Prima di essere Jake, LaMotta fu innanzitutto Giacobbe. Il topos del peso del proprio nome, che ha segnato innumerevoli personaggi della letteratura, assume nella vita di Jake incredibile rilevanza. E non basta quel ‘New York’ sul suo certificato di nascita a separarlo – a liberarlo, forse – dalle sue origini. Nasce e cresce nell’assoluta povertà di una famiglia di immigrati italiani nel periodo della grande depressione, con tutto ciò che questo comporta. Fuori di casa c’è un mondo ostile, crudele, dove essere preda o cacciatore; dentro casa, tanti piatti da riempire e un padre alcolizzato e violento. La fame, le discriminazioni, il senso di inadeguatezza accendono in Jake la fiamma di una rabbia e di un risentimento destinata a crescere sempre di più, fino a diventare un rogo indomabile.
Crescere nel Bronx degli anni Trenta significa lottare contro il proprio destino. Chi ci nasce sogna di fuggirne, pur convivendo con l’infausto presagio di non poterci mai riuscire. A nove anni d’età, Jake non esce mai senza avere in tasca il punteruolo che usa per spaventare i coetanei da cui è preso di mira. Un giorno, però, lo dimentica a casa. Spinto dalla paura, è costretto a difendersi usando i pugni. Non solo nessuno di quei ragazzi lo infastidirà più, ma, scopertone il talento naturale, il padre lo obbliga a battersi contro gli altri bambini del quartiere. Piccoli gruppi di adulti si riuniscono attorno al ring artigianale per assistere ai suoi incontri. Gli spettacoli costano pochi centesimi e aiutano i LaMotta a pagare l’affitto.
I furti e le rapine a mano armata diventano per Jake la quotidianità fin dalla più tenera adolescenza. Durante una di queste, ai danni di un bookmaker, colpisce l’uomo talmente forte da stenderlo e crederlo morto (complice la pubblicazione sui giornali di una falsa notizia). Molti anni più tardi, vissuti nell’angoscia di aver commesso un omicidio, scoprirà che dopo una lunga degenza e riabilitazione, il bookmaker si era in realtà salvato e rimesso in salute. Questo episodio resta tuttavia una macchia indelebile nel percorso di Jake. Il senso di colpa accresce un bisogno di autodistruzione dettato dall’odio verso sé stesso, un odio generato dalla propria condizione sociale ed economica. Sarà LaMotta stesso, in un’intervista del 1981, a dire: «Mi sentivo come se mi avessero fatto il lavaggio del cervello. Pensavo: «sei povero, questa sarà la tua vita per sempre, non meriti nulla di buono». Anche sul ring a volte lasciavo che mi prendessero a pugni in faccia. Sentivo di meritarlo».
Nel 1941, Jake ha diciannove anni. La guerra che sconvolge l’Europa inizia a toccare attivamente anche gli Stati Uniti. Appena uscito dal riformatorio prova ad arruolarsi, ma viene scartato per un problema all’osso temporale del cranio. L’ostacolo diventa opportunità: LaMotta si dà al pugilato professionistico, vincendo quattordici dei suoi primi quindici incontri (tre dei quali per KO). Alla prima sconfitta, decisa ai punti contro Jimmy Reeves, la folla esplode: attorno al ring scoppiano risse e tutto il palazzo fischia per i venti minuti successivi all’annuncio del vincitore. Jake ha perso, ma la sua leggenda è appena cominciata.
La sua tecnica non è sopraffina, ma il pubblico lo adora. LaMotta poteva prendere pugni su pugni, subire per lunghissimi minuti gli attacchi dei rivali e fingere di accusarli. Creava nell’avversario l’illusione della vittoria. Barcollava, andava all’angolo. Poi, come se nulla fosse, rilasciava il suo attacco. Pieno di tutta la fame, la rabbia, il risentimento accumulati negli anni di sacrifici e di soprusi subiti per tutto l’arco della sua vita. Pieno, soprattutto, di un’ineguagliabile voglia di vincere. È questo attacco implacabile, furente, quasi disperato a valergli il soprannome di Toro Scatenato.
«Ho combattuto contro Sugar talmente tante volte che sono sorpreso di non essere diabetico». Tra il ’42 e il ’45, la carriera di LaMotta è segnata soprattutto dagli incontri contro Sugar Ray Robinson. Si scontrarono cinque volte e per quattro di queste Robinson vinse ai punti. Dell’unico incontro in cui Jake trionfò, il secondo della loro serie, rimase celebre la fotografia di Sugar Ray colpito così duramente da finire tra le corde e cadere dal ring. Era la prima sconfitta della sua carriera. L’ultimo match, del settembre ’45, concluso con una controversa e fischiata vittoria ai punti di Robinson, fece a lungo discutere gli appassionati. I due si troveranno avversari ancora una volta, nel febbraio del ’51, in un incontro ancora oggi considerato leggendario.
