“Ron: Allora?
Dr Vass: Meglio, i linfociti aumentano.
Ron: Ho ancora l’HIV?
Dr Vass: Sarai sempre positivo all’HIV. E adesso hai l’AIDS, per via di tutti quei veleni che ti sei messo in corpo. Hai distrutto il sistema immunitario e hai una polmonite cronica tra l’altro: può causare perdita di memoria, sbalzi d’umore, dolore alle articolazioni…
Ron: Se è una schifezza ce l’ho io, ho l’uccello che non mi si rizza più e quella bella lista di casini.”
(Da Dallas Buyers Club, 2013.)
Definita come la peste del XX secolo, la patologia da infezione del virus dell’immunodeficienza umana, HIV, è stata una delle ombre che hanno oscurato lo splendore degli scintillanti anni ’80. Vera e propria spina nel fianco, l’epidemia da HIV si diffuse in quel periodo con una velocità disarmante: la minaccia di diventare sieropositivi spaventava, discriminava i meno fortunati (data la massiva diffusione del virus tra coloro che praticavano una vita dissoluta, ai margini del virtuosismo della società bene), generava crescenti psicosi. Come tale, l’HIV (o quantomeno, l’idea dell’agonia da esso generata) divenne un fantasma invisibile che arrivò a contaminare la mentalità dell’opinione pubblica prima ancora che il fisico delle persone, lasciando la propria impronta anche su abitudini e costumi quotidiani, nonché nelle opere letterarie e cinematografiche. Di fatto, la questione HIV è tuttora una sfida aperta per la ricerca medica (lo dimostra l’appena trascorsa Giornata Mondiale dell’HIV), poiché l’infezione da parte di questo virus mutaforma innesca un processo patogenetico irreversibile; non si guarisce dunque, ma attualmente si può rallentare la corsa verso l’inevitabile perdita delle difese immunitarie, attraverso l’adesione a specifiche terapie.
Ma cosa si sa di questo virus? Da dove nasce e perché si è diffuso? Quanto è approfondita la conoscenza popolare in relazione a questa malattia ancora presente?
Nascita e storia di un virus giovane
“È stato il [secolo] più orribile, perché abbiamo avuto tutto il peggio: due guerre mondiali, Hitler, Stalin, gli orrori dell’Olocausto, Pinochet, l’AIDS, la televisione. È stato un secolo disastroso.”
(Cit. Tiziano Sclavi)
Prima ancora che il virus ottenesse la sua spaventosa fama negli Stati Uniti e molti anni prima che venissero a crearsi complottismi dalla dubbia e scarna natura, il virus fece la sua comparsa nella specie umana verosimilmente attorno al 1920: come riporta uno studio approfondito sulla genesi dell’HIV, con ogni probabilità i primi sieropositivi della storia furono alcuni individui (non ben identificati) che contrassero la malattia in Camerun di ritorno da una battuta di caccia. Il virus non fu acquisito nella maniera canonica che i media hanno riportato dagli anni ’80 in poi, ma ci fu il cosiddetto salto di specie. Difatti in numerose specie animali esistono da moltissimi secoli virus in grado di determinare una malattia che progressivamente porta ad indebolimento immunitario e morte; ciò vale ad esempio per il FIV (virus dell’immunodeficienza felina, che interessa particolarmente i gatti) e per il SIV (che interessa invece le scimmie). Fu con ogni probabilità quest’ultima tipologia che riuscì a passare alla specie umana: dei vari sottotipi di SIV (responsabili di tredici contagi certificati) solo i virus noti come HIV-2 (molto simile a SIV) e HIV-1 di gruppo M riuscirono a causare la malattia nell’uomo. Questo fu l’inizio di un contagio massivo, esteso a macchia d’olio nella Repubblica Democratica del Congo; fu in questo periodo, nel 1937, che si ottenne la successiva differenziazione dei ceppi di HIV-1 di gruppo M, con la comparsa dei sottotipi C (alla base della maggior parte delle successive infezioni avvenute nell’Africa sub-sahariana), B (maggiormente diffusosi in Europa e USA) ed O (rimasto endemico in Camerun). Il primo paziente sieropositivo ufficiale è datato 1959: da quel momento, la corsa del virus divenne inarrestabile, soprattutto grazie alle vie ferroviarie, alle politiche intraprese in quegli anni per debellare alcune infezioni che devastavano l’Africa centrale (e che paradossalmente favorirono l’ascesa dell’HIV) e soprattutto alla prostituzione sempre più marcata.
