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Trump alla guida degli Stati Uniti: un bilancio dei primi 11 mesi

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Carlo Paganessi

Sono passati quasi 11 mesi dall’insediamento di Donald Trump come 45° presidente degli Stati Uniti d’America. Senza dubbio la sua elezione è stata tra le più controverse della storia del paese: accuse di scarsa trasparenza sono piovute da una parte e dall’altra, con un ruolo senza precedenti del settore dell’informazione sia nella tipologia di contenuti correlati proposti, che nell’impatto che questi hanno avuto sull’elettorato. I politologi e gli esperti di comunicazione politica hanno applicato a queste elezioni il concetto di post-verità, attribuendole un ruolo chiave nella determinazione del risultato finale: la cultura politica non si basa più sui fatti oggettivi e sull’interpretazione dei dati, ma sugli appelli alle emozioni e alle credenze personali. L’emotivizzazione del discorso politico relega in secondo piano la verità, generando quindi una campagna basata solo ed esclusivamente sul dato emozionale.

Per vincere Trump ha interpretato meglio della controparte democratica il cambiamento sociale che ha finito per far dominare questo scenario di post-verità, e ha scelto di proporre soluzioni semplici a problemi complessi, applicando inoltre una retorica non di uomo forte (come fu per Reagan, Bush, Eisenhower e via dicendo) o di comandante in capo, ma, paradossalmente, di uomo simile a John Doe (la versione Statunitense del nostrano Mario Rossi), mosso dalle stesse pulsioni e che comunica allo stesso modo.

Lo scontro tra Hillary Clinton e Donald Trump è stato piuttosto aspro, con accuse di connivenza da entrambe le parti. AFP

Lo stile comunicativo è stato uno dei perni della strategia elettorale che ha consentito all’imprenditore di origini tedesche di acquisire non solo i c.d. swing states come l’Ohio o la Carolina nel Nord (tradizionalmente repubblicana, ma data come in bilico alla vigilia del voto), ma anche la fascia della rust belt (Pennsylvania, West Virginia, Ohio, Indiana e Illinois dove la contrazione del settore industriale ha lasciato panorami socioeconomici desolanti come quello di Detroit), il vero colpo di mano che ha consentito a Trump di accedere alla Casa Bianca. La controparte, peraltro, non è esente da colpe: Hillary Clinton si è presentata all’elettorato senza riuscire a scrollarsi di dosso la fama di protettrice dei grandi poteri finanziari e preoccupata solo di questioni considerate non rilevanti. La sinistra liberale ha inoltre commesso un errore madornale nel momento in cui ha iniziato ad apporre una serie di etichette a una quota della popolazione degli Stati Uniti (razzismo, omofobia e simili). Insulti che, nel giro di poco tempo, hanno contribuito a spaccare letteralmente a metà il paese, sommando i propri effetti a quanto già fatto dalla campagna di Trump.

Il 20 Gennaio 2017 l’immobiliarista si è trovato in mano una nazione divisa con la maggioranza della popolazione contro di lui. I primi 100 giorni della sua presidenza sono segnati dalla marcatura a uomo dei media che si aspettano il rispetto del “contratto” sottoscritto durante la campagna elettorale e che avrebbe dovuto rappresentare una sorta di piano d’azione del presidente per il primo trimestre. Il primo punto della lista presentata ad ottobre (il taglio epocale delle tasse) è stato portato in parlamento solo al 97° giorno di presidenza, mentre gli altri punti rimangono a tutt’oggi lettera morta in parte anche per l’opposizione del congresso alle misure proposte: un esempio su tutti è il tentativo di smantellamento di Obamacare, fallito per l’opposizione del suo stesso partito e ora in fase di revisione.

Alla fine di maggio le polemiche maggiori si sono avute per la proposta di bilancio federale uscita dallo studio ovale: taglio ai sussidi per l’istruzione a partire dai fondi per garantire il college ai meno abbienti, oltre ai fondi per la ricerca e per la cura delle dipendenze da sostanze stupefacenti. La sola tra le promesse mantenute entro i primi 100 giorni è stato il ritiro degli Stati Uniti dal trattato commerciale di libero scambio con i paesi dell’Oceano Pacifico, che Trump ha indicato come uno dei motivi per la contrazione del settore dell’industria pesante statunitense.

Tra le organizzazioni a cui Trump ha tagliato i fondi con la sua proposta di bilancio vi erano anche le ONG che si occupano di aborti e informazione consapevole a riguardo, marcando così un’altra promessa fatta a quella frangia del suo elettorato maggiormente attaccata all’elemento religioso e pertanto contraria alle interruzioni di gravidanza. Tra i contributi colpiti vi è anche quello all’ONU, che è stato quasi dimezzato. Oltre alle contribuzioni Trump ha cercato di danneggiare determinati dipartimenti ponendo a capo di questi personaggi che intendevano chiuderli: è il caso dell’agenzia per l’istruzione, di quella per le politiche abitative, dell’energia e delle politiche ambientali. Queste ultime due nomine sono funzionali ad una rivoluzione nel modo di intendere l’energia da parte dell’amministrazione statunitense: una circostanza che si ricollega in modo diretto alla costruzione dell’oleodotto che parte dai campi petroliferi di Bakken in North Dakota e prosegue fino all’Illinois, volta a sostenere lo sforzo di ricostruzione industriale della Rust belt. La costruzione di questo oleodotto ha provocato grandi proteste specie tra le popolazioni native americane che vedono in Standing Rock (uno dei territori attraversati da questa infrastruttura) uno dei propri terreni sacri oltre che una via per arrivare all’acqua del fiume Missouri.

