«Rose rosse per te ho comprato stasera e il tuo cuore lo sa cosa voglio da te» cantava Massimo Ranieri, forse senza pensare troppo che questo simbolo d’amore per eccellenza, venduto a milioni di quantità ogni anno, sia divenuto per alcune popolazioni africane sinonimo di sofferenza. Infatti, gran parte delle rose commerciate in Europa sono coltivate in Etiopia e in Kenya, a discapito della popolazione. Tra le più grandi industrie di rose troviamo la Afriflora Sher, compagnia olandese con una sede in Etiopia, che vende 1,2 miliardi di rose l’anno, circa 3,5 milioni di rose al giorno, tutte certificate dal marchio di Fairtrade, che garantisce equi salari ai migliaia di operai che vi lavorano, e il rispetto degli standard ecologici. Eppure, in Etiopia la siccità sta mettendo in ginocchio la popolazione, milioni di persone vivono grazie agli aiuti umanitari e i livelli di malnutrizione, soprattutto infantile, sono altissimi. Come si spiega tutto questo?
L’Etiopia è un paese situato nel Corno d’Africa, ventisette volte più grande dell’Olanda, ma uno dei Paesi più poveri al mondo, con circa cento milioni di abitanti che vivono sotto un governo instabile. I proprietari della Afriflora Sher, i Barnhoorn, olandesi, hanno deciso di aprire una sede in Etiopia nel 2004, dopo aver venduto la loro azienda in Kenya instaurata nel 1997, per un valore di cinquanta milioni di euro. La zona principale dove si sono stabiliti è vicino al lago Ziway, a circa tre ore di auto dalla capitale Addis Abeba, e anche in altre due località, a Koka, distante un’ora da Ziway, e nel villaggio di Adami Tuli, che è invece vicino al lago. La superficie totale delle serre possedute è di circa 650 ettari, che equivalgono a 1300 campi da calcio. I tipi di rosa coltivati sono circa sessantacinque, di dimensioni e colori diversi. L’attività di produzione delle rose, dal momento in cui vengono piantate sino al trasporto verso i mercati europei, è interamente gestita dagli impiegati locali, i quali hanno il compito di ispezionare i fiori nei minimi particolari: l’eventuale diffusione di malattie o di parassiti manderebbe in fumo decine di migliaia di euro. Dopo essere state raccolte, le rose vengono trasferite in celle frigorifere per poi essere imbarcate su appositi camion diretti all’aeroporto. Durante il viaggio non lasciano mai la cosiddetta “catena del freddo”, un sistema che permette la conservazione di fiori in un ambiente controllato con una temperatura di pochi gradi. In meno di venti ore dalla raccolta giungono sul suolo olandese, dove vengono riacquistate poi dai grandi distributori per essere riesportate nel resto del mondo, da New York a Mosca. Il lungo viaggio incrementa il valore dei fiori africani e ad Amsterdam si trovano le più grandi aste dell’industria florovivaistica, dalle quali dipende poi il prezzo, che cambia ogni giorno e aumenta durante le festività.
La Sher ha dato un impiego a quasi diecimila persone in Etiopia, che sin dalle prime luci dell’alba si recano a lavoro, attraverso il cosiddetto “viale dei fiori”, lo stradone di terra battuta che costeggia per oltre un chilometro la piantagione di rose. Alcuni lo percorrono a piedi, altri in bicicletta, altri siedono appiccicati l’uno accanto all’altro su carretti trainati da muli. Una volta arrivati, entrano veloci in un portone presidiato da guardiani coi fucili a tracolla, incaricati di controllare i documenti e perquisire ogni persona vi entri. Sono solamente in pochi ad avere il tesserino di riconoscimento ufficiale della Sher per poter entrare direttamente. Numerose sono anche le persone che restano fuori: centinaia di giovani senza lavoro arrivano la mattina in cerca di un impiego e di un salario sicuro, e finiscono poi ad aspettare davanti all’entrata per giorni, nella speranza di poter essere anche loro fra quelli al di là del cancello. Ci sono poi anche i cosiddetti “braccianti a giornata”, che cercano di arrotondare il loro salario dato dai campi che coltivano in campagna. Nella maggior parte dei casi la garanzia di un salario fisso fa sopportare l’idea di essere rinchiusi nelle serre dalla mattina alla sera. Infatti, i lavoratori passano almeno sette ore della loro giornata all’interno di quello che da fuori sembra un mondo ordinato, dinamico ed efficiente, ma si rivela essere un inferno con una temperatura di almeno trentacinque gradi. Il salario mensile non supera i trenta euro e l’uso di sostanze chimiche per la coltivazione di fiori mette fortemente a rischio la salute dei lavoratori, soprattutto se si considera che le protezioni loro fornite non sono adeguate. Infatti, dovrebbero portare scarpe chiuse, tute integrali e maschere, ma solitamente le temperature sono troppo elevate per costringere i lavoratori a indossare indumenti fatti di plastica e di cotone. Di conseguenza, le uniche protezioni indossate sono dei guanti che arrivano fino ai gomiti e le maschere, a causa del troppo caldo, sono spesso abbassate per consentire la respirazione. Inoltre, le sostanze usate come pesticidi sono un mix di veleno e acqua, che può bruciare la pelle se vi entra in contatto. Dopo due mesi dentro la serra, molti sono coloro che riscontrano delle infezioni, eruzioni cutanee o irritazioni. Se malati, i lavoratori vengono mandati nell’ospedale dell’azienda, dove al massimo ricevono cure per due o tre giorni, prima di essere costretti a tornare di nuovo a lavorare.
