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Separati(smi) in casa: cosa succede nel Kurdistan iracheno

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Carlo Paganessi

Il Kurdistan è una regione storica che coincide con l’omonimo altipiano diviso tra cinque paesi diversi: Iraq, Siria, Turchia, Iran e Armenia. In cima a tale altipiano la popolazione è in prevalenza di etnia curda ma vi abitano anche arabi, armeni, persiani, turchi, turcomanni e via dicendo. Storicamente parlando si hanno le prime notizie dei curdi nel sesto secolo, quando in alcune fonti scritte religiose siriache viene riportato il riferimento geografico Beth Qardu (Casa dei Curdi), riferendosi a quella regione che i romani chiamavano Corduene. A cavallo tra VII e VIII secolo la regione si islamizza progressivamente diventando una federazione di emirati islamici semi indipendenti. Alla metà del XVI secolo, in seguito alla battaglia di Cialdiran tra ottomani e persiani, la regione venne divisa tra Turchia e Iran secondo un confine che permane fino ai giorni nostri.

La questione curda riemerse prepotentemente con la fine della Prima Guerra Mondiale: la sconfitta dell’Impero Ottomano ne decretò la dissoluzione e il grande malato d’Europa cessò di esistere per lasciare il posto a una molteplicità di soggetti che componevano la maggior parte della cartina politica del Medio Oriente e la rendevano più simile a quella odierna. I confini degli stati in tale circostanza vennero definiti durante il trattato di pace separato tra le potenze dell’Intesa e l’Impero Ottomano firmato nel 1820 a Sevres, in Francia.

In questo trattato, la Sublime Porta accettava la perdita e il rilascio di tutti gli stati arabi e del Caucaso (Armenia) – i cui confini erano stati già definiti da Regno Unito e Francia – la perdita di sovranità sugli stretti del Bosforo e dei Dardanelli. Lo stato turco venne ridotto alla sola penisola anatolica, senza contare l’occupazione greca di Smirne e Adrianopoli, mentre l’Italia annetteva le isole del Dodecanneso che stava già occupando dall’inizio del decennio precedente. In tutto questo il problema curdo veniva disciplinato attribuendo ampie tutele alle minoranze e, più nello specifico (artt. 62-64), prevedendo un referendum per l’autodeterminazione dello stato curdo con capitale Diyarbakir. Tale nuova nazione avrebbe dovuto ricomprendere solo la parte turca dell’altopiano del Kurdistan.

Le cose, tuttavia, non vanno mai secondo i piani: con l’ascesa al potere del militare Mustafa Kemal detto Ataturk, l’Impero Ottomano diventa definitivamente Turchia, ma soprattutto inizia un movimento di rinascita nazionalista che porta alla creazione di un esercito che sfondava le barriere organizzative poste dal trattato di Sevres (50.000 soldati armati senza tecnologie all’ultimo grido, senza leva obbligatoria e non pagata), puntando alla riconquista già nel 1922 delle città cadute in mano alla Grecia, dando vita a quella che i greci chiamano a tutt’oggi Catastrofe dell’Asia Minore, che originò un vero e proprio genocidio delle popolazioni elleniche presenti nella penisola anatolica.

Mustafa Kemal detto Ataturk, primo presidente e padre della patria turca.

Tra gli effetti collaterali della creazione del nuovo stato turco vi fu l’abolizione del parlamento dell’Impero Ottomano a cui spettava la ratifica del trattato di Sevres. Senza ratifica anche gli articoli riguardanti i Curdi vennero bellamente ignorati, e dopo la guerra turca d’indipendenza Ataturk costrinse i contraenti a ridefinirne i termini. Il trattato venne sostituito dal trattato di Losanna del 1923, nel quale i curdi non erano nemmeno menzionati.

Il successivo tentativo di indipendenza avvenne al termine della Seconda Guerra Mondiale, questa volta dal lato iraniano della regione: L’Unione Sovietica appoggiò la creazione del Partito Democratico Curdo nel 1945, mentre l’anno successivo avvenne la proclamazione della repubblica popolare curda con la capitale situata presso Mahabad. Nella seconda metà dell’anno i soldati russi tornarono in patria lasciando la neonata repubblica alla mercè dei soldati dello Shah, che riconquistarono Mahabad in pochi giorni, imprigionarono gli oppositori e uccisero i vertici dell’effimero stato curdo.

Con il fallimento di ben due progetti di stato alle spalle nel giro di mezzo secolo, i curdi imbracciarono la via delle armi: il Partyia Karkeren Kurdistan nasce nel 1978 ed è probabilmente la più famosa tra le formazioni guerrigliere che originano dal nazionalismo curdo. Ha sempre operato principalmente in Turchia, scegliendo come obiettivi degli attentati luoghi e simboli che ricordassero lo stato turco e la capacità di Ankara di applicare il monopolio della violenza. Il gruppo nasce con una concreta ispirazione marxista / leninista e riceve l’appoggio dell’Unione Sovietica, ma nel 1999 il leader Abdullah Ocalan decide di rimuovere la falce e il martello, cercando di ammorbidire le proprie posizioni nel tentativo di ingraziarsi le simpatie occidentali.

Abdullah Ocalan, per lungo tempo a capo del Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Kurdistan Project.

