Ruben Östlund, dopo il successo di critica di Force Majeure, ha vinto la Palma d’Oro all’ultima edizione del Festival di Cannes con The Square. È stato un riconoscimento inaspettato per molti, e a maggior ragione poter vederlo ora nelle sale italiane può fare luce sui pregi dell’opera di questo regista svedese e in genere della sua poetica. Questa sua ultima tragicommedia è una critica al mondo dell’arte contemporanea, ma non solo. The Square è la punta dell’iceberg di un progetto ben più ampio, che ha nel suo centro focale la società attuale, come interagiamo gli uni con gli altri in determinate situazioni che ci chiamano in causa come agenti sociali e morali.
The Square non è affatto isolato nei lavori del regista, ma si inserisce perfettamente in una filmografia che assume il taglio di uno studio, un’osservazione di tipo sociologico sul comportamento umano nel contesto della società svedese e non solo, grazie all’attualità internazionale dei suoi temi e le sue capacità di penetrazione psicologica. Involuntary (2008) e i successivi Play (2011) e Force Majeure (2014) sono tre opere che a monte hanno la stessa preoccupazione: osservare cosa succede quando un individuo o un gruppo di individui si trova assalito, invischiato in una situazione insolita e risponde in modo impulsivo, appunto involontario, spesso fuoriuscendo da un codice di comportamento ben accetto o civile. L’esempio più noto e lampante è quello del padre protagonista di Force Majeure. Quest’ultimo va in vacanza con la moglie e i due figli in un lussuoso hotel in montagna. Quando i quattro stanno pranzando nel ristorante sul terrazzo dell’edificio, all’improvviso una valanga rischia di riversarsi sulle loro postazioni. In un atto di estrema emergenza e rischio vitale, la madre tenta di proteggere i figli, mentre il padre fugge via salvando soltanto il suo iPhone. Si scoprirà poi che la valanga era controllata, quindi non ha raggiunto realmente il terrazzo e tutti sono salvi, ma la fuga del padre turba profondamente gli equilibri famigliari, portandolo a fare i conti con l’immagine di uomo e genitore che dovrebbe rappresentare, sconfessata dall’egoismo e dalla viltà che ha disvelato quando si è trovato a improvvisare d’istinto. Infatti in tutti e quattro i film all’attivo di Östlund, compreso quindi The Square, la reazione dei personaggi a situazioni di profondo stress smaschera la loro fragilità umana, la loro nudità emotiva rispetto al ruolo sociale che si attribuiscono o l’immagine onorevole che hanno di se stessi. Tuttavia non si tratta della prospettiva di un critico cinico, ma di un osservatore lucido che non intende comunque condannare i propri personaggi. A The Village Voice il cineasta dice: «Sociology has a forgiving and humanistic view on us humans, even when we fail. I wish that I could express that in my films, because even if I want to be harsh towards the audience and confront them, I want them to understand that the situation in itself is creating bad behavior. I think that all of us have the ability of reacting in the way that Christian [protagonista di The Square, N.d.R.] does — even if we don’t want to».
L’astensione da un giudizio troppo infervorato era già evidente nella prima fase del suo cinema, quella di Involuntary e Play. Qui l’osservazione del fenomeno sociale era posta ancora prima di una psicologia individuale dei personaggi, tanto che la camera evitava quasi sempre i primi piani sugli attori, che rimanevano invece inseriti in un ambiente riconoscibile, oppure mostrava particolari del loro corpo, della gestualità che adottavano in un momento di nervosismo, in risposta al loro interlocutore. Unendo tutto ciò a delle inquadrature di durata molto lunga, si creava una certa posizione registica dissezionante e neutra, più interessata a registrare gli eventi che a trarre frettolosamente conclusioni. Sembra che ci siano delle aspirazioni documentaristiche in storie di finzione. Ciò può portare a domandarsi se questo studio sociologico non sia inficiato dall’artificialità di una messa in scena, della simulazione, al posto di una ripresa dal vivo. Uno dei punti maggiormente interessanti forse è proprio questo: si tratta di storie nate per coinvolgere lo spettatore in primo luogo, per farlo immedesimare (cosa c’è di meglio di un lungometraggio narrativo per farlo?) e che si propongono comunque di avere un grado di realismo molto alto, tanto da poter essere un laboratorio di esamina del regista del mondo attorno a lui. Il principio a cui ci si attiene è la credibilità delle reazioni che gli attori devono ricreare, tanto che durante le fase di riprese è disposto a un buon grado di improvvisazione. Questo è riportato nella stessa intervista sopracitata: «One thing that I do during shooting is…OK, I have the script, I have the idea about the scene, but when we are starting to try out the scene, it’s a huge step to take something that is a written paper product and make it work as a visual product. So, I tell everybody in the scene that they have to stay true to themselves as human beings. I ask them, «Is it possible for you to do what you are doing now?» And one of the actor’s tasks is to detect that and say, «No, it’s actually not possible for me to react the way it says in the script». Aha, then we have to change the setup, so it becomes possible for that actor to do that. They should always identify with the situation as human beings, not as characters».
