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Il Partito Socialista Italiano dal 1948 al Rapporto Chruščëv

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Angelica Migliorisi

La storia del Partito Socialista Italiano è quasi come quella di un paziente terminale che, non ancora disposto ad abbandonare la vita, rantola nel suo letto d’ospedale in preda a convulsioni e deliri di onnipotenza, deciso più che mai a non lasciarsi sfuggire quell’ultimo soffio di vita che gli viene concesso. La situazione sembra ripetersi all’infinito e nonostante la diagnosi continui a essere quella di “malattia terminale”, egli riesce sempre a beffarsi dei medici, a sopravvivere, tra lo stupore di molti e lo sgomento di altri. Quello che apparentemente può sembrare un paragone azzardato è in realtà un modo come un altro per connotare l’affanno e il turbamento con cui il socialismo italiano, specialmente all’indomani del secondo dopoguerra, si è barcamenato tra i marosi della politica italiana e internazionale. I socialisti avevano dato il loro addio al Fascismo sorridenti ma completamente prostrati sulle ginocchia. Il durissimo colpo inferto loro dal regime aveva reso presto impellente la necessità di una nuova istituzionalizzazione. Tra scissioni, cambiamenti strutturali e battute d’arresto il PSI era riuscito, con somma fatica, a dotarsi di un nuovo assetto organizzativo che, seppur non del tutto stabile, appariva senza dubbio dignitoso. La Fenice d’Italia era arrivata dunque alla vigilia delle elezioni del 1948 piena di speranze e voglia di riscatto, per poi arrestarsi a quel tragico 9% che ne avrebbe compromesso, ancora una volta, la sopravvivenza. Si era imposta quindi l’urgenza di una rinascita, la seconda nel giro di una manciata di anni. La sfida era ambiziosa, la posta in gioco forse ancor più elevata dell’ultima volta. I tempi d’altronde erano cambiati, la società appariva destinata a trasformazioni progressivamente più drastiche ed evidenti (di cui il boom economico sarebbe stata solo la punta dell’iceberg). Le spinte centrifughe interne alla Direzione si sommavano agli attacchi esogeni provenienti dagli altri partiti e dal clima internazionale, al punto che per il PSI, questa volta, restare a galla fu un’impresa titanica.

«La lunga notte del socialismo italiano»

La sconfitta elettorale aveva finito per generare un profondo solco all’interno del Partito Socialista, sia a livello di base sia a livello di Direzione. Le discussioni circa le cause dell’insuccesso si ripetevano lunghe e violente tanto in seno alla dirigenza quanto tra gli iscritti finché presto non fu avvertita la necessità di un nuovo Congresso. Le linee proposte erano tre: una di “centro” facente capo a Riccardo Lombardi e Alberto Jacometti, una di “sinistra” con Nenni e Morandi e una di “destra” guidata da Giuseppe Romita. Il “centro” perseguiva la rottura del Fronte popolare con i comunisti, pur mantenendo con essi un’alleanza strategica, al fine di ridare al PSI una veste di autonomia; inevitabile, dunque, lo scontro con la “sinistra”, feroce sostenitrice dell’unità d’azione con il PCI. Nell’inquietudine generale che ormai da anni faceva da sfondo ai Congressi socialisti, si aprì a Genova il nuovo assise, tra lo sconcerto, questa volta, di molti: Sandro Pertini, punta di diamante della linea centrista, assesta un “tiro franco” a Lombardi e compagni tirandosi fuori dalla mozione di “centro” e spiegando come l’asse PSI-PCI fosse (troppo) importante per la sopravvivenza del Partito. Tra bocche aperte, occhi sbarrati e un via vai di sali pronti a rianimare deputati svenuti, il Congresso si chiuse con la vittoria del “centro”, che sancì l’avvento alla Segreteria di Jacometti e la nomina a direttore dell’Avanti! di Lombardi.

Incontro tra Pietro Nenni e Sandro Pertini.

Il Partito, tuttavia, era ormai sull’orlo del precipizio e alle casse vuote si andò sommando lo scarso carisma ed eco “mediatica” della nuova Direzione. A buttare benzina sul fuoco contribuì poi un fatto del tutto eccezionale, quasi impossibile da prevedere: nel giorno in cui i francesi festeggiavano gioiosi la ricorrenza della presa della Bastiglia, tre colpi di pistola raggiungono il corpo di Palmiro Togliatti all’uscita di Montecitorio. L’onda d’urto fu tale da far salire la tensione alle stelle, con sommovimenti che sfociarono in scioperi e, addirittura, nella fuoriuscita della componente cattolica dalla CGIL. In merito all’alleanza con i comunisti, si decise allora di “dare un colpo al cerchio e uno alla botte”: il Fronte veniva mantenuto a livello tattico ma il PSI diventava autonomo a livello organizzativo.

