Nell’ultima settimana a Torino la vita cinematografica è stata fiorente. C’è stato il Torino Film Festival, evento di portata internazionale che ormai è alla sua trentacinquesima edizione e raccoglie ancora una grande partecipazione di pubblico, composto da affezionati instancabili.
L’evento nasce come “Festival internazionale Cinema giovani” nel 1982, fondato da Gianni Rondolino e Ansano Giannarelli nell’intento di rispondere a una richiesta dell’allora Assessore alla Gioventù di Torino, Fiorenzo Alfieri. Quest’ultimo propose loro di ideare un festival cinematografico composto da giovani e dedicato ai giovani, focalizzandosi su un contesto indipendente, su soluzioni fresche e ingegnose di linguaggio audiovisivo. Alfieri sperava che esso potesse essere anche un centro propulsore di cultura in città. Infatti il festival si inserì nel contesto urbano come una calamita per la gioventù metropolitana, affamata di cultura e desiderosa di andare oltre lo stallo di molti cittadini davanti ai televisori delle loro case. Molti di quei giovani continuano a essere presenti al festival, tanto che oggi si potrebbe dire che la proposta è giovanile, ma il pubblico ha una percentuale di età sbilanciata verso la generazione più anziana o comunque adulta, come accade d’altronde quasi sempre nei cinema d’essai italiani.
Il festival, pur rimanendo intaccato nel suo proposito, diventò sempre più noto e si evolvette, passando dall’essere un fenomeno locale all’inserirsi invece nel circuito dei prestigiosi festival internazionali, tanto che dal 1997 cambiò nome, diventando il “Torino Film Festival” (oggi, dopo la Mostra cinematografica di Venezia, è il festival italiano più rilevante). Si assestarono anche altri cambi di rotta: all’origine aveva una prospettiva non soltanto puramente cinematografica ma anche sociologica, una volontà militante, poi lasciata indietro. Tuttavia esiste ancora oggi il Premio Cipputi, dedicato al miglior film sull’argomento del lavoro e dei lavoratori.
Così nel corso del tempo il festival allargò sempre di più i propri orizzonti, come si nota dai piccoli e continui cambiamenti nell’organizzazione delle sezioni. La sua natura infatti non è del tutto incasellabile in un tono cinematografico uniforme (è più duttile ad esempio del festival di Cannes), passando agevolmente da film indipendenti d’atmosfera intimistica ad altri di vocazione sociale e intellettuale, fino al cinema di genere. Per il terzo anno consecutivo c’è una rassegna di film, alcuni rientranti nella “Notte Horror”, che non dimentica la tradizione delle proiezioni di mezzanotte e che propone agli amanti del genere una variegata sezione di ultime uscite. Attraverso la sezione “Non dire gatto..” è presente anche un collegamento con l’attuale mostra sui gatti del Museo Nazionale del Cinema: essa include horror come The Shadow of the Cat di John Gilling (1961) e Black Cat di Lucio Fulci (1981), ma anche la commedia romantica Bell, Book and the Candle di Richard Quine (1958) con Kim Novak e James Stewart, che fa da locandina rappresentativa di questa edizione.
Non manca nemmeno la retrospettiva annuale su un dato autore, spesso straniero, e quest’anno è il turno di Brian De Palma. Come racconta l’attuale direttrice del festival, Emanuela Martini, alla presentazione dell’evento all’Università di Torino, si ha l’intento di ricordare uno degli autori della seconda metà del Novecento americano più importanti e forse più trascurati dal pubblico italiano rispetto ai colleghi Steven Spielberg, Francis Ford Coppola, Martin Scorsese. In edizioni precedenti il Torino Film Festival contribuì, infatti, oltre che a rispolverare nomi meritevoli, a far conoscere personalità ignote alla maggioranza del pubblico italiano, come accadde con la retrospettiva su John Cassavetes nel 2007, ma anche per il giapponese contemporaneo Sion Sono nel 2011. Inoltre quest’anno è stata invitata Asia Argento come ideatrice di un’altra rassegna, “Amerikana”, che ripropone alcuni classici della cinematografia statunitense sulla popolazione ai margini del paese: la provincia malinconica attraverso road-movies come Payday (1973) di Daryl Duke e Paris, Texas (1984) di Wim Wenders, ma anche le cocenti disillusioni degli immigrati di Stroszek (1977) di Werner Herzog e ancora l’anima punk, densa di rabbia, di Out of the Blue (1980) di Dennis Hopper, che infatti rispecchia un gusto ormai noto dell’attrice italiana e qui promotrice.