La volontà di far immedesimare lo spettatore è il momento in cui si scopre il secondo lato della medaglia, ovvero che da una prospettiva tanto acuta non possa che emergere un quadro umano o sociale nient’affatto lusinghiero e che chiama in causa ognuno di noi. Accade in modo estensivo in Force Majeure, ma anche in The Square.
Il pregio di Östlund è che, nonostante le ricorrenze date dai suoi oggetti di interesse preferenziali, non si genera mai un senso di ripetitività. Ogni film aggiunge un nuovo tassello al suo quadro sociale, tanto che si potrebbe dire che faccia progressivamente un puzzle alla maniera della produzione altrettanto “sociologica” di Balzac. The Square si focalizza quindi su un gruppo sociale nuovo: quello elitario e intellettuale di chi lavora nell’arte moderna. Il film si situa in un futuro prossimo, dove la monarchia svedese è stata abolita. Il protagonista è Christian (Claes Bang), direttore del Palazzo Reale di Stoccolma, diventato quindi un museo. Christian si sta lanciando in una nuova mostra di un’artista e sociologa incentrata sul “Quadrato”, un’area di quattro metri per quattro posta proprio nella piazza (si sfrutta il doppio significato del termine inglese “the square”) davanti al museo e che non contiene altro che il proprio perimetro luminoso. Il Quadrato si propone di essere «un santuario di fiducia e amore, dentro cui tutti abbiamo gli stessi diritti e gli stessi doveri». Östlund in questo caso non apporta un elemento di finzione inedito, poiché l’installazione è una sua creazione artistica realmente esistente. I dettagli sono stati raccontati a Deadline: «[..] me and a film producer friend of mine, Kalle Boman, we came up with the idea that we should create a symbolic place where we are reminded of our common responsibility. And we were invited to a museum—the Vandalorum design museum in Värnamo, Sweden— to do an exhibition about something, and we did an exhibition about this. They built the first Square, and now there are actually two other cities in Norway that have built Squares in their cities. Actually, it’s celebrating two years now, the Square in Värnamo. It has become a small movement there. People are using it as a gathering point, couples have been engaged in it, and there have been physically handicapped people that have had a benefit taken away from them [..]». Bisogna notare però una significativa differenza tra realtà e finzione: nel suo film la mostra sembra non avere mai un vero inizio, ma tutto è teso invece verso la sua realizzazione. Si simboleggia uno stato di mezzo, in cui il principio ideale dichiarato è un punto d’arrivo agognato, mai mai raggiunto.
Con ciò Östlund intende anche criticare l’idealismo dell’arte contemporanea. Notoriamente essa si contraddistingue per essere spesso la rappresentazione minimalista di un concetto, non di rado vago, nebuloso, astratto rispetto alle contraddizioni vive della realtà del mondo fuori dai musei. Quali sono questi diritti e questi doveri?
Östlund fa dell’ironia anche sul pubblico dell’arte contemporanea, abbastanza minoritario, composto nel film quasi del tutto da uomini borghesi di una certa età che considerano l’attività della fruizione artistica un’occasione sociale di elezione. Nei momenti di partecipazione alle iniziative di Christian questa orda attempata è inquadrata in un’espressione di stupore stolido e di risate meccaniche e vuote. Sembra che l’importante non sia una posizione critica e attenta a ciò che vedono, ma il semplice fatto di essere in un luogo del genere, di essere parte di un tipo di attività destinata a pochi. Lo stesso Christian ha quindi un ruolo di potere, non soltanto economico. È un promotore di questo tipo di arte concettuale e del suo linguaggio astruso, un fantomatico possidente di una rara conoscenza e intelligenza, alla stessa maniera in cui nell’Ottocento e nel primo Novecento l’essere studenti universitari bastava per essere guardati con timore reverenziale. Östlund sceglie di racchiudere in una scena precisa e iniziale la più forte espressione di questa tematica. Christian viene intervistato da una giornalista americana, Anne (Elizabeth Moss), la quale con un’espressione affascinata chiede umilmente il significato di un testo sul sito del Palazzo Reale sull’«esibizione/non esibizione dell’opera d’arte», che contiene come spiegazione un fiume di paroloni poco chiari e accademici. Questo è un caso in cui Östlund coglie in fallo un personaggio nel momento in cui deve dimostrare di essere all’altezza del proprio ruolo sociale, attraverso un evento non previsto e che lo mette alle strette: Christian balbetta, poiché in verità non saprebbe darne una spiegazione illuminante e interessante.
Tuttavia, sempre in linea con la visione empatica e umanistica di Östlund, Christian crede davvero nel principio del Quadrato. Si vede come un buon cittadino che nel suo piccolo cerca di attuare questo modello comportamentale, di attenzione al prossimo e di egualitarismo. Infatti la tensione conflittuale di The Square si polarizza proprio tra un ideale e la sua messa in pratica.