“Se la sessualità delle donne in Africa non fosse sotto attacco, se le donne fossero in grado di dire di no, se le donne non fossero oggetto di assalti predatori da parte degli uomini, o di comportamenti predatori in genere, allora si avrebbe una malattia in Africa che si chiama AIDS. Ma non si avrebbe una pandemia.”
(Cit. Stephen Lewis)
Non ci fu tuttavia, tra gli anni ’60 e ’80, una chiarezza soddisfacente nella comprensione del problema: in Africa si parlava di “male sottile” per identificare una condizione strana che portava a indebolimento progressivo, senza ben centrare il problema e senza dunque capire con quale bomba esplosiva si aveva a che fare. Passarono gli anni, il virus si diffuse dapprima quasi esclusivamente per via eterosessuale (in Africa) e poi giunse in America, Haiti, Brasile; la rivoluzione sessuale degli anni ’70 fece il resto. Risale al 1980 la prima definizione di tale condizione da parte di Michael Gottlieb, medico americano che notò come molte malattie rare e gravissime iniziassero a circolare massicciamente tra gli appartenenti alle comunità omosessuali; di lì a poco giornali prestigiosi quali The Lancet iniziarono (più o meno indirettamente) a discriminare le comunità gay, arrivando a definire la malattia come Gay compromise sindrome o cancro dei gay. Due anni dopo, il primo caso su un tossicodipendente. La risposta della benpensante opinione pubblica, dapprima incredula, fu poi prevedibilmente rapida: per usare le parole di Cosmancini, l’Aids aveva «provocato la paura di una malattia sessualmente contagiosa e altrettanto peccaminosa, dalla quale bisognava chiamarsi fuori mettendo dentro, nel sacco delle streghe o del diavolo, tutti quanti i diversi, minacciosi come alieni». Il virus fu identificato solo di lì a breve, tra il 1983 e il 1984 con gli studi paralleli di Robert Gallo e Françoise Barré-Sinouss; se poi da una parte seguirono conferenze, iniziative e provvedimenti per bloccare un’epidemia sempre più inarrestabile, dall’altra il moralismo imbarazzato di tante Nazioni impedì una corretta informazione sull’argomento, causando ritardi dagli effetti deleteri. In questa prospettiva fu emblematica l’Italia, che iniziò i controlli sulle sacche di sangue tre anni dopo gli altri Paesi, e che impedì l’attuazione di una adeguata educazione sessuale nelle scuole per evitare che si parlasse di profilattici. L’impronta della Chiesa si è fatta risentire poi in tempi recenti, come percepibile dalle controverse parole dell’ex Papa Ratzinger. I Paesi dell’Est rimasero invece a lungo esclusi da questa piaga, a causa dell’isolazionismo imposto dal regime comunista. Solo dalla seconda metà degli anni ’90 iniziarono a essere messi a punto i primi farmaci antivirali, che determinarono una brusca frenata all’epidemia. Il rapporto UNAIDS del 2009 parla di circa 60 milioni di persone contagiate sin dall’inizio della pandemia, con 25 milioni di morti e 14 milioni di bambini orfani nel Sudafrica. Attualmente la malattia, che a causa della presenza di cure viene in un certo senso ampiamente sottovalutata da alcune categorie di individui, colpisce soprattutto gli eterosessuali (44,9% contro il 40,7% degli omosessuali) tra i 25 e i 36 anni, anche se ovviamente tutte le fasce d’età sono a rischio.
I danni effettivi dell’HIV
“Oh yeah!
