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La (non) risposta europea all’11 settembre della Somalia: media e meccanismi del terrorismo

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Carlo Paganessi

Il 14 ottobre a Mogadiscio un camion bomba, dopo un primo tentativo di aprirsi un varco nel traffico speronando le auto che si trovavano su Jidka Afgooye, si è fermato prima di trovarsi incastrato da alcuni mezzi dell’esercito e si è fatto esplodere all’altezza dell’Hotel Safari, poco prima del Ministro degli Affari Esteri. Più avanti su quella strada si trovano l’Università della Somalia e un compound militare che ospita armamento leggero dell’esercito somalo, il quale era probabilmente il vero obiettivo dell’attacco. L’attentato ha lasciato sul terreno oltre 300 morti e 500 feriti, andando così a costituire il più grave atto di terrorismo nella storia dell’Africa e superando il doppio attentato del 1998 presso le ambasciate statunitensi di Dar es Salaam e Nairobi.

Dopo alcuni giorni, mentre doveva ancora esaurirsi il conteggio delle vittime, arriva anche la rivendicazione da parte di Al Shabaab (Gioventù), gruppo estremista che fa parte di ciò che rimane del network di Al Qaeda e che opera in Yemen e sul confine tra Somalia e Kenya. L’organizzazione ha diversi campi d’addestramento nella zona di Chisimaio e intrattiene rapporti molto stretti con i pirati somali, con i quali ha instaurato un rapporto di simbiosi nel quale Al Shabaab protegge i covi e le strutture portuali dei pirati in cambio di una quota del bottino. Le origini del movimento affondano in quelle Unioni delle Corti Islamiche, che si dimostrarono un avversario ostico per il governo federale di transizione il cui compito era portare la Somalia fuori dalla dittatura di Siad Barre e consegnarla ad un governo democratico.

Nel 2006, dopo la definitiva sconfitta delle Corti Islamiche da parte del TFG (Transitional Federal Government), dei componenti dell’AMISOM (la missione militare statunitense in Somalia) e dei suoi alleati etiopi , tale organizzazione esplose in mille pezzi e iniziarono ad emergere i contrasti interni che si presentavano sotto due forme: quello di conflitto di natura ideologica e quello del controllo territoriale. Nel primo caso Al Shabaab, forte delle proprie radici wahhabi (quindi legate all’islam ortodosso) si trovò in forte conflitto con le componenti sufi (mistiche, quindi considerate estremamente devianti) delle Corti Islamiche come Ahlu Sunna Waljama’a. Negli anni successivi, Al Shabaab si è ingrandito sempre di più fino a giungere, nel 2012, a controllare buona parte del meridione del paese. Ad oggi, dopo la reazione somala a cui si è sommata una generale regressione di tutto il network qaedista e l’apporto da altri paesi (come il Kenya), l’organizzazione ha lasciato tutte le principali città per trasferirsi nelle aree rurali, da dove continua a lanciare attacchi contro la popolazione e contro i simboli del governo somalo.

Nel dettaglio, l’attacco ha visto un camion caricato con oltre due tonnellate di esplosivo farsi detonare dopo un conflitto a fuoco con i soldati somali, i quali avevano intimato l’alt insospettiti dalla polvere presente sui teloni che coprivano il camion. Uno dei colpi esplosi dai militari ha bucato una gomma del camion che poi si è fermato di fronte all’Hotel Safari. L’entità dell’esplosione è stata notevolmente aumentata dalla presenza di un’autocisterna parcheggiata nelle immediate vicinanze del luogo dell’attentato: l’hotel è collassato su se stesso, mentre il Ministero degli Affari Esteri e l’ambasciata del Qatar sono stati danneggiati.

Luogo dell’attentato presso Mogadiscio. REUTERS.

In Africa questo attentato è stato vissuto come la più grave tragedia ad aver colpito il continente, con giorni di lutto fissati anche in altri paesi, grande spazio dato sui media continentali, cerimonie pubbliche e via dicendo. Dall’altro lato del Mediterraneo invece, l’opinione pubblica e i sistemi d’informazione hanno bellamente ignorato la cosa, prestando il fianco a tutta una serie di notevoli critiche riguardo la marginalizzazione del continente africano nel discorso politico internazionale.

I media, tuttavia, basano la propria attività su un discorso di ritorno economico: volgarmente, se non è in grado di pagare i redattori, i correttori di bozze e tutto l’apparato che sta dietro a un network informativo, questo chiude per ovvi motivi in poco tempo, quindi necessita di contenuti che aumentino i propri contatti sotto qualsiasi forma (siano essi clic, acquisti di giornale, visualizzazioni o dati più alti all’auditel) questi avvengano. Ecco che i contenuti dei media d’informazione diventano così lo specchio delle sensazioni degli acquirenti e vi si adattano selezionando le notizie di maggiore interesse.