In The Square, Östlund porta avanti due serie di eventi. Una è l’organizzazione della mostra, specialmente l’aspetto che riguarda la sua campagna promozionale, gestita da un’agenzia di comunicazione di giovani (nell’intento di allargare il target). L’altra è una vicenda privata, che fa letteralmente irruzione nella vita di Christian sin da subito. Una delle scene più bizzarre del film è proprio una particolarissima rapina, di cui è meglio non rivelare i dettagli. Basti dire che Christian ne esce derubato di portafoglio, cellulare e gemelli. Comincia dunque una missione di riconquista dei propri oggetti, in cui Christian viene incitato a farsi valere in quanto uomo. Il tema della virilità maschile è caro al regista, che lo affronta spesso in modo grottesco e sincero, trattandolo come una costruzione sociale molto relativa. Gli uomini di Involuntary, gli adolescenti di Play e il padre di Force Majeure sono un po’ come Christian: la virilità è un’attesa sociale altrui (contestabile) che vorrebbero incarnare in modo disinvolto e naturale, ma che li mette in seria difficoltà. La risoluzione del furto spinge questo agiato direttore di museo nel terreno periferico di Stoccolma, in cui la sua convinzione di essere un cittadino retto è messa a dura prova. Torna la reazione istintiva, che porta a galla pregiudizi classisti insospettati. Si apre così quel divario logorante per ogni personaggio “ostlundiano” in cui si scopre progressivamente non essere quello che si pensava. Si ha paura ad avventurarsi di sera in un condominio ai margini della città per via della sua probabile popolazione di immigrati (in Svezia il pregiudizio che li considera malavitosi è molto forte, ne parla anche Play). Si ha diffidenza a rispondere a una richiesta di aiuto da sconosciuti nel mezzo del centro e si aspetta sempre che qualcun altro lo faccia. Non si tratta soltanto di una prevedibile incongruenza tra idea e azione, ma anche di quei meccanismi di pensiero radicati potenzialmente in qualsiasi cittadino per cui si è portati a non avere un riguardo equo verso individui non integrati e/o di ceto economico inferiore. Non è una svalutazione sin da subito evidente né una malevolenza voluta, può trattarsi di un dettaglio, di un comportamento distratto, il quale scatena una concatenazione di avvenimenti che ci fanno perdere il controllo della situazione e fanno naufragare la stima di sé. Il peggio di ognuno di noi è nello strato subcosciente, pronto come un vulcano a eruttare malgrado le nostre buone intenzioni. Claes Bang dà una prova attoriale perfettamente calata, sfruttando la propria corporeità per rendere tutte quelle micro-reazioni (di rivolto comico) che interessano al regista.
Östlund passa inevitabilmente da osservatore a rivelatore critico: il «santuario di fiducia e amore» è un luogo del tutto utopico, che ha poco a che fare con gli uomini in carne e ossa. Come in Force Majeure, la società istituisce degli schemi sociali falsamente rassicuranti per sotterrare il disordine fondamentale della convivenza umana. L’uomo, appunto incapace di reggere nella sua essenza più nuda i suoi ideali, si scontra con la propria origine animale, selvaggia. Non è un caso che una delle scene migliori del film coinvolga una sorta di uomo-scimmia. Terry Notary, noto attore e stunt-man specializzato nel calarsi in ruoli di animali (ha lavorato nei reboot di Il pianeta delle scimmie, ma anche nella trilogia di Lo hobbit), è stato ingaggiato per il personaggio di Oleg, un performer invitato al Palazzo Reale per un esperimento sociale. Lo borghesia alta è sottoposta infatti alla simulazione di un animale predatore, pronto ad assalire chiunque emani paura e nervosismo. Oleg dà una resa così verosimile, che mette in crisi la flemma di tutti i presenti, divisi tra panico, se vittime, o silenzio a occhi bassi, se testimoni. La scena è oscilla tra l’esilarante e il caustico ed è un’efficace sonda analitica su più livelli di interpretazione.
The Square appunto riesce a offrire un fitto reticolato di spunti e tematiche, compresenti spesso nella stessa scena. Non manca, nel suo intento satirico, di colpire anche l’individualismo e l’evoluzione della comunicazione odierni non soltanto nei rapporti privati, ma anche nei media e nelle sfere pubbliche. L’agenzia di comunicazione da lui ingaggiata per la promozione del Quadrato è rappresentativa delle tendenze più contemporanee. Uno dei due pubblicitari infatti, pur complimentandosi per l’altruismo insito nel Quadrato, ritiene che esso sia poco interessante perché non provoca attrito. Si critica un tipo di informazione e pubblicità sensazionalistica, clickbait. Infatti l’agenzia propone di creare un video su YouTube che possa avere un effetto virale tramite immagini forti e gratuitamente controverse, nonostante esse travisino completamente l’idea del Quadrato come santuario protettivo. Così la volontà di stabilire una comunicazione fruttuosa con il prossimo è ostacolata da passi falsi, incidenti ed equivoci innumerevoli, che nel film coinvolgono anche il rapporto uomo-donna. Dalla regolarità perfetta del quadrato si passa a un mondo invece irregolare, instabile, a tratti labirintico, dove gli uomini si muovono freneticamente e inciampano non soltanto l’uno nell’altro, ma soprattutto nel riflesso di sé stessi.
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