Ai commentatori internazionali che si occupano del complesso campo delle relazioni internazionali spesso manca la sfera di cristallo: determinati avvenimenti e la radice degli stessi vengono celati dai vari paesi coinvolti, tanto più agilmente se questi presentano metodi di gestione della cosa pubblica non esattamente trasparenti. D’altro canto, ciò che accade in determinate situazioni è opportunamente coperto da un segreto di stato volto a proteggere gli interessi di una nazione e per tale motivo non presentabile all’opinione pubblica mondiale. È il caso della crisi di inizio novembre tra Libano ed Arabia Saudita, esplosa nel momento in cui il premier libanese Saad Hariri, figlio di Rafiq, ha rassegnato le dimissioni cogliendo di sorpresa l’intera comunità internazionale. Correva il giorno 3 Novembre.
Al momento delle dimissioni, effettuate tramite un discorso alla nazione, Haariri ha citato le preoccupazioni per la sua sicurezza, che egli stesso ha detto essere in pericolo a causa dell’azione di Hezbollah, partito di ispirazione religiosa sciita legato a doppio filo all’Iran e la cui ala militare è al momento impegnata nel conflitto siriano a fianco del regime di Damasco e nel conflitto yemenita al fianco dei ribelli Houthi, anch’essi di fede sciita. Dopo aver rassegnato le dimissioni, il premier libanese è salito su un aereo che ha fatto rotta per l’Arabia Saudita.
Nel contesto del discorso delle dimissioni, Hariri non ha mancato di sottolineare come l’Iran stia cercando di destabilizzare il Libano. Il presidente libanese Michel Aoun (cristiano maronita) ha respinto le dimissioni e ha fin da subito ipotizzato un possibile coinvolgimento di Riyad nella questione. La stessa ipotesi è stata avanzata nei giorni seguenti da Alexanderstrasse con l’aggiunta della circostanza del rapimento e, per tutta risposta, l’Arabia Saudita ha ritirato i propri rappresentanti da Berlino.
Guardando con un occhio esterno, tale crisi libanese altro non è che uno dei numerosi tasselli di cui si compone quel mosaico che è il conflitto sotterraneo ultradecennale tra Arabia Saudita e Libano, con la Turchia come terzo incomodo a fare da spettatore molto interessato. I timori in merito alla crisi riguardavano la possibilità che Riyad avesse imposto le dimissioni ad Hariri in modo da far spostare l’attenzione sul comportamento tenuto da Hezbollah e la sua attività di destabilizzazione del paese. Le indiscrezioni dicevano che alla sua discesa dall’aereo che lo portava in Arabia Saudita il premier libanese non avesse trovato il consueto corteo diplomatico ad accoglierlo, ma la polizia.
L’Arabia Saudita, dal canto proprio sta attraversando un periodo turbolento a livello di élite: mentre molti altri paesi hanno avuto un forte shock a livello di rivolte popolari, con interi assetti istituzionali rovesciati dal basso fino a giungere a vere e proprie guerre civili (come quella in Siria) che hanno prodotto migliaia di morti, altri si sono “salvati” dal terremoto delle primavere arabe grazie al proprio assetto istituzionale abbastanza solido e delle risorse tali da distribuire in modo adeguato la ricchezza (sovente prodotta dal petrolio): l’identikit si sovrappone perfettamente alle monarchie del golfo, che hanno saputo giostrare abilmente tra gli interessi politici-tribali e quelli economici.
In Arabia, al contrario, la rivoluzione è partita dalle élite: l’avvicendamento tra Mohammed bin Nayyef e Mohammed bin Salman avvenuto a giugno all’ufficio di principe ereditario della corona saudita è stato solo l’inizio del capovolgimento. Nel giro di un’estate e metà autunno il nuovo principe ha coordinato una nuova politica di alleanza verso gli Emirati Arabi, riparando i danni provocati dal suo predecessore, e iniziato una politica anticorruzione che in contesti di un certo tipo è da leggersi come epurazione degli avversari politici (con i dovuti distinguo, è opportuno guardare a quanto accade in Cina). Durante questa operazione di pulizia sono finiti in prigione oltre 200 “alti gradi” del governo arabo.
Questa rivoluzione è destinata a portare l’Arabia Saudita nel terzo millennio con il programma Vision 2030, varando un ampio novero di riforme. Un tassello importante (spesso opportunamente celato) di tale programma è il dominio sulla scena mediorientale e la guida del mondo islamico come potenza sunnita. Questo naturalmente a scapito dell’Iran sciita. Il conflitto prosegue da diverso tempo e vede coinvolti diversi teatri (Yemen, Iraq, Siria e ora Libano). A fare da “padrini” in questo duello ci sono Russia e Stati Uniti, entrambi ufficialmente in disimpegno dal Medio Oriente, ma in realtà più invischiati ora in quello scenario rispetto a vent’anni fa.