Per questa trentacinquesima edizione il totale dei film proiettati è di centosettanta, che non può che arrecare gioia e tripudio ai cinefili, i quali come ogni anno devono mettersi a tavolino e scegliere a cosa dare priorità, sperando di poter fare vantaggiosi incastri con gli orari del calendario del programma. Va specificato infatti che a differenza di altri festival quasi tutte le proiezioni sono aperte al pubblico. Di seguito riportiamo le recensioni di un primo gruppo di film che abbiamo avuto l’occasione di vedere, divisi per la sezione a cui appartengono. Seguirà, in un articolo successivo, un secondo gruppo di film visti e i vincitori dei vari premi assegnati. Non abbiamo privilegiato alcuna categoria particolare, dando comunque una conscia priorità alle prime nazionali, per poter rilevare le novità di quest’anno.
Si tratta della sezione dei film ufficialmente in concorso, riservata a opere prime, seconde o terze e più esplicitamente dedicata alla ricerca di nuovi talenti del cinema indipendente. In questa categoria in passato ci sono state le opere iniziali di registi ora affermati, come Tsai-ming Liang, Damien Chazelle o David Gordon Green. Tra di essi c’è anche il presidente della Giuria di Torino 35, Pablo Larraìn (noto regista del nuovo cinema cileno), che collabora con gli altri giudici della sezione, cioè l’attrice italiana Isabella Ragonese, lo scrittore e sceneggiatore greco Petros Markaris, il regista e attore scozzese Gillies MacKinnon e il regista argentino Santiago Mitre (che presenta fuori concorso anche il suo ultimo film fanta-politico, La cordillera).
Tra i film che abbiamo visto si distingue il documentario À Voix Haute – Speak Up di Stèphane De Freitas, un regista portoghese naturalizzato francese. Il film ha una sua origine particolare, in quanto è stato autoprodotto dalla Coopérative Indigo – da cui la casa di produzione cinematografica Indigo, fondata dallo stesso De Freitas – per divulgare un progetto educativo dell’Università di Saint-Denis, che ha preparato alcuni studenti per il concorso di retorica “Eloquentia”. Il documentario segue quindi un gruppo di studenti volontari, provenienti dalla periferia parigina, nel loro periodo di preparazione a questo torneo per giovani oratori. Fulcro del film è il tentativo di comunicare la passione che muove sia gli insegnanti che seguono i ragazzi, sia sempre più i ragazzi stessi: l’amore per la parola. Non solo essa spesso, se scandita bene, può forgiare una musicalità piacevolissima in grado di toccare gli uditori, ma ha il potere di veicolare idee e valori. Il “piacere di parlare” è spesso soffocato, in periferia, da un circuito di immigrati oppressi, come i cittadini musulmani o di origine africana, i quali sono abituati a non dover alzare la testa, a non mostrare un lessico attento e raffinato per paura che questo li identifichi con la parte alta di Parigi, quell’élite che sovrasta i più sfortunati e marca una forte differenza culturale e di prestigio. Una volta padroneggiata l’arte retorica, essa può far emergere queste giovani menti e dare loro un futuro migliore, sconfiggendo molti stereotipi che prima li intimidivano e li scoraggiavano. Il documentario segue le lezioni dei vari consulenti interpretando la curiosità dello spettatore, che vuole sapere come si svolge questo lavoro, quali sono gli aspetti sviluppati dai vari professionisti della retorica. Si va dalla cura del discorso, nella tradizione fondamentalmente immutata dell’epoca classica, che divide in cinque atti l’orazione, alla cura dello stare sul palco, la gestualità da adottare e da evitare. Soprattutto si cerca di far prendere confidenza con il proprio corpo, con le proprie risorse fisiche che accompagnano inevitabilmente ciò che si vuole dire, decidendone il tono e la persuasività. Di contro ai preconcetti su quest’arte della parola, che la vedono spesso come sofista, capziosa, qui la si celebra nelle sue basi ideali. È lo scheletro di un confronto corretto e stimolante, in grado di sfruttare il proprio mezzo di comunicazione il più possibile, con argomentazioni che siano veramente tali, ferree, non guidate da luoghi comuni e populisti. Ciò che ha toccato molti spettatori in sala è stata la speranza per il futuro rappresentata da molti di questi giovani – che difatti poi hanno iniziato una carriera – la loro voglia di esprimersi, di denunciare alcune realtà che vivono su di sé. Assomiglia a un feel-good movie più impegnato di altri di questo genere, in cui la convinzione e partecipazione così sentita e il divertimento degli studenti nel prestarsi all’apprendimento a tratti è persino fonte di commozione.