Togliatti in ospedale.

Intanto la Direzione doveva far fronte alle veementi e continue tensioni provenienti dall’esterno, soprattutto da quei funzionari che, non riconoscendo il nuovo centro, avevano ripreso a tessere i rapporti con Nenni e Basso. Quando la Direzione si decise a sciogliere il Fronte, iniziò un’opera di infiltrazione comunista all’interno della base socialista (avallata da Togliatti) con l’obiettivo di evitare la rottura definitiva dell’idillio, un’eventualità tragica per i comunisti soprattutto all’indomani dell’attentato. Gli attacchi alla Direzione erano dunque molteplici, scanditi dagli incontri tra Nenni e Malenkov (secondo di Stalin) che rendevano evidenti le mire della “sinistra” di riprendersi il vertice. Circondato da piranha di ogni specie e dimensione, il “centro” aveva come unica chance quella di un’intesa con Romita. Il rifiuto del politico di Tortona fu però così categorico da lasciare completamente isolata la Direzione, ormai sotto scacco. La strada da percorrere rimaneva una e una soltanto: la convocazione di un nuovo Congresso, tra l’incredulità di quanti, avendo fatto un rapido conto, si erano accorti che quello sarebbe stato il quinto in soli tre anni. Le mozioni presentate erano sempre le stesse e, come da pronostico, la “sinistra” uscì dall’assise fiorentino completamente vittoriosa (51%). Nenni, trionfante, riprese il suo posto al tavolo dei “grandi” e, con lui, Morandi e Basso. Il cambiamento nella Direzione avrebbe sancito una svolta strutturale dell’intero assetto partitico in senso autoritario e l’impronta morandiana si sarebbe fatta sentire severa e implacabile. Per dirla con Paolo Mattera, la «lunga notte del socialismo italiano» era appena iniziata.

Rodolfo Morandi.

Di fronte alla crisi persistente in cui gravava il partito, la nuova Direzione (composta da un gruppo esiguo di uomini fidati) decise di applicare una linea rigida e inflessibile, che aveva il suo uomo di ferro in Rodolfo Morandi. La strategia utilizzata comprendeva un irrigidimento dei processi amministrativi e di controllo, un approccio paternalistico, una politica d’indirizzo e uno “svecchiamento” dei funzionari di partito, il tutto condito con un pizzico di «centralismo democratico» che si esplicitò nell’allontanamento di riluttanti e “infedeli” dalla compagine. Vittima, tra le altre, di questa gigantesca opera di ristrutturazione morandiana fu Lelio Basso, il quale, percependo la propria scarsa eco e l’incapacità di veder soddisfatte le proprie richieste, iniziò ad avanzare pretese che gli valsero, con scarse esitazioni, le dimissioni. Il XXIX Congresso socialista non fece altro che ribadire la politica di pianificazione strategica e intransigenza organizzativa già avviata, che si risolse soprattutto nel mutamento dei quadri della CGIL, con la nuova Segreteria presieduta da Di Vittorio (PCI) e Lizzadri (PSI), sintomo del (nuovo quanto presunto) sodalizio tra i due partiti.

L’abbraccio di Lizzadri a Di Vittorio.

Dal punto di vista ideologico, la nuova Direzione puntò sul leninismo, nonché sulla stigmatizzazione totale di figure rivali, quali soprattutto Romita e Saragat, e della DC tout court, accusata di essere una pedina manovrata a proprio piacimento dagli americani. Con lo scoppio del conflitto in Corea, l’intransigenza politica si fece più marcata e se da un lato i democristiani sventolavano la bandiera del riarmo, la Sinistra (PCI e PSI) approfittò del momento storico per riattivare una dura campagna contro il capitalismo. L’Unione Sovietica assurgeva a “Grande Madre” (e il fatto che Nenni nel 1952 avrebbe ricevuto il Premio Stalin per la pace ci dà il polso della diffusione del mito sovietico) dietro cui proteggersi per combattere l’imperialismo americano e, a tal proposito, il PSI rispolverò dal cassetto un intero album fotografico di illustri personaggi del passato, martiri ed eroi del socialismo più massimalista, con l’intento di far breccia nei cuori dei cittadini più dubbiosi. Anche dopo la feroce espansione dell’URSS nell’Europa dell’Est, i socialisti avrebbero continuato a mostrarle fedeltà, senza cenni di risentimento o tensioni.

