemont, facendo leva sull’appoggio russo e portando al tavolo delle trattative gestito da Mons. Renzo Fratini, nunzio apostolico in Spagna, l’incolumità dei civili e la riapertura delle frontiere per i cittadini stranieri, riesce a strappare un cessate il fuoco di due settimane ed esce trionfante dal municipio di Amposta. Tornato a Barcellona annuncia l’indizione delle elezioni che dovranno stabilire la composizione dell’assemblea costituente che redarrà la nuova costituzione catalana. Tutto questo è naturalmente un’ucronia, ma da questo punto in poi, come potrebbe evolvere la politica estera di questo stato catalano? Quale posto nel mondo e quale proiezione strategica troverebbe Barcellona?
Partendo dalle basi, la neonata repubblica potrebbe contare su una popolazione di sette milioni e mezzo di individui con capitale Barcellona. Il paese produrrebbe un PIL nominale di 255.204 milioni di dollari ma soggetto a fluttuazioni (verso il basso) al raggiungimento dell’indipendenza. È lecito aspettarsi che il primissimo paese a riconoscere la Repubblica Catalana sia la Russia. Mosca ha più volte manifestato interesse a creare divisioni e a suscitare conflitti da poter sfruttare all’interno della vicina Unione Europea. La Catalogna indipendente, infatti, non farebbe parte dell’Unione Europea, della Nato, della World Trade Organization e di molti altre organizzazioni internazionali in alcune delle quali è necessaria l’approvazione dei membri per entrare (cosa che Madrid non concederà in nessun caso). Tra i paesi europei è difficile ipotizzare un eventuale riconoscimento catalano, in parte per evitare situazioni simili in casa propria, in parte per l’incentivo praticamente nullo a tradire l’alleato spagnolo.
Mosca ha dimostrato a più riprese di voler destabilizzare l’Europa o quantomento di voler indebolire Bruxelles favorendo di volta in volta la creazione di focolai di conflitto sulla porta di casa (Ucraina, Transnistria e Georgia) da sfruttare per generare situazioni politicamente ambigue e buchi neri che la criminalità utilizza per far giungere esseri umani, armi, sostanze illecite in Europa. Altra linea d’azione spesso sfruttata dal Cremlino è quella del finanziamento di partiti politica antieuropeisti, applicata in situazioni come quella delle elezioni presidenziali francesi (con il ben noto finanziamento al Front National passato attraverso la Czech Russian Bank), il sostegno alla Lega Nord, ad Alba Dorata e a tutta una serie di partiti che desiderano un minor coinvolgimento del proprio paese nel processo di integrazione europea. Questo perché le situazioni di questo tipo possono creare divisioni tra un paese e l’altro, indebolendo l’alleanza Atlantica che al momento rimane il maggior ostacolo della Russia alla sua proiezione strategica verso ovest. Oltre a questo ci sono anche considerazioni economiche di due ordini: il primo riguarda il mercato, il secondo le sanzioni. Nel primo caso, infatti, una serie di mercati a cui vendere l’energia ha una forza contrattuale minore rispetto ad un mercato europeo unito. In secondo luogo, le sanzioni imposte dall’Unione Europea senza un coordinamento centrale da parte di Bruxelles non sarebbero attuate in modo così efficace, e alcuni paesi cederebbero di fronte alla possibilità di poter vendere su un mercato ampio sebbene povero come quello russo.
Tornando allo stato catalano, questo si affaccerebbe sul mediterraneo e sarebbe tentato di cercare amici sull’altra sponda del mare. Marocco, Tunisia, Algeria, Libia e Egitto potrebbero vedere degli emissari della neonata repubblica giungere (metaforicamente, s’intende) presso le proprie cancellerie per chiedere appoggio e riconoscimento per il proprio paese. Questi paesi sono esportatori netti di energia sotto forma di gas naturale e petrolio, e rappresentano mercati di sbocco importanti. Quasi tutti i paesi dell’area si troverebbero indotti a tagliare i ponti con la Catalogna considerando i rapporti economici che legano l’area alla Spagna: si pensi al volume di scambi con il Marocco, Algeria e Tunisia, senza contare che la Libia al momento non è in grado di esprimere una politica estera unitaria per le note vicende che spaccano il paese dall’inizio del decennio. Un possibile comportamento divergente di questo gruppo di paesi potrebbe arrivare dall’Egitto, magari spinto dalla Russia, che al momento sta giocando su più tavoli intrattenendo rapporti con l’occidente, ma comprando armi ed expertise militare da Mosca.
Un’altra categoria di nazioni con cui la Catalogna potrebbe cercare di stringere rapporti in cerca di appoggi politici è quella dell’ex impero coloniale spagnolo, diffuso principalmente nel Mesoamerica e nell’America Meridionale. In questo caso diversi vincoli legano la penisola iberica e l’America latina, in primis quello della lingua e una certa identità culturale (sentimento più forte nel caso di paesi come l’Argentina, decisamente meno in altri come il Perù in cui la popolazione è a maggioranza derivante dalle popolazioni precolombiane o in cui c’è una forte identificazione con quell’era della propria storia, come in Messico). Rinunciando all’identificazione con il sistema culturale spagnolo, i catalani rinuncerebbero anche ai legami con l’area sudamericana e quindi al suo capitale politico: dei legami potrebbero essere mantenuti con i paesi dove la diaspora catalana che ha seguito le carlistadas si è insediata, ma tale sentimento non pare essere sufficientemente forte da permettere di instaurare una connessione politica tale da disporre il riconoscimento, specie se confrontata con la gamma di rapporti già esistenti con la Spagna.
In tale contesto uno dei paesi che assumerebbe un comportamento deviante rispetto allo standard potrebbe essere il Venezuela, anch’esso desideroso di opporsi all’unità europea che crea un monolito di fronte a Caracas al di là dell’Oceano Atlantico. Lo stato comunista, infatti, in parte per la propria politica antidemocratica e ostile, in parte per la propria disciplina in materia dei diritti umani e il costante discorso politico antistatunitense ed antiatlantista, si è creato un discreto muro attorno che ad oggi pochi paesi (nominalmente Bolivia, Russia ed Iran) sembrano in grado di superare. La Catalogna potrebbe rappresentare un’ottima sponda oltreoceano, specie in chiave economica (che è il settore dove il regime di Maduro sembra soffrire maggiormente).
Condizionata del sentimento filoeuropeista, liberale e pro-accoglienza che sembra essere abbastanza diffuso tra la popolazione, Barcellona verrebbe a trovarsi in un paradosso politico: uno stato basato sulla libertà d’espressione e sull’autodeterminazione verrebbe a trovarsi politicamente circondato da autocrazie basate su un sistema in alcuni casi cleptocratico (Russia e Venezuela), in altri basato sul potere teocratico (Iran) e in ogni caso contrario ai principi democratici. Dall’altro lato, quello maggiormente pratico e macroeconomico, alla Catalogna indipendente verrebbero a mancare i presupposti necessari per una crescita economica sana e che non si basi interamente sul turismo di Barcellona, specie considerando la fuga delle attività imprenditoriali e delle banche dal territorio catalano. La Catalogna nel giro di pochissimo tempo si troverebbe a dover richiedere aiuti finanziari fino a coprire una quota rilevante del proprio PIL, creando in sostanza un Kosovo sulle sponde del mediterraneo.
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