Al filone horror appartiene invece questo esordio di Jun Tanaka, Bamy. Il film oscilla tra aspirazioni alte e nobili, e cadute dozzinali. Si tratta di una storia di fantasmi – argomento molto caro alla cultura giapponese – incentrata sui legami sentimentali, sul destino che li lega e sulla relatività della percezione umana, resa su schermo. Il protagonista è un amorfo giovane che vede i fantasmi in un’alienante solitudine, contrapposta a tutti gli altri suoi conoscenti, compresa la sua ragazza, che non riescono a vederli. C’è molto della tradizione giapponese occulta, qui purtroppo priva di forza espressiva veramente minacciosa, poiché la fattura con cui è presentata è sin troppo rozza. I fantasmi sono tutti in veste nera, tra cui c’è la classica donna dai capelli lunghi e spettinati, ma soprattutto governa la storia la figura dell’ombrello rosso. Esso è elevato a simbolo e nocciolo del film, che arriva dal cielo e soggioga i protagonisti secondo un percorso misterioso. Il regista, a una proiezione, ha confermato e chiarito l’interpretazione di molti, cioè che l’ombrello fosse proprio il simbolo dei rapporti predestinati, rosso per richiamarsi proprio al colore del filo che tiene insieme due amanti prescelti secondo l’immaginario del suo paese. Un rapporto d’amore sfaldato e alla deriva, figure spiritiche che spuntano in qualsiasi luogo della vita del protagonista, tutto sembra essere fuori controllo, tanto che proprio l’esistenza di un destino diventa una maledizione entro cui i personaggi si dimenano, tentando di andare oltre essa, ma senza concludere nulla. Sono sempre spossessati di se stessi ed erranti. La loro vita di coppia è poco desiderabile, ormai sterile e ambientata in uno spazio domestico minimalista e animata da gesti talvolta grottescamente inspiegabili, surreali, senza l’impatto perturbante di colossi dell’assurdo al cinema come David Lynch. La colonna sonora, costante e di gusto classico, orchestra una più generale tensione enigmatica e un’ubiquità che si presuppone d’atmosfera. Spesso sembra anticipare un qualche risvolto eclatante e spaventoso, ma gioca al contrario sulla brusca sottrazione, interrompendosi in alcuni momenti irrilevanti, probabilmente con un’ironia intenzionale. In definitiva le idee che hanno dato avvio a questo progetto cinematografico sembrano buone e promettenti, ma hanno mancato quasi del tutto una realizzazione pregnante.
Di tutt’altro livello è The Death of Stalin di Armando Iannucci, che qui in Italia arriverà con il titolo Morto Stalin, se ne fa un altro l’11 gennaio. Armando Iannucci fa della satira sardonica su un evento drammatico, cioè la dittatura stalinista, e su come l’entourage politico di Stalin si mosse in seguito alla sua morte per infarto. L’ottimo cast comprende tra gli altri Steve Buscemi nei panni di Chruščëv, Simon Russell Beale come Berija, Michael Palin in Molotov e Jason Isaacs in Zhukov. I volti quindi sono statunitensi, la lingua parlata è quella più inconfondibilmente americana (gestualità e idiomi compresi), tanto che si potrebbe creare un effetto di iniziale dissociazione, vedendo dei politici sovietici esprimersi proprio con il mondo comunicativo di un loro acerrimo nemico. Tuttavia Iannucci non si fa problemi di realismo linguistico e si lancia con il suo talento di sceneggiatore brillante e acido, con una successione serrata di scene esilaranti, che dissacrano le figure politiche protagoniste di questo periodo di transizione da un governo all’altro. La storia parte da uno spaesamento immediatamente succedente alla scomparsa improvvisa del dittatore, dove i suoi fantocci, in assenza del loro padrone politico, sono divisi tra un timore servile residuo, quasi il fantasma di Stalin fosse ancora lì a osservarli dall’alto, e una seconda pelle complottante, che tiene le redini del paese e comincia ad accarezzare i vantaggi che possono ricavare dal posto vacante lasciato dal loro capo. Le dinamiche del gruppo alternano una collaborazione verso un fine comune a guerre intestine e segrete per la supremazia singola. Iannucci da una parte inscena l’umorismo istantaneo della gag, senza risparmiare l’immagine di nessuno e colpendo sulla loro corporeità, sui difetti e le rispettive fedine penali che gli altri personaggi sono pronti a sfruttare e buttare lì con una frecciatina, cogliendoli in reazioni improvvisate e l’urgenza di sopravvivere tra farse e avidità. Dall’altra parte, sempre più si delinea nel corso della storia un arco complessivo di intelligente e sferzante visione storica, ricordando le prevaricazioni impietose che muovono spesso gli scenari politici naviganti nella melma. Probabilmente sarà proprio questo film a vincere il Premio del Pubblico tra quelli del concorso, essendo d’altronde quello più intrattenente e scoppiettante a detta di molti in sala.