Ma, nel corso degli anni che precedettero quella sfida, la carriera di LaMotta si colorò di molte sfumature diverse. La sfida contro Billy Fox, una delle più discusse vicende della pugilato, gli guadagnò una lunga squalifica. Il motivo? La commissione atletica dello Stato di New York sospettava che l’incontro fosse truccato, e a ragion veduta. Anni più tardi, l’FBI tornò a indagare sulla vicenda e la testimonianza di Jake non lasciò molti dubbi in merito. «Mi prese il panico» dichiarò, «un paio di colpi alla testa e già vidi i suoi occhi farsi vitrei. Dovevo lasciarlo vincere, ma sembrava che sarei finito a tenerlo su di peso per riuscirci. Alla fine del quarto round dovevi essere proprio ubriaco per non capire cosa stava succedendo». LaMotta aveva venduto l’incontro per ottenere i favori della mafia, cui versò anche ventimila dollari, perché gli fosse permesso di lottare per il titolo di campione del mondo dei pesi medi.
Per quanto scorretto, dare alla Mafia ciò che chiedeva diede i suoi frutti. Il permesso fu accordato e, nel ’49, Jake disputò un match da dieci round contro il francese Marcel Cerdan, considerato uno dei pugili migliori di Francia. Verso la fine dell’incontro, entrambi versavano in pessime condizioni: un infortunio alla mano sinistra per LaMotta (che riuscì comunque a colpire per centoquattro volte l’avversario durante l’ultimo round) e una spalla slogata per Cerdan. Questi, alla campana del decimo round, gettò la spugna. Toro Scatenato fu proclamato Campione del Mondo. Appena due mesi più tardi, Cerdan partì in aereo dalla Francia per prendersi la rivincita. Il suo aereo si schiantò contro un monte delle Azzorre: a bordo non ci furono superstiti.
Due volte, nel luglio e nel settembre del ’50, LaMotta difese il titolo. La prima volto contro Tiberio Mitri; la seconda contro Laurent Dauthuille che, pur essendo avanti nel punteggio, fu dichiarato sconfitto per knockout al quindicesimo round, in un match che fu proclamato Incontro dell’Anno 1950. Ma il dominio di Jake non era destinato a durare a lungo. Il 14 febbraio 1951 fu sfidato per la sesta e ultima volta dalla sua bestia nera: Sugar Ray Robinson. L’incontro fu tanto violento da essere rinominato Massacro di San Valentino. Al tredicesimo round, LaMotta era stato colpito talmente tante volte e con una potenza tale da costringerlo ad accasciarsi sulle corde senza potersi rialzare. Perse per knockout tecnico, ma non andò mai al tappeto. Il valore di Robinson fu comunque riconosciuto da Toro Scatenato stesso, che a fine carriera dichiarerà: «I tre avversari più forti contro cui mi sia mai confrontato sono Sugar Ray Robinson, Sugar Ray Robinson e Sugar Ray Robinson».
Pur riuscendo a guadagnare fama, fortuna e la tanto agognata fuga dal Bronx, la parte di LaMotta più oscura e selvaggia lo tormentò per quasi tutta la vita. Solo molti anni dopo aver lasciato la boxe sarà in grado di riguardare alle sue azioni con occhio critico. Ci si può stupire della sua collaborazione con Martin Scorsese al film Toro Scatenato (1980), un film che lo dipinge in tutti i suoi lati più controversi. Ma fu LaMotta stesso a dire: «La prima volta che ho visto il film, ero sconvolto: dà un’immagine di me non certo lusinghiera. Ma poi ho capito che era tutto vero. Sono stato un bastardo buono a nulla».
Per quanto gli eroi che ammiriamo nel corso delle nostre vite siano visti con occhio comprensivo anche nei loro lati peggiori, LaMotta non fu semplicemente una simpatica canaglia. Le accuse a suo carico furono di rapina a mano armata, stupro e aggressione. Più volte, e ai danni di un buon numero delle sue sei mogli, si macchiò di violenza domestica. Persino qualcuno degli altri ragazzi con cui aveva vissuto le strade del Bronx e che a loro volta erano riusciti ad uscirne era d’accordo nel dire che Jake fosse davvero troppo violento.
Solo negli ultimi decenni della sua vita riuscì a trovare un equilibrio. Rimase in ottimi rapporti con l’ex moglie Vikki LaMotta, che lo aiutò anche dopo il divorzio a mantenere uno stile di vita tranquillo. Smise di bere e di frequentare ambienti nocivi. Si dedicò alla cucina e al rapporto con i figli. Esplorò la Sicilia, dove fu accolto con grande calore, stupendosi del fatto che la gente non sapesse pronunciare il suo nome, ma sapesse benissimo chi era. E infine avendo vinto contro il Bronx, contro il suo destino e contro se stesso.
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