Sebbene il traghettatore indiscusso di questa «seconda rifondazione» socialista fosse stato Morandi, il leader carismatico, amato e osannato dalle folle rimaneva Pietro Nenni, forte sempre più delle sue doti oratorie e della sua capacità di tenere le redini di una vera e propria macchina da guerra (tale era diventato il PSI) tanto che, come fa notare il Professor Mattera, sempre più diffusa era la tendenza in Italia a identificare il Partito socialista con il «partito di Nenni».

L’«Operazione Nenni» e l’«apertura a sinistra»

Nel 1952 Pietro Nenni è a colloquio con De Gasperi, deciso a chiedere un’apertura del governo a sinistra. Nonostante la volontà del democristiano fosse quella di serrare i ranghi, precludendo l’accesso al potere tanto ai comunisti quanto ai fascisti, la stretta esercitata dalla Chiesa, desiderosa di una compressione totale del comunismo, era sempre più forte. Sulla spinta di Pio XII era nata infatti l’“Operazione Sturzo”, cioè l’idea di un’alleanza tra democristiani, missini e monarchici in vista delle amministrative di Roma. De Gasperi, d’altronde, da strenuo sostenitore dell’antifascismo, non avallò la proposta, annunciando che alle successive elezioni la DC si sarebbe presentata solo ed esclusivamente in una lista congiunta con repubblicani, liberali e socialdemocratici. Nonostante il salvataggio in corner del Presidente del Consiglio, l’eco di quel tentato salto nel vuoto si sarebbe fatta sentire ancora a lungo e fu soprattutto il Segretario socialista a trarne i frutti, ormai convinto della necessità di dare un indirizzo politico preciso al partito, tanto che su alcuni giornali iniziò a serpeggiare la prospettiva di una “Operazione Nenni”.

Alcide de Gasperi.

L’idea di bloccare ogni aspirazione di governo a fascisti e comunisti era diventata presto un’ossessione per la DC, al punto da farle varare un progetto di riforma elettorale che, sulla carta, avrebbe garantito un premio di maggioranza e due terzi dei seggi al partito che avesse ottenuto il 50% più uno dei voti ma che, in buona sostanza, altro non era se non un espediente per ancorarla al potere ad aeternum. Quella che la Storia avrebbe ribattezzato come “legge truffa” suscitò l’immediata e implacabile reazione della Sinistra italiana e soprattutto dei socialisti, i quali cominciarono una campagna di mobilitazione martellante, fatta di opuscoli, volantini, simbolismi, coinvolgimento emotivo e invettive a mezzo stampa, che aveva il suo movente principale, come chiarisce il Professor Mattera, nel riconoscimento della triade democrazia-Costituzione-sistema proporzionale. D’altronde, «i meccanismi di identificazione erano molto semplici: da una parte stavano la democrazia, la libertà e la pace, sostenuti dal PSI; dall’altra la dittatura e la guerra, rappresentati dalla DC asservita agli Stati Uniti». Dopo una propaganda senza esclusione di colpi, il 10 giugno 1953 ci fu il verdetto: le forze di centro si stanziavano al 49,9%, non raggiungendo così il premio di maggioranza per poco più di 50000 voti, un’inezia insomma. Oltre al danno, la beffa: il PSI in netto rialzo otteneva il 12,7% delle preferenze e De Gasperi, abbandonato anche da Saragat, rassegnava le dimissioni.

Prima pagina de “L’Unità” all’indomani del 10 giugno 1953.

L’esito delle elezioni del 1953 e l’uscita di scena di De Gasperi, pur provocando il giubilo delle forze di sinistra, di fatto non avevano scalfito lo strapotere della Democrazia Cristiana, semplicemente avevano messo in evidenza quello che sarebbe stato uno dei tratti più caratteristici del sistema politico italiano negli anni a venire: un sistema «incapace di formare maggioranze alternative e di esprimere ricambi di governo attraverso le elezioni; incline perciò a risolvere i conflitti mediante la cooptazione di nuove forze nell’area di governo». Pietro Nenni, cavalcando il successo, si mosse allora per rendere il Partito socialista italiano l’ago della bilancia della democrazia.