In France, a skinny man died of a big disease with a little name
By chance his girlfriend came across a needle and soon she did the same
At home there are seventeen-year-old boys and their idea of fun
Is being in a gang called ‘The Disciples’
High on crack and totin’ a machine gun.”
(Da Sign ‘O’ The Times, Prince, 1987)
Ma di fatto in cosa consistono la malattia e il malessere dati dall’infezione da HIV? Il virus viene innanzitutto trasmesso tramite due tipologie di vie: orizzontale, che comprende la trasmissione sessuale non protetta (quella più rischio riguarda i rapporti anali, seguiti da quelli genito-vaginali e da quelli orali, con un rischio sempre maggiore per il partner passivo), le trasfusioni di sangue, lo scambio di siringhe tra tossicodipendenti (questa via andava per la maggiore negli anni ’80), i contatti accidentali con taglienti infetti nei posti di lavoro; verticale, ovvero la trasmissione da madre a figlio che si verifica particolarmente nel primo trimestre di gravidanza nelle gestanti HIV-positive. Non esistono altre vie, per cui non si contrae il virus dalla saliva (altamente tossica per il patogeno, a causa della presenza di specifici enzimi), dagli starnuti o dalla tosse, dal sudore, dalle punture di zanzara, dalle donazioni di sangue (sottoposte a controlli serrati).
“Il cancro e l’AIDS sono bestie educate: mangiano una ben misera razione di carne rispetto a quella che hai mangiato tu e non ti lasciano solo come tu tenti di fare con loro.”
(Cit. Fabrizio De André)
L’HIV è un retrovirus e come tale riesce a integrarsi nel genoma delle cellule che infetta. Per questo motivo, oltre che per il fatto che il virus muta la sua composizione con alta velocità e frequenza, attualmente non si riesce a eradicare la malattia nei soggetti infetti. Le cellule interessate dall’infezione sono i globuli bianchi, in modo particolare i linfociti: il virus è dunque subdolo, poiché va ad interessare direttamente le strutture che sono responsabili della maggiore difesa dell’organismo, il quale risulta sempre più indebolito e disarmato; il tragitto verso l’immunodeficienza è progressivo ma inarrestabile, se non trattato. È bene però sottolineare che parlare di infezione da HIV non significa parlare necessariamente di AIDS: quest’ultima infatti solo rappresenta l’ultima, terribile fase del processo che fa da preludio alla morte, a cui si giunge generalmente dopo alcuni mesi/anni. Dopo il contagio, il paziente sperimenta un periodo di infezione acuta, della durata di una-due settimane, in cui la malattia si manifesta in maniera aspecifica, come se fosse una comune influenza o un banale raffreddore: in questa fase il virus si moltiplica con velocità medio-alta, determinando un ingravescente calo dei linfociti. Segue, dopo una settimana circa, un periodo di latenza clinica in cui la malattia non dà apparenti segni di sé; ma a questa latenza clinica non corrisponde una latenza biologica, nella misura in cui i linfociti reagiscono, producono una prima risposta cellulare (senza però tornare ai livelli pre-contagio) cui fa seguito una importante produzione di anticorpi (generalmente a trenta giorni dall’infezione) rivolti contro il virus. Quest’ultimo però non è inattivato, in quanto nell’arco di cinque-dieci anni (durata variabile da paziente a paziente, secondo il grado di proliferazione virale raggiunto nella prima fase acuta) esso riesce ad uccidere un numero sempre maggiore di linfociti, generando immunodeficienza e diventando drammaticamente sintomatico. Relativamente alle concentrazioni di linfociti nel sangue (espresse in unità/mm3), si ha un primo momento definito Stadio I (o LAS) in cui la concentrazione è superiore a 500 e si ha spesso un ingrossamento generalizzato dei linfonodi; segue lo Stadio II (ARC) in cui le concentrazioni scendono sotto il precedente valore e si iniziano a manifestare lievi infezioni a carico delle vie aeree e delle mucose; lo Stadio III prevede una conta linfocitaria minore di 350, diarrea inspiegabile protratta per oltre un mese e sintomi polmonari più gravi (fino alla tubercolosi); da ultimo si ha lo Stadio IV (AIDS), la sindrome da immunodeficienza umana propriamente detta in cui la concentrazione di linfociti si attesta a valori inferiori di 200 e in cui quindi le difese sono bassissime, tanto che l’organismo subisce l’attacco di patogeni altrimenti rari. Si ricordano, da questo punto di vista, la polmonite da Pneumocystis carinii (è un protozoo), la candidosi dell’esofago e delle basse vie respiratorie, il sarcoma di Kaposi (tumore piuttosto infrequente nella popolazione sana) e la toxoplasmosi cerebrale.