Questa sezione fuori concorso raccoglie tutti i film che i membri del Torino Film Festival hanno visto in giro per il mondo e che hanno un riscontrato un loro particolare gradimento, arrivando così in territorio italiano in prima nazionale. La sezione offre circa una quarantina di film.
Uno di essi viene dal Festival di Cannes 2017 per la sezione Un Certain Regard, a sua volta dedicata a film con prospettive inusuali e originali. Si tratta del russo Tesnota (in inglese Closeness) dell’esordiente Kantemir Balagov, che ha già colpito a segno tra critica e pubblico. Pur essendosi formato dietro agli insegnamenti di un regista russo contemporaneo estremamente importante per la cinematografia nazionale, cioè Aleksandr Sokurov, Balagov si presenta con un’identità propria e forte. Innanzitutto permette di assistere al racconto visuale di una realtà poco nota. Siamo nel 1998, nel Caucaso del Nord, più precisamente a Nalchik, all’interno della repubblica russa cabardino-balcaria. Una famiglia ebrea da poco inseritasi in paese vive un evento drammatico: il rapimento del figlio minore per mano dei cabardini intolleranti, che chiedono di pagare un riscatto. La protagonista, la sorella Ilana, si ritroverà nel punto più fragile di uno scontro di volontà familiari e di comunità sociali. Già dal titolo si preannuncia un motivo ricorrente del film, sfruttando il doppio significato di “tesnota“, traducibile in italiano come “strettezza”, “vicinanza”, per parlare di una lacerante polarità tra un affetto viscerale e il suo risvolto claustrofobico, un cappio simbolico e fatale. L’amore nelle sue varie accezioni, filiale, fraterno e di coppia, qui non ha bisogno di dichiarazioni verbali, ma si riceve in pieno petto, in un abbraccio vigoroso, prepotente. Il regista riflette il mood della sua irrequieta e passionale protagonista (interpretata splendidamente da Darya Zhovner), l’inquadratura sta attaccata ai suoi personaggi, riprende appunto in un frequente primo piano i loro contatti, ma a volte invece sceglie la distanza. Ad esempio entra con Ilana in uno sgabuzzino lungo, stretto e buio (con riflessi colorati), fermandosi alla porta mentre lei spinge il fidanzato cabardino verso l’altra estremità della stanza, concedendosi frettolosamente, per il bisogno di affermare l’autonomia di un legame fuori dai dettami familiari e fuori dai confini angusti della propria comunità. Ancora la inquadra a casa sua, attraverso il varco visivo che si apre tra due corpi avvinghiati, quello del fratello e della sua fidanzata, dotati di una facoltà decisionale maggiore. Insieme alla musica tradizionale cabarda che culla le atmosfere tristi del film, in genere sembra di essere trasportati nella carne viva di un ambiente antico, dove ancora sopravvive il concetto di tribù di appartenenza esclusiva e dove ancora il popolo ebreo è tragicamente itinerante, sempre ospite e mai definitivamente assestato in un posto che possa chiamare casa. Allo stesso tempo è proprio nel conflitto tra una vecchia generazione, quella del timore conservativo dei genitori e del tradizionalismo della comunità ebraica, e quella della giovane Ilana, spoglia dei tabù altrui e con una grande voglia di vivere, di poter essere autonoma come persona e donna, che sta uno dei conflitti più pulsanti. Anche qui torna l’ingabbiamento, l’urlo d’amore e di angoscia, il movimento nervoso, centrifugo di Ilana rispetto a nucleo familiare, che arriva allo spettatore come un fiume in piena, sofferto attraverso le due ore di durata.
