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Sangue e polvere: ciò che resta dello Yemen

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Carlo Paganessi

Lo scenario Yemenita è altamente snobbato da buona parte dei media europei per una serie di ragioni, tra le quali la prima e più importante è la vicinanza geografica: Siria ed Europa sono bagnate dal medesimo mare e questo dà luogo a un alto numero di profughi in cerca di protezione dagli orrori del proprio conflitto civile che percorrono le strade che portano dal Medio Oriente al Vecchio continente. Lo Yemen, al contrario, si affaccia sull’Oceano Indiano e molte delle persone in fuga da lì cercano di trovare rifugio in posti altrettanto lontani e (spesso) altrettanto tormentati come Somalia, Sudan e Kenya.

Altra circostanza che contribuisce a nascondere il conflitto Yemenita è la scarsa presenza di Foreign Fighters tra le file delle varie parti in gioco: i fuoriusciti dal conflitto rappresentano un pericolo piuttosto limitato per l’Europa, influenzando la notorità delle vicende intorno al conflitto yemenita, nonostante la sua vicinanza a rotte molto sensibili per il commercio marittimo tra Europa e Cina.

Il conflitto affonda le proprie radici nella battaglia per la presidenza tra il presidente Hadi e il suo predecessore Saleh, ma stabilirne una vera e propria data d’inizio è quantomai complesso: alcuni partecipanti, come gli Houthi, erano in lotta già da prima. Nel 2007 vi furono le prime avvisaglie di una scarsa stabilità all’interno del paese, con gli yemeniti del sud che iniziarono a rivendicare l’indipendenza dal resto del paese ripristinando quindi lo status pre-1990, quando lo Yemen era diviso in due stati, uno monarchico nel nord e uno di ispirazione comunista nel sud.

Ali Abd’Allah Saleh, ex presidente dello Yemen. AFP

Le rivendicazioni, in tal caso, non erano tanto di natura ideologica quanto di natura tribale, una caratteristica sociale che nemmeno 1400 anni di Islam (che la indica come uno degli elementi da estirpare per ottenere la società islamica ideale) sono riusciti a mitigare. D’altro canto, da quando si ha notizia scritta dello Yemen (ossia dal VI secolo d.C.) raramente il paese ha conosciuto periodi di pace più lunghi di trent’anni. Il tribalismo è anche favorito dalla natura del territorio, diviso in valli da numerose catene montuose.

Tra le molte tribù del paese gli Houthi sono una delle più influenti, ma anche una delle più predisposte al conflitto considerando le numerose differenze che la distinguono dal resto del paese. La prima e più importante è quella religiosa: mentre la maggior parte delle tribù è sunnita, gli Houthi sono praticamente gli unici sciiti (precisamente di fede zaidita). Sono in uno stato semipermanente di lotta dal 2004 con le tribù vicine, ma con l’andare del tempo il continuo fallimento dei tentativi di repressione nei loro confronti provocò la progressiva espansione territoriale delle loro incursioni: nel 2011, sull’onda della primavera yemenita, gli Houthi assediarono il villaggio di Dammaj (a maggioranza sunnita) segnando un’escalation nelle loro rivendicazioni.

Nel 2012, il ventennale presidente Saleh, contro cui si erano scatenate le proteste, decise di lasciare il seggio presidenziale a favore di un governo di transizione con a capo uno dei suoi luogotenenti, Abd Rabbuh Mansur Al Hadi. L’accordo con i capi della rivolta prevedeva un biennio al termine del quale Hadi avrebbe dovuto organizzare delle elezioni. Trascorso il termine, il lavoro di Hadi era ancora in alto mare: quando chiese al parlamento la possibilità di allungare di un anno il suo mandato, Saleh prese la palla al balzo per togliergli il proprio appoggio.

L’esercito yemenita a quel punto si spaccò in due: una parte con Hadi (che aveva anche l’appoggio di gran parte della comunità internazionale), l’altra con Saleh. La parte fedele all’ex presidente si alleò, abbastanza a sorpresa, proprio con gli Houthi e ne favorì l’uscita dalla propria regione: fallita la mediazione con il governo di Hadi, che propose la trasformazione dello Yemen in uno stato federale, gli Houthi si mossero su Sana’a, che conquistarono prendendo anche il complesso presidenziale dove viveva il presidente, il quale riuscì a fuggire da casa sua il 21 febbraio 2015, un mese dopo l’inizio della prigionia.

Abd Rabbih Mansur Hadi, attuale presidente dello Yemen. Al Jazeera

Hadi riparò presso Aden, principale porto del paese. In seguito la città divenne la nuova capitale dello Yemen e da lì il presidente iniziò a condurre le operazioni. Da quel momento in poi le influenze esterne iniziarono a pesare davvero sul contesto yemenita: tali ingerenze provennero sia da attori statali che da gruppi islamisti. Nel primo caso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, questi ultimi considerati la Sparta della penisola araba, intervenirono al fianco del governo di Hadi, mentre in appoggio a Saleh e agli Houthi si manifestarono gli iraniani.