“Gavin: Tommy sapeva di avere il virus [HIV] ma non sapeva che ormai era andato.
Mark: Cosa aveva? Polmonite o cancro?
Gavin: No, toxoplasmosi. È come un infarto.
[…]
Gavin: […]Non sapeva che si poteva prendere la toxoplasmosi con la merda di gatto.
Mark: Neanche io, che cos’è?
Gavin: È una cosa orribile! È come un ascesso al cervello!
Mark: Porca vacca! E che è successo?
Gavin: Comincia ad avere questi mal di testa, così lui si fa di più per il dolore, tipo, e poi gli viene un colpo. Che colpo! All’improvviso! Torna dall’ospedale e tre settimane dopo muore. Era morto da una vita quando i vicini si sono lagnati per la puzza. Hanno chiamato la polizia per abbattere la porta. Tommy era a terra, faccia in giù nel vomito. Il gattino stava bene.”
(Da “Trainspotting”, 1996)
Gestione dell’HIV: diagnosi e trattamento
“Desidero confermare che sono sieropositivo: ho l’AIDS. Ho ritenuto opportuno tenere riservata questa informazione fino a questo momento allo scopo di proteggere la privacy di quanti mi stanno intorno. Tuttavia, è arrivato il momento che i miei amici e i miei fans di tutto il mondo conoscano la verità. Spero che tutti si uniranno a me, ai miei dottori e a quelli del mondo intero nella lotta contro questa tremenda malattia.”
(Freddie Mercury, dal comunicato stampa con cui, il 23 novembre 1991, annunciò di avere l’AIDS)
Ci sono vari step di conferma dell’avvenuta infezione: certamente la sintomatologia clinica può essere già indicativa se l’infezione è avanzata, ancora più utile può essere la testimonianza sincera del paziente di avvenuto contagio secondo le modalità sopra citate (cosa non così scontata); tuttavia gli esami più importanti sono indubbiamente quelli di laboratorio. Il test di screening del virus HIV ricerca una proteina presente sul virus (p24) e gli anticorpi prodottisi contro i due sierotipi (HIV-1 e HIV-2): la negatività a questo test esclude il contagio, a meno che l’episodio infettivo non si sia verificato meno di trenta giorni prima (è il periodo minimo per la formazione degli anticorpi); in tal caso il test deve essere ripetuto dopo qualche settimana. Nel caso in cui il test risulti positivo, si deve procedere con un test di conferma che ricerca anticorpi più specifici; tale test viene accompagnato dal dosaggio della concentrazione del virus (esame che si esegue anche per i neonati partoriti da madre sieropositiva) e dalla conta dei linfociti, in quanto ciò consente di determinare la gravità della malattia. Tutti questi aspetti sono fondamentali per impostare una terapia rapida che sia al tempo stesso mirata ed efficace. Come sopra ampiamente accennato, sono molte le soluzioni terapeutiche che la farmacologia mette a disposizione, nonostante l’attuale impossibilità di una guarigione completa: ad oggi si possono utilizzare diverse classi di farmaci ad azione antiretrovirale (ART), i quali vanno a bloccare l’azione di specifiche componenti del virus, rallentandone così l’attività ed eventualmente bloccando la degenerazione del sistema immunitario. Questi farmaci sono tanto più efficaci quanto prima la terapia viene somministrata; ovviamente gli stessi non sono privi di effetti collaterali, quindi vanno somministrati solo sotto la supervisione di uno specialista. Il trattamento viene poi completato con la terapia dei sintomi e delle complicanze della malattia, eventualmente anche col solo fine palliativo. Va poi detto che sono molte le terapie in corso di sperimentazione, che probabilmente in futuro daranno un ulteriore colpo alla malattia vincendo le incipienti resistenze ai farmaci che il virus sta dimostrando.