Marcia contro le operazioni di costruzione dell’oleodotto presso Standing Rock. Getty Images

Un settore in cui Trump è intervenuto in maniera abbastanza pesante rispetto all’amministrazione precedente è quello dell’immigrazione: in quest’ambito Trump ha calcato davvero molto la mano in fase di campagna elettorale e in questa materia si sono svolte alcune delle sue azioni più importanti da presidente. Oltre al celeberrimo muro di confine con il Messico “pagato dai messicani” che ha guastato i rapporti con il presidente Pena Nieto, Trump si è distinto per aver cercato di imporre una limitazione alle migrazioni all’interno del suo paese con un ordine esecutivo (il numero 13769) che ha sospeso l’entrata nel paese per 90 giorni a persone che detenessero la cittadinanza irachena, iraniana, libica, somala, sudanese, siriana e yemenita. Tale blocco è stato giustificato con la protezione del suolo americano dal terrorismo, ma come già analizzato in altra sede un provvedimento di questo tipo non è efficace per la riduzione di tali minacce: buona parte dei lupi solitari che svolgono gli attacchi in quest’ultimo periodo proviene dal novero degli immigrati di seconda generazione. L’unico effetto tangibile di questo provvedimento (peraltro respinto in un primo momento dalla corte federale e parzialmente riammesso solo a giugno dopo alcune modifiche) è stato quello di aver guastato le relazioni tra gli Stati Uniti e gran parte del Medio Oriente, Iran in primis. Tale rottura ha poi notevolmente complicato i negoziati sul nucleare, ad oggi portati avanti solo dall’Unione Europea.

In politica estera Trump si è dimostrato spesso incoerente sia con quanto espresso in campagna elettorale che nelle decisioni prese nel periodo della sua amministrazione: mentre prima parlava dell’America First come dottrina isolazionista e che implicava la rinuncia degli Stati Uniti alla NATO e all’intervento in Medio Oriente nonché il disimpegno sul lato Pacifico che aveva contraddistinto buona parte della presidenza Obama, una volta trovatosi nello studio ovale Trump ha fatto l’opposto di quanto si era prefissato. Tra le azioni maggiormente eclatanti l’amministrazione statunitense ha espanso la presenza statunitense in Siria arrivando a bombardare una base aerea appartenente al regime dopo gli attacchi col gas Sarin effettuati da Damasco.

Proteste contro il Travel Ban, promosso dall’amministrazione Trump per limitare gli atti di terrorismo sul suolo statunitense. AFP

La crisi più importante nella quale si è trovata invischiata l’amministrazione Trump è quella nordcoreana: nel corso dell’ultimo anno, infatti, i progressi sia in ambito missilistico che nucleare a scopo bellico hanno subito un’escalation senza precedenti, portando Pyongyang a essere de facto una potenza nucleare. Tutta la vicenda dell’ultimo anno è stata accompagnata da proclami da una parte e dall’altra, con minacce d’intervento da parte di Washington e sfide poste da Pyongyang, che non hanno comunque impedito al regime asiatico di ottenere l’arma nucleare e un vettore atto a trasportarla. All’inizio di novembre il presidente Trump è partito per un viaggio in rappresentanza degli Stati Uniti in Estremo Oriente, per fare il punto sulla situazione nordcoreana da lato commerciale e militare. Inoltre, le forze navali statunitensi sono state a più riprese impegnate in esercitazioni con le forze sudcoreane, attività volta a mandare un messaggio a Pyongyang.

Il bilancio della presidenza Trump dopo quasi un anno è certamente negativo per lui, meno per gli Stati Uniti come nazione. Da un lato il consenso è in caduta libera, l’esecutivo ha sperimentato notevoli resistenze all’interno del sistema statale (come nel caso dell’elezione del giudice Gorsuch, con il quale è stata usata la c.d. opzione nucleare con il cambio delle regole in corsa) e gran parte delle promesse elettorali sono rimaste praticamente lettera morta, ma dall’altro l’economia americana sta mostrando segni di forza (il Dipartimento del Commercio segnalava un +2,6% a fine agosto) e la diplomazia statunitense è rimasta coinvolta negli scenari in cui un ruolo di quel tipo era richiesto. Con altri tre anni davanti condotti sulla stessa china, il governo Trump sarebbe ricordato come un governo moderatamente conservatore con un modo di comunicare molto forte e incapace di creare consenso politico. Ad oggi, Trump 2020 rimane più un miraggio che una concreta possibilità.

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Carlo Paganessi

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