In ultima analisi, pertanto, non sono i media a non considerare taluni eventi non notiziabili, ma la società stessa. Nonostante la globalizzazione e la sempre più stretta correlazione tra gli avvenimenti nel mondo, l’essere umano fatica a percepire come vicino un qualcosa di successo a così grande distanza non solo geografica, ma anche culturale. È una tendenza mutuata dai nostri antenati, marchiata a fuoco nel paleoencefalo: l’empatia verso una determinata situazione di disagio aumenta tanto di più secondo la vicinanza geografica e culturale, proprio come i primi homo sapiens avevano inviso chi abitava nella caverna vicina, ma molto meno rispetto al gruppo che abitava oltre il fiume e meno ancora rispetto alla tribù della vallata vicina.

L’empatia è un fattore chiave nell’intero discorso sul terrorismo, il quale è definibile come una tattica militare che contempla azioni singole le quali si pongono l’obiettivo di impressionare l’opinione pubblica instillandovi sentimenti quali paura e timore, minandone la capacità di discernimento della realtà e alterando quindi le scelte dei legislatori. Da tale punto di vista, pertanto, l’impatto di questo attentato a livello di opinione pubblica è stato molto più forte in Africa, originando sentimenti negativi nella popolazione.

Un gruppo di appartenenti ad Al Shabaab. Al Jazeera.

C’è anche da constatare, tuttavia, che in contesti di questo tipo un attacco del genere ha intenti anche più prettamente militari: non a caso l’obiettivo originario parrebbe essere stato un compound militare. Pertanto l’obiettivo dell’attacco non è solo l’opinione pubblica, ma è ragionevole aspettarsi che vi fosse anche l’intento di danneggiare la capacità di reazione dell’esercito somalo, già provato da anni di conflitto con Al Shabaab, le altre organizzazioni terroristiche e i pirati.

Quando si pensa all’integralismo islamico e al terrorismo in un contesto come quello somalo infatti, è buona norma tenere a mente il fatto che è un paese che cerca la pace praticamente dall’indipendenza, avvenuta nel 1960 quando le due amministrazioni fiduciarie della Somalia Italiana e delle Somalia Britannica si unirono in un unico paese a differenza della Somalia francese (Gibuti) che, a seguito di un referendum, decise di costituire uno stato a sé stante. Venne formato un governo da Abdullahi Issa e Muhammad Egal, i quali avviarono una fase costituente. La nuova costituzione venne redatta entro la fine dello stesso anno e nel 1961 venne sottoposta a referendum. Nelle prime elezioni libere Abdirashid Shermarke divenne presidente mentre Egal divenne primo ministro.

Nel 1969, durante una visita nella città del nord di Las Anod, Shermarke venne ucciso con un colpo d’arma da fuoco alla testa da una delle sue guardie del corpo. Il giorno successivo al funerale alcuni reparti del’esercito presero il potere in un colpo di stato praticamente senza opposizione e senza spargimento di sangue. Capo dei golpisti era il generale dell’esercito Siad Barre, il quale divenne presidente. Nel 1977 Barre attaccò l’Etiopia giocandosi la carta nazionalista: il casus belli fu la protezione delle genti di etnia somala in Ogaden, regione meridionale dell’Etiopia. L’inizio del conflitto arrise alla Somalia, con le forze di Mogadiscio che respinsero quelle di Addis Abeba fino a Sidamo.

Il dittatore somalo Siad Barre

Successivamente, l’intervento russo e cubano a sostegno del regime di Haile Mariam permise di sgominare parte dell’esercito somalo con una manovra a tenaglia attuata grazie alle forze paracadutate dagli aerei russi e cubani oltre le linee avversarie. L’ultima unità somala si ritirò dall’Etiopia a metà marzo 1978, ponendo così fine alla guerra. Gli avvenimenti immediatamente successivi al conflitto contribuirono allo schieramento della Somalia con il blocco statunitense: Mogadiscio tagliò i ponti con tutto il secondo mondo eccetto Cina e Romania. Il fallimento dell’invasione rappresentò un colpo tremendo per il regime di Barre, che da lì iniziò la propria decadenza. Il supporto statunitense consentì al governo di reggere ancora per diverso tempo fino al 1991, data in cui il Somaliland si rese de facto indipendente (senza essere riconosciuto da alcun governo). Da quel momento in poi la transizione verso la democrazia vide il regime di Barre spegnersi piano piano fino a far diventare la Somalia uno stato fallito, con la mancanza di un potere centrale e una serie di bande in lotta tra loro: oltre ai signori della guerra e ad una miriade di attori armati, l’Unione delle Corti Islamiche rappresentava le istanze della componente maggiormente radicale e tradizionalista della popolazione.

Il governo di transizione, istituito nel 2000 con l’appoggio dell’ONU, ha sempre faticato a estendere la propria sovranità sull’intero territorio nazionale. Il terrorismo in Somalia, sebbene sembri lontano mille anni luce da noi, rappresenta un’importantissimo nido di crescita per eventuali minacce verso il territorio europeo. Si rivela quindi necessario, data la struttura di rete che possiedono le organizzazioni terroristiche, porre l’attenzione a tutte le componenti di un network, al fine di vederne il crollo una volta per tutte. L’istruzione dell’opinione pubblica in merito va fatta con la stessa metodicità, specie considerando che l’obiettivo primario del terrorismo è proprio il pensiero della popolazione.

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