Altra storia familiare, decisamente meno tragica, è Tito e gli alieni di Paola Randi. Seconda opera di questa regista italiana talentuosa e originale, si presenta sin da subito come anomala rispetto alle abituali tendenze del nostro paese. Randi infatti mischia un contesto fantascientifico di derivazione americana alla commedia partenopea. Il deserto del Nevada è il luogo d’ambientazione, la terra più associabile all’immaginario americano di questo genere narrativo grazie alle sue basi spaziali e militari, ma i protagonisti si muovono dalle radici napoletane. Il piccolo Tito e la sorella adolescente Anita perdono il padre e si trasferiscono dallo zio (Valerio Mastandrea), scienziato solitario e malinconico che lavora ad un computer in grado di rintracciare segnali di vita nello spazio, in un laboratorio scientifico nei pressi di una base militare, l’Area 51. I due ragazzi scombinano la vita di quest’uomo, che deve imparare il mestiere di tutore da zero, affrontando in un binario parallelo due giovani che vivono il lutto per il padre, pur cercando di non pensarci e vivendo l’ambiente strambo dello zio, e poi il proprio lutto verso una moglie che non c’è più e che lui vorrebbe ritrovare proprio con le risorse della sua macchina. La fantascienza viene piegata al servizio di una ricerca intima, così anche gli effetti speciali un po’ artigianali e dettati dal budget ristretto di Randi rielaborano un onirismo tutto personale. Un argomento così gravoso è sempre però affrontato con una tenerezza e lievità che conquistano. Per creare questa atmosfera favolistica si attinge molto proprio dalla fonte comica dei due nipoti, interpretati bene da Luca Esposito e Chiara Stella Riccio, con quella spontaneità che connota l’approccio infantile al mondo – ma anche una certe verve alla mano di Napoli – di contro al mondo adulto più ingessato di un Valerio Mastandrea, altrettanto bravo, di espressività muta e frastornata. Questa ricerca di nuove frontiere di comunicazione, allargando gli orizzonti al di là del terrestre, rispecchia un po’ anche la ricerca di Randi, che s’avventura nel territorio statunitense amato per ritrovare una freschezza che spesso manca a noi italiani, prende spunto da alcuni modelli, ad esempio da Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg, e alterna inglese e italiano nella sceneggiatura, senza rinunciare ad una chiave stilistica originale. Si spera che il film trovi anche una distribuzione commerciale.
Si tratta della sezione dark del festival, quella che infatti risponde a opere – horror, thriller, commedie – che sfuggono a facili definizioni, un po’ eccentrici, forse folli. Il nome ripete la tradizione delle proiezioni notturne cinematografiche italiane di un tempo, che proponevano nelle ore piccole e meno popolate film adatti a un pubblico davvero cinefilo, che avesse voglia di vedere ciò che usciva un po’ fuori dai soliti stilemi. Oggi d’altronde questa usanza sopravvive nel palinsesto televisivo notturno. Quest’anno la sezione presenta quattordici titoli.