Alla caduta del governo De Gasperi erano seguite le esperienze poco incisive e ambiziose di Giuseppe Pella e Amintore Fanfani, che di fatto avevano solo spianato la strada all’avvento, quel 10 febbraio 1954, di Mario Scelba, più comunemente noto come «l’uomo della Celere». Fu un duro colpo per Pietro Nenni, il quale aveva appena iniziato a intessere una rete di rapporti con la maggioranza di governo, speranzoso di ottenere un’apertura a sinistra. Scelba, in tutta risposta, si attivò immediatamente per una politica autoritaria convintamente anticomunista, che si concretizzò in un esacerbamento della repressione da parte delle forze dell’ordine ai danni di PSI e PCI.

Mario Scelba.

Tuttavia la politica autoritaria durò poco a causa del continuo tentativo di Fanfani, Segretario della DC, di spostare il governo su nuove posizioni. Il culmine si ebbe con l’elezione alla Presidenza della Repubblica di Giovanni Gronchi, dove fondamentale fu l’appoggio di PSI e PCI, tanto che Nenni si assunse il merito del successo, definendolo come «la prima vittoria dell’apertura a sinistra». Intanto, l’onda lunga dei successi della DC e del PSI nelle elezioni regionali in Sicilia decretò la fine del governo Scelba e l’avvento di Antonio Segni che, per dare un forte segnale di rinnovamento, decise anzitutto di abolire le leggi del precedente Presidente del Consiglio e di inaugurare la Corte Costituzionale, la quale avrebbe contato tra i suoi membri anche l’allora braccio destro di Nenni, Mario Bracci.

Giovanni Gronchi.

I socialisti degli anni Cinquanta erano pervasi da una generale e sana fiducia nei confronti del futuro, complici tanto il contesto internazionale, che iniziava a mostrare le trame distensive della Guerra Fredda, quanto le iniziative politiche interne del governo Segni, sempre più patrocinate e adottate grazie al voto favorevole del PSI. Sembrava veramente che la compagine socialista fosse riuscita a ritagliarsi un ruolo chiave nella politica del Belpaese, motivo per il quale «ottimismo» e «orgoglio», come osserva Paolo Mattera, divennero presto le keywords del partito.

Eppure, come spesso accade quando si pensa che tutto stia iniziando ad andare per il verso giusto, ecco che succede qualcosa in grado di ribaltare completamente il corso degli eventi. Nello specifico accadde che, all’indomani della morte di Stalin e dell’avvento alla Segreteria del partito comunista di Nikita Chruščëv, dal XX Congresso del PCUS del 1956 emerga un Rapporto segreto, destinato a mutare drasticamente gli equilibri delle sinistre europee. Nel documento si leggeva chiaramente come Stalin, lungi dall’essere stato un capo magnanimo, si fosse macchiato in realtà di terribili atrocità, mai trapelate nell’Europa occidentale (fino a quel momento, almeno).

Un manifesto sul Rapporto Chruščëv.

Quando il Rapporto iniziò a diffondersi, l’impatto sui partiti di sinistra europei fu di una portata tale da minacciare la loro stessa stabilità. E questo, naturalmente, valeva anche per il Partito socialista italiano. La Direzione optò inizialmente per non assumere un atteggiamento preciso, conscia delle divisioni che già stavano sorgendo sia a livello di base sia a livello di gruppo dirigenziale in merito al rapporto con il PCI. Si decise dunque di procedere alla campagna per le amministrative, incuranti del clima internazionale. Fu una campagna molto meno aggressiva di quelle più recenti, anche in forza del generale clima di ottimismo che continuava a pervadere i socialisti e i risultati furono piuttosto convincenti, dal momento che il PSI raggiunse quota 2,3% nei comuni con più di diecimila abitanti con sistema proporzionale. Il problema, forse non previsto da Nenni, è che le elezioni segnarono anche un incremento del PSDI. Il fronte socialista si spaccò dunque tra chi auspicava la fine del legame con i comunisti e l’inizio di un sodalizio con i socialdemocratici e chi, d’altro canto, continuava a preferire i “rossi” ai “traditori”. A irrigidire ulteriormente il clima già teso contribuì poi la pubblicazione del testo integrale del Rapporto segreto, dove emersero i dettagli dei crimini e delle atrocità commesse da quello che, oltre ormai ogni ragionevole dubbio, appariva come un feroce dittatore. Inutile dire che, a questo punto, la mobilitazione spontanea della base fu tale da rendere impraticabile ogni ipotesi di continuazione serena dei rapporti con i comunisti. La Direzione, ora alle strette, non poteva più rimandare l’adozione di una linea da seguire.

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Angelica Migliorisi

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