Prevedibilmente, come in ogni area di instabilità si venga a creare nel Medio Oriente, ecco che Al Qaeda e lo Stato Islamico colsero colto l’opportunità per aumentare il proprio peso specifico nell’area: mentre la prima era già presente, Daesh arrivò solo in un secondo momento sfruttando come appoggio le madrase presenti in loco ed estendendo un network che minò la presenza degli attori, per poi prendere il controllo del territorio e allargarlo progressivamente.

Gruppo di ribelli Houthi, etnia in stato di conflitto semipermanente dal 2004. Al Jazeera.

Dopo alcune fasi di stallo, all’inizio del 2016 gli Houthi subirono alcune sconfitte che li ridimensionarono lievemente: i ribelli iniziarono a sentire la pressione del doppio impegno a nord contro i bombardamenti dell’Arabia Saudita e della coalizione, mentre a sud l’offensiva del governo stringeva gli Houthi tra l’incudine e il martello. Tale azione non fu, tuttavia, risolutiva: se da un lato le truppe governative erano limitate nel raggio d’azione delle proprie incursioni dalle barriere naturali delle catene montuose a nord di Aden, dall’altro le caratteristiche del territorio non consentivano di vincere la guerra con semplici bombardamenti aerei o d’artiglieria (come dimostrato dall’esperienza americana in Afghanistan) anche se ormai la coalizione araba aveva ormai l’assoluto dominio dei cieli.

A questo si aggiunse l’apporto iraniano che, grazie al tramite del regime eritreo, riuscì a far avere agli Houthi grandi quantità di armamenti anche di notevole complessità d’uso (missili di teatro SCUD, pezzi antiaereo da montare sui technical e carri leggeri) oltre che consiglieri, addestratori ed expertise militare. Le motivazioni di tale azione da parte iraniana sono sempre le solite note: Iran e Arabia Saudita, con la Turchia come spettatore interessato, sono in lotta da almeno un lustro per l’egemonia sul Medio Oriente. Questa lotta avviene sul piano della politica estera con i due paesi e le relative coalizioni che li appoggiano impegnati in Siria, nella questione del Qatar, nella crisi istituzionale in Libano e via dicendo.

Parte del conflitto si svolge anche all’interno dei due paesi: l’Arabia ha cambiato erede al trono durante una nottata istituzionalmente molto sofferta, passando dal conservatore Mohammed bin Nayef al più progressista Mohammed bin Salman, il quale sta già disponendo del suo futuro potere attraverso una massiccia campagna anticorruzione che, come spesso accade nei regimi non esattamente liberali, è un pretesto per eliminare gli avversari politici e gli ostacoli al rinnovamento del paese. In Iran, per contro, i maggior grattacapi provengono dai separatisti del Khuzestan (si registra l’omicidio del loro leader in esilio ad Amsterdam agli inizi di novembre) e dai numerosi dossier scottanti, tra i quali spicca quello sull’economia, che ora sembra alleggerirsi grazie al risollevamento del prezzo del petrolio.

La condizione della popolazione Yemenita, gravata da un conflitto che va avanti da sei anni preceduto da una dittatura che prosegue da venti, è tra le peggiori sul pianeta. Oltre che con la guerra, gli yemeniti sono costretti a fare i conti anche con un’epidemia di colera senza precedenti nei tempi recenti. Nelle statistiche elaborate al termine di settembre dal Comitato Internazionale della Croce Rossa, il totale dei contagiati è di 750.000 persone con oltre 2.000 morti. Diverse Organizzazioni Non Governative sono presenti in loco, tra cui Medici Senza Frontiere ed Emergency, che stanno curando i contagiati. Sebbene l’epidemia non sia finita, il numero dei nuovi contagiati è in diminuzione.

Lo Yemen è il tassello dimenticato delle primavere arabe, ma lo è a forte torto dell’opinione pubblica: dalle acque prospicienti, lo Yemen passa buona parte delle merci mondiali dirette verso Europa, Cina e Africa. Al contrario del conflitto siriano, del conflitto yemenita non si vede la fine: gli attori principali sono in stallo e il tasso di violenza è tale che difficilmente le due potenze accompagneranno i contendenti al tavolo delle trattative. Il paese, inoltre, rischia di diventare la seconda edizione dello Stato Islamico, specie considerando la prossima fine del califfato in Siria. Il rischio che questo venga proclamato nuovamente nella parte orientale dello Yemen, infatti, è davvero molto alto.

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Carlo Paganessi

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