Il Libano è uno scenario altamente composito di etnie e religioni diverse: le quattro componenti principali sono i sunniti, gli sciiti, i drusi e i cristiani maroniti. Ognuno ha i propri campioni politici e, come spesso accade in teatri di questo tipo, tali esponenti vengono sfruttati da altre potenze per espandere la propria influenza. In Libano l’Arabia Saudita sponsorizza il Future Movement di Haariri, mentre Hezbollah, come detto in precedenza, è manovrato dall’Iran. Quest’ultimo partito è una formazione politica con una certa tradizione (è stato fondato nel 1982) la cui traduzione del nome è “partito di Dio”. È articolata in tre parti: una politica, una militare (il Consiglio della Jihad) e una assistenzialista. Nacque nel momento in cui Israele occupò la parte meridionale del Libano e la parte militare venne addestrata da un contingente di 1500 pasdaran giunti dall’Iran con il consenso di Damasco, che ai tempi occupava la terra dei cedri.
Il Future Movement è un partito ufficialmente secolare, ma finanziato per la maggior parte dalle fondazioni sunnite in Libano, legate a doppio filo a Riyad. Il partito è un membro a pieni diritti dell’internazionale liberale. Saad Haariri, che ha contribuito alla sua fondazione, gode di un alto tasso di gradimento nel paese, ma rimane nell’ombra del padre Rafiq, considerato da una certa parte della popolazione un martire politico, data la sua morte violenta avvenuta durante un attentato organizzato da alcuni membri di Hezbollah nel 2005. A seguito della fuga del presidente, questi ha ricevuto diverse manifestazioni di sostegno a suo favore che gli chiedono di tornare, mentre il presidente Aoun ha già detto che è disposto a riaccettarlo come premier, a patto che torni in Libano a prendersi il sostegno del parlamento. L’attuale assetto governativo uscito dalle elezioni del’anno scorso vede Aoun (appartenente al Movimento Patriottico Libero alleato di Hezbollah) come presidente, Haariri primo ministro che governa con l’ausilio di Hezbollah, che esprime alcuni ministri dell’attuale governo.
La famiglia Haariri detiene inoltre forti legami con l’Arabia Saudita: Saad ha la cittadinanza saudita e la fortuna della famiglia è stata costruita grazie ad un’azienda edile con sede a Riyad. Per rispondere alle preoccupazioni, Haariri ha rassicurato tutti in merito al fatto che l’Arabia Saudita non lo stava detenendo contro la sua volontà e alcuni giorni dopo, con un tweet, ha annunciato di essere in viaggio verso la Francia. Nel frattempo, anche il ministro degli esteri Gebran Bassil (genero del presidente Aoun e appartenente allo stesso partito ) ha avuto l’opportunità di esprimersi nel merito mentre si trovava in visita di stato in Italia: ha riaffermato le buone relazioni che Beirut intrattiene con Riyad, ma ha anche detto che se vi sono dei problemi tra Iran ed Arabia Saudita questi dovrebbero essere risolti senza coinvolgere il Libano. Dopo il viaggio in Francia dove Haariri ha incontrato Macron, nei giorni scorsi il premier libanese è tornato in patria dove ha spiegato le ragioni della propria assenza al presidente.
Nella vicenda si è inserita con una certa prepotenza e opportunismo la Francia, che oltre a detenere stretti rapporti storici con il Libano in quanto ex madrepatria coloniale, con l’amministrazione Macron sta cercando di svolgere un ruolo di mediazione in tutta l’area del Nord Africa e del Vicino Oriente. Un’azione simile era stata effettuata nei giorni più caldi della crisi tra Arabia Saudita e Qatar, che aveva trascinato il Golfo Persico sull’orlo di un conflitto dalle conseguenze potenzialmente dirompenti, poiché avrebbe trasformato l’attuale guerra per procura tra Ryadh e Teheran in una guerra calda su vasta scala, con mobilitazioni di eserciti regolari e quanto ne consegue. L’intervento francese non ha scongiurato la crisi, ma ha favorito un dialogo con Doha che ha allungato i tempi a sufficienza affinché si stemperassero i toni.
La ratio dell’azione saudita sul Libano operata attraverso Haariri è quella di esporre alla comunità internazionale ciò che Hezbollah sta facendo in Libano, forte dell’appoggio iraniano e del ruolo che sta giocando nella guerra civile siriana. Per fare questo, oltre ad aver creato una quantomai impronosticabile alleanza con Israele, sta cercando di far saltare la coalizione di governo, al momento senza eccessiva fortuna: Haariri sembra al momento orientato al ritorno in Libano per riprendersi la fiducia del parlamento e spiegare la situazione di fronte al presidente e al proprio paese. Ma la vicenda presenta ancora davvero tante zone buie e quesiti non chiariti di cui si verrà probabilmente a sapere di più nei prossimi mesi, dato che la fuga di un capo dell’esecutivo è un avvenimento davvero troppo importante per passare inosservato, sebbene offuscato dal resto del conflitto sotterraneo tra Iran e Arabia Saudita.
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