I danni ambientali causati dalle piantagioni sono evidenti: il lago Ziway, dal quale l’acqua viene prelevata dalla Sher gratuitamente, si sta prosciugando, soprattutto dal momento che l’Etiopia è una delle regioni più aride, con lunghi periodi di siccità, e per coltivare un solo stelo di rosa servono dai cinque ai sette litri d’acqua. Il prosciugamento del lago ha un impatto negativo anche sulla pesca e sul bestiame che non ha acqua da bere. Anche il fiume vicino la piantagione si sta prosciugando e le cose andranno peggiorando con la costruzione di una stazione di pompaggio e di pozzi per raccogliere l’acqua nel sottosuolo, sotto l’indifferenza delle autorità governative. Inoltre, i prodotti chimici usati per le rose, oltre a danneggiare la salute dei lavoratori, intossicano i pesci del lago che muoiono o che, una volta pescati e mangiati, contribuiscono ad aumentare la quantità di sostanze tossiche presenti nel corpo umano. Queste sostanze vanno ad alterare i livelli ormonali e possono limitare la capacità produttiva e compromettere future gravidanze. Il tutto è aggravato dalla sopracitata siccità che ha un impatto su circa diciottomila persone. Ci sono organizzazioni internazionali che cercano di distribuire acqua alle famiglie, circa venti miseri litri ogni quattro giorni: una quantità minima insufficiente per far crescere i bambini in modo sano, con la conseguenza che milioni sono quelli malnutriti che rischiano di avere uno sviluppo bloccato non solo del corpo ma anche della mente.
La popolazione non protesta perché ha paura di eventuali ritorsioni da parte del governo, dal momento che la stretta relazione tra il governo e la Sher è evidente: livello di tasse agevolate, terreni affittati a costi molto bassi, il tutto giustificato dalla scusa di creare nuovi posti di lavoro. In aggiunta, il governo chiude più facilmente un occhio dal momento che la Sher ha costruito una scuola dove i suoi lavoratori possono decidere di mandare i figli e un ospedale con duecentoquaranta posti letto, quindici dottori e trenta infermieri, una stazione di polizia e un tribunale. Edifici che dovrebbero essere finanziati dal governo tramite un normale sistema di tassazione, ma le istituzioni sono troppo deboli e corrotte e quindi è più facile concedere investimenti economici più agevolati a imprese straniere in cambio poi di questi servizi.
La compagnia si vanta si possedere il certificato di Fairtrade, il marchio internazionale di certificazione etica più riconosciuto al mondo, che ha l’obiettivo principale di supportare i produttori dei Paesi in via di sviluppo, rendendoli capaci di entrare nel sistema commerciale in condizioni di trasparenza e correttezza, soprattutto in termini di minimi salariali e sostenibilità ambientali. Come mostra l’inchiesta portata avanti dal programma olandese Zembla, Dutch roses from Ethiopia, ottenere una certificazione per la sostenibilità salariale è facile se si pensa che in Etiopia non esiste una legge che riconosca un minimo salariale, quindi, in poche parole, qualsiasi salario è riconosciuto come accettabile. Inoltre, per quanto riguarda la sostenibilità ambientale, questo certificato è rilasciato sulla base esclusivamente di informazioni confidenziali, accessibili solo previo consenso della compagnia interessata, dal momento che i dati forniti potrebbero essere usati da altri produttori per essere poi più competitivi. Con questa giustificazione, i risultati nel dettaglio dei test condotti dalla Fairtrade possono essere resi noti solo col consenso della Sher, che non sembra intenzionata a concederlo, rendendo il principio di trasparenza alquanto discutibile. I dubbi sull’effettivo rispetto di questi valori sono ulteriormente rafforzati anche dal fatto che la Sher, su un profitto di cinquanta milioni in cinque anni, abbia pagato solo quattrocento mila euro di tasse, grazie a delle strategie di elusione fiscale, che permettono di denunciare profitti minori senza violare il quadro giuridico. Infine, nel 2015 gli impiegati in Olanda erano quarantadue, in Etiopia 9664. I primi hanno ricevuto un compenso totale di 3,3 milioni di euro, i secondi 2,5.
Una disparità evidente sulla produzione di un fiore che può arrivare a costare anche sette dollari, quindi un quarto del salario di un lavoratore etiope, e cessare di essere così un simbolo di amore, ma rappresentare solo tanta amara, triste e ingiusta sofferenza.
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