Sicuramente Sion Sono, habitué del festival torinese, è una personalità artistica a dir poco estrosa. Torino ha sempre premiato il suo talento, cercando di stare dietro alla sua incredibile prolificità e proponendo ogni anno una delle sue ultime creazioni, oltre che alla specifica retrospettiva dedicata nel 2011. Sion Sono d’altronde ricambia questo affetto, tanto che ha dichiarato a Cultframe che gli piacerebbe girare un film in questa località stimolante. Quest’anno è stato proposto un prodotto anomalo anche per le tendenze del regista: una serie tv prodotta da Amazon, Tokyo Vampire Hotel, che è stata proiettata in un taglio di compressione apposta per il circuito festivaliero. Due dinastie di vampiri, Corvin e Dracula, tra Giappone e Transilvania, una contemporaneità che minaccia la continuazione della stirpe dei Dracula, una loro prescelta che va messa in salvo dagli avversari. Se la miniserie ha un totale di dieci puntate di durata variabile tra i trenta e cinquanta minuti, la versione cinematografica ne dura centoquarantadue. Considerando l’assenza di freni del regista e la sua «cine-energia», il montaggio provoca un effetto delirante, pur mantenendo un filo da seguire abbastanza chiaro (non scontato per un’operazione di questo tipo). Torna quindi l’eccesso, la violenza grafica comune in verità a più artisti orientali. C’è una sequela di scene splatter che scombussola non tanto perché più disgustosa di altre del filone (con qualche eccezione effettivamente rivoltante), ma per la sua presenza esplosiva e per la continua e fulminea reiterazione. Sessualità sanguinolenta, teste mozzate senza esitazione, sparatorie lampo e con un sorriso sulle labbra o al contrario un’espressione impietosa. Domina una mano ferma da parte dei personaggi, come quella di K., esecutrice della fazione nemica, o al contrario la follia rabbiosa e dolorante di Manami, giovane prescelta che si ritrova a fronteggiare una natura vorace e un destino crudele. A tal proposito, i personaggi in genere hanno una caratterizzazione che soffre del festival cut, a eccezione dell’arco più ampio delle due ragazze citate. Sono queste due infatti a rappresentare l’amore rinnegato, lo sballottamento violento tra più partecipanti di una grande battaglia. In particolare è proprio Manami a offrire un’ulteriore variazione di un tipo ricorrente nel cinema di Sion Sono: figure che per tutta la vita hanno cercato di nascondere pulsioni che non comprendono, per rientrare in un modello di società da cui vogliono essere accettati, salvo poi essere trascinati in mondi che appartengono alla loro più vera essenza attraverso eventi imprevisti. La scoperta della propria identità spesso si accompagna allo scoperchiamento di un istinto mostruoso. Non è il dramma però a governare Tokyo Vampire Hotel, ma al contrario una strabordante vena comica e una sorta di piacere dell’orrido. L’autoironia è di tipo squisitamente giapponese, tra pose e reazioni esagerate, ma frutto di un divertimento sicuro da parte del regista e in linea con una tendenza slapstick nipponica, un po’ istrionica. Si sposano bene allora i colori sgargianti delle scenografie e dei costumi, la contaminazione effettivamente strana tra cultura e lingua rumena e poi quella giapponese.
Per ultimo, ma non per importanza né per gradimento, c’è The Disaster Artist di James Franco. Anch’esso è indubbiamente un’opera unica, un piccolo gioiello tra i film che parlano di altri film. Franco racconta attraverso un lungometraggio narrativo i “dietro le quinte” di The Room, considerato uno dei film più brutti della storia del cinema e diventato un cult trash, il «Quarto Potere dei film brutti». Il regista, produttore e attore principale di questo scempio ormai storico è Tommy Wiseau, figura a sua volta incredibile. Franco racconta non soltanto come fu girato il film, un prodotto che pure nella sua fattezza misera costò sei milioni di dollari, ma anche il rapporto che legava Wiseau (interpretato sempre da James Franco) al suo amico e attore Greg Sestero (Dave Franco). Franco ha un rispetto non banale per Wiseau, cercando di evitare una critica feroce, ma interpretando con grande bravura – forse è la performance più meritevole della sua carriera – l’umanità insita in quest’uomo, il quale pur avendo una sconcertante mancanza di talento, aveva ambizioni e sogni come tanti altri, figli del sogno americano. Non si dimentica di fare dell’ironia sulle sue pretese e sulla sua visione di sé piuttosto deformata, attraverso una mimica buffa e una sceneggiatura vivace, ma Franco interiorizza anche la sua solitudine, le sue illusioni recidive con empatia. Si ritrovano alcuni punti immancabili dei prodotti di Franco e Rogen, come la serie di camei, ma fortunatamente non c’è un tipo di dissacrazione spinta a volgarità eccessiva tipica di Rogen, sfruttando invece l’abbondanza di risorse comiche ricavabili dalla bizzarria dello stesso Wiseau, dal suo aspetto cadaverico, il suo vestiario dark piuttosto curioso, le sue sgrammaticature e il suo accento di derivazione incomprensibile. Per questi ultimi elementi è molto difficile immaginare una versione doppiata che renda giustizia alla comicità del film. Si consiglia infatti di scegliere una versione originale con sottotitoli, se verrà distribuito in Italia. Caloroso e molto divertente, probabilmente se questo film fosse eleggibile per il Premio del Pubblico, sarebbe tra i favoritissimi, a giudicare dalla risposta generale entusiastica degli spettatori.
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