Il Kurdistan è rimasto in una sorta di stasi politica e ideologica per tutta la prima decade del nuovo millennio, per poi tornare al centro delle attenzioni internazionali con le primavere arabe, le modifiche istituzionali subite dalla Turchia negli ultimi tempi, la guerra civile in Siria e la proclamazione del califfato dello Stato Islamico. Le varie forze di difesa curde impegnate (l’YPG in Rojava dal lato siriano e le milizie legate al Partito Democratico del Kurdistan Iracheno in Iraq) si sono trovate al centro di una lotta non solo contro lo Stato Islamico, ma anche tra due blocchi (quello orientale capeggiato dai russi e quello occidentale capeggiato dagli statunitensi) per l’egemonia sul Medio Oriente, nella quale sono occupate anche le potenze regionali (Arabia Saudita, Iran e il maggior ostacolo all’indipendenza, ovvero la Turchia). Soprattutto, l’espansione dello Stato Islamico e le sue immediate conseguenze si sono presentate come un’occasione perfetta per ottenere l’indipendenza al posarsi della polvere.

Se dal lato siriano la lotta si è concentrata perlopiù contro lo Stato Islamico nel tentativo di conquistarsi l’indipendenza dimostrando una forza superiore a quella del governo siriano (celebre fu l’assedio di Kobane e fondamentale è stato l’apporto dell’YPG nella presa di Raqqa), dal lato iracheno i curdi sono stati messi più e più volte sulla difensiva e si sono concentrati di più sulla difesa delle proprie zone, prima di effettuare la convergenza su Mosul al momento della cacciata degli estremisti dalla città sul Tigri.

Al termine del conflitto con lo Stato Islamico, l’Iraq si trova in una situazione piuttosto complessa: una parte del paese è rimasta in mano agli estremisti per anni e va bonificata da eventuali trappole, mine o comunque ricostruita, dato che molti interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria non sono stati effettuati per diverso tempo, senza contare le distruzioni dovute alla perdita e alla riconquista della città. Un’altra parte della popolazione è di fede sciita, e l’Iran sta sfruttando la sua posizione di guida (non solo politica, ma anche spirituale) del mondo sciita per influenzare l’operato del vicino con un discreto successo. Da qui a classificare l’Iraq come un vero e proprio zonbi diretto da Teheran la strada è lunga, ma l’influenza iraniana sicuramente ha un peso rilevante all’interno del contesto iracheno.

Il Partito Democratico Curdo, guidato dal presidente della regione curda Masoud Barzani, si è fatto promotore di una consultazione popolare sull’indipendenza del Kurdistan tenutasi il 25 settembre. L’affluenza ha fatto registrare oltre il 72% dei votanti, il 92% dei quali ha votato a favore del sì. Successivamente il governo di Baghdad ha intimato al KRG (Kurdistan Regional Government) di lasciare le posizioni occupate dai peshmerga dal 2015 e che ricomprendevano (oltre ai campi petroliferi di Erbil e Kirkuk, che con una capacità di oltre mezzo milione di barili al giorno costituirebbero la colonna portante dell’economia di un ipotetico Kurdistan indipendente) anche determinate zone situate al di fuori dei confini regionali così come sono stati disegnati dalla costituzione del 2005.

Subito dopo la consultazione, le reazioni internazionali sono state di immediata chiusura: oltre a quella di Baghdad, anche Ankara, da sempre notevolmente ostile alla creazione di uno stato curdo, si è dimostrata contraria e pronta alla reazione militare. Washington ha criticato il referendum perché avrebbe portato a un’ulteriore frammentazione della regione. Mosca, dal canto proprio, si è unita alle critiche ma con toni più tiepidi, anche considerando i propri interessi nella regione del Kurdistan iracheno (con un accordo appena firmato sulla costruzione di un gasdotto che riguarda i campi petroliferi di Erbil).

Masoud Barzani, presidente della Regione Autonoma del Kurdistan. Associated Press.

Il giorno seguente al referendum, il premier iracheno Al-Abadi ha lanciato un ultimatum di 72 ore al KRG chiedendo il ritiro delle forze dagli aeroporti e dalle zone non appartenenti al Kurdistan. Tale richiesta è stata ignorata dal KRG, scatenando così la reazione militare degli ultimi giorni del governo iracheno. I peshmerga si sono ritirati da Kirkuk per attestarsi su posizioni più sicure, ma è probabile che il governo iracheno nei prossimi giorni prenda anche Erbil al fine di assicurare alla giustizia il presidente e il vicepresidente del governo regionale curdo.

L’indipendenza del Kurdistan sembra essere un obiettivo ancora molto lontano e difficile da raggiungere, specie considerando la mancanza di appoggio a livello internazionale (l’unico stato che appoggia un Kurdistan indipendente è Israele) e l’inconsistenza di un progetto comune, dati i contrasti tra le varie anime interne al Kurdistan inteso non solo come parte irachena, ma nella sua interezza: tra l’YPG e il KRG non corre buon sangue, e il PKK ha presentato elementi d’attrito con entrambi i suoi corrispondenti d’oltre confine. Più che una bomba pronta a scoppiare, la questione curda sembra una faccenda di lungo termine che nessuno si premura di risolvere in quanto troppo gravosa, e che coinvolge troppi paesi e troppi interessi, continuando a rinviare una soluzione concedendo di volta in volta minime misure di autonomia.

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Carlo Paganessi

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