La situazione attuale: prevenzione e sottovalutazione
“La vera storia è che non facevo del sesso sicuro. È solo questo. È semplice.”
(Magic Johnson, a proposito della sua infezione)
Come per ogni malattia, anche per l’infezione da HIV l’arma più efficace è la prevenzione. Considerando le modalità di trasmissione citate in precedenza, risulta chiaro che la via più facile per contrarre l’infezione sia quella sessuale. Il sesso protetto rappresenta un’ottima scelta: l’utilizzo del preservativo permette di prevenire il contatto con lo sperma contaminato proteggendo inoltre dalle altre malattie sessualmente trasmissibili. La situazione può essere diversa nel caso di una relazione stabile: se entrambi i soggetti sono sieronegativi, dopo la negatività del primo test di screening (fatto per sicurezza) si può rinunciare al preservativo, sempre che non si verifichino rapporti al di fuori della relazione; in caso di partner positivo, quest’ultimo sottoponendosi ad antiretrovirali abbatte il rischio di trasmissione, fermo restando che però il preservativo rimane la difesa più efficace; se entrambi i partner sono sieropositivi, paradossalmente può esserci il rischio di una reinfezione da ceppi diversi col sesso non protetto (cosa che accelererebbe il decorso della malattia), quindi anche in quel caso risulta necessario proteggersi. Nel caso di una donna sieropositiva incinta è opportuno prendere specifiche precauzioni: somministrazione di antivirali nel primo trimestre di gravidanza, parto cesareo, allattamento artificiale. L’infezione per via ematica è molto rara, dati i numerosi controlli, mentre lo scambio di siringhe rappresenta una via di trasmissione molto meno presente che in passato.
Allo stato attuale, una novità relativamente recente è rappresentata dal PrEp: esso è farmaco costituito dalla combinazione di due antiretrovirali, preso preventivamente da soggetti che sono fortemente a rischio di contrarre il virus. Esso sta costituendo un’efficace modalità di profilassi per l’infezione da HIV, tanto da abbattere i rischi di infezione nei rapporti sessuali e nella tossicodipendenza rispettivamente del 90% e del 70%, con effetti collaterali minimi. Il vero rischio di questa utile pratica riguarda la sottovalutazione dell’infezione da HIV: l’utilizzo del PrEp ha fatto sì che si abbassasse drasticamente l’utilizzo del preservativo nelle comunità a rischio, favorendo la diffusione di altre malattie sessualmente trasmissibili e anche dell’HIV stesso, poiché dopo che si smette il farmaco ci si può dimenticare del fatto che ci si può reinfettare. Questo rischio si sovrappone ad un’altra tendenza deleteria, cioè il bugchasing: con questo termine si definisce la ricerca volontaria e spasmodica di un partner sieropositivo, con lo scopo di contrarre volontariamente l’HIV. È una moda poco conosciuta nata negli anni ’90, caratterizzati da tratti all’apparenza insensati, assurdi, decisamente deleteri: essa è in parte una condizione psichiatrica che trae le sue origini nella sfera delle pulsioni sessuali, dove il paziente non è totalmente razionale nell’assecondare questa sua pulsione giungendo a compromettere la sua salute e quella altrui. Questa condizione è anche figlia dell’ignoranza: si arriva a pensare di essere comunque al sicuro grazie alla presenza dei farmaci antiretrovirali, quando in realtà si condanna il proprio corpo a vivere con quella che, se non costantemente monitorata, ha le stesse caratteristiche di una bomba ad orologeria.
L’HIV non è dunque uno scherzo, né un qualcosa da liquidare pensando che “tanto non toccherà mai a me”: prima dei genitali, usate sempre la testa (ed evitate chi minimizza).