Dopo la prima parte dedicata al Torino Film Festival di quest’anno, terminiamo con i film restanti che abbiamo avuto l’occasione di vedere e con i film vincitori. Ormai conclusosi il festival, i gestori di questo evento culturale, grazie ad un incasso di 250.000 euro e 26.700 biglietti venduti tra pubblico e addetti ai lavori, possono confermare la sua rilevanza di primo piano tra i festival cinematografici italiani. Qualche insicurezza c’era: il numero di sale esercenti era stato ridotto, venendo a meno la disponibilità del cinema Lux, e così anche il numero di film nell’offerta del 20%. Tuttavia i risultati sono positivi e non si può che prepararsi a un altro anno di selezioni e interessanti proposte cinematografiche. Restando però sul presente, ecco gli altri film visti, che sono stati divisi nuovamente nelle sezioni entro cui sono stati presentati.
Torino 35
Si tratta della sezione ufficialmente in concorso, come spiegato in precedenza, trattante opere prime, seconde o terze di registi indipendenti.
Tra di essi c’è anche Daphne, esordio di Peter Mackie Burns. Il film si inserisce in una florida serie di studi psicologici su personaggi che abitano la modernità (qui con i contorni dell’ambiente metropolitano di Londra), insicuri su come muoversi entro essa e su come relazionarsi con gli altri, con la vita stessa e con le sue sfide, le sue ombre. Grazie al piglio dello sceneggiatore Nico Mensinga, si aderisce alla personalità irrequieta della protagonista Daphne. Quest’ultima è interpretata molto bene dall’attrice Emily Beecham, la quale infatti vince il premio come Miglior Attrice in ex-aequo con Moon Shavit di Don’t Forget Me. Daphne riflette le oscillazioni del film stesso: da una parte esso è una commedia irriverente, che alterna discussioni quotidiane a scambi di pensiero sull’amore e sulle illusioni umane correlate, dall’altra indaga con finezza su come tali illusioni siano spesso una difesa sentenziosa della protagonista, un’elusione di un disagio molto forte ma reticente. La sua precarietà è su più fronti e parla eloquentemente di una caratteristica frammentarietà contemporanea: Daphne vive alla giornata, non programma nulla, da cosa mangerà il giorno stesso al proprio futuro più immediato, vivendo di lavoretti tappa-buchi senza palesi ambizioni, e non è nemmeno un gettarsi nell’oggi entusiastico. Daphne non nasconde un certo sconforto semi-cinico, acido e che rifugge una qualsiasi stabilità amorosa, dedicandosi perlopiù a rapporti sessuali occasionali, poiché ha una profonda sfiducia verso l’affettività umana, le possibilità dell’amore di perdurare e di uscire dal carattere effimero di una prima infatuazione. Daphne non fa mistero con nessuno delle sue convinzioni e le espone con carisma, mentre lo spettatore vede alcuni personaggi che aspettano e suggeriscono un possibile risvolto, una madre che attende pazienza di essere capita nella sua scelta di abbracciare una filosofia new-age contro la caducità della mortalità umana, due uomini che, rispettivamente, sembrano saper prendere il brutto carattere della protagonista e vorrebbero, più o meno, che lei considerasse le responsabilità della vita adulta. Tuttavia sempre allo sguardo dello spettatore si rivelano le profonde incertezze della ragazza, le sue tendenze autodistruttive e confinanti con il patologico, la sottile speranza di sbagliarsi, ma allo stesso tempo la paura di gettarsi in territori traballanti, di uscire da una solitudine diventata a suo modo confortante, piegando il suo orgoglio a una maggiore benevolenza verso il fluire effettivamente così incerto della vita di ciascuno e dei passanti che la segnano, offrendo opportunità di nuovi percorsi, come scommesse al buio. Daphne è un film che non ha paura della scomodità, di sensazioni difficili e ambigue e che non ha paura di non cercare risoluzioni definitive, chiare, ma è consapevole invece che davanti agli spettri psichici così pervasivi della protagonista, non può che essere inscenato soltanto un accenno, un primo cambio di rotta. Non è una vera e propria lezione di vita impartita, una morale che coglie la protagonista lentamente e la vince, bensì è la registrazione empatica e onesta da parte di tutti i suoi creatori, compresa Emily Beecham, di una fase. Uno spaccato che, infine, sorprende per evitare manierismi, autocompiacimenti e auto-indulgenze tipiche di un’altra fetta di cinema indie, o ancora edulcorazioni patinate e stucchevoli.
Non altrettanto bene per un altro esordio, The Scope of Separation di Yue Chen, giovanissimo cineasta cinese formatosi nella scuola di cinema di Vancouver. Non siamo poi tanto lontani dall’area tematica di Daphne: un altro giovane protagonista che non sa bene che fare del proprio futuro, eludendo a sua volta gli impegni di una vita adulta, proprio al momento della svolta, ovvero del passaggio dall’adolescenza al momento di ricerca di una propria autonomia, prendendo delle prime decisioni e direzioni verso una stabilità sia personale che professionale. Anche qui alcune relazioni sentimentali sono accarezzate, come possibilità, oppure intraprese ma in quanto momenti di un tessuto vitale disimpegnato, un po’ giocoso, ma anche accidioso. Tuttavia pur proponendosi come una commedia soft, c’è poco della vivacità di Daphne: qui l’atmosfera è ben più rarefatta, lenta e auspicante a un frequente non-sensazionalismo che di nuovo caratterizza un certo cinema indipendente e molto intimista. Il confine però tra successo e fallimento è delicato, ovvero una linea sempre rischiosa tra la sottigliezza ricca di rumore sotteso e variazioni, che altrove ha trovato una sublimazione artistica, e al contrario un sostanziale vuoto pretenzioso. Qui rischia di cadere sul secondo. Seppur si abbracci un percorso di crescita e di formazione intersoggettiva, pose e ambienti interessanti – una pipa che avvolge le conversazioni dei personaggi diventa il prolungamento del protagonista, quasi affumicato dal suo stile di vita e obnubilato da essa – ci sono problemi ingombranti di sceneggiatura che sottraggono molto all’esito complessivo. A una delle proiezioni in sala, Yue Chen ha spiegato di aver voluto infondere nel proprio lavoro una propria visione della vita, ma sembra che attraverso le sue espressioni verbali, che non sono poche per un film che passa da una conversazione all’altra come molti altri del suo genere, i confronti e i monologhi poi del protagonista siano un po’ troppo semplicistici, banali, anche ingenui.
Se la voce fuori campo del protagonista di The Scope of Separation e la sua atmosfera tonale rimandavano vagamente al regista cinese Wong Kar Wai, il collegamento torna in un altro film in concorso, in maniera ancora più fattuale. Infatti il suo direttore della fotografia, Christopher Doyle, collabora con la regista Jenny Suen per The White Girl. Il suo apporto artistico è pregnante: è facile sentirsi cullati da questa fiaba malinconica, che respira del tutto con il suo paese di ambientazione, un villaggio di pescatori di vegetazione ancora affascinante e di tradizioni antiche, valorizzato come una serie di affreschi suggestivi e formante l’identità dei personaggi. Questo angolo naturale però è minacciato dall’arrivo dell’industrializzazione capitalista, attraverso il personaggio macchiettistico del sindaco, che cerca soldi facili tramutando completamente l’aspetto del luogo, per edificarci un centro turistico di tipo consumista e artificiale, che ha poco a che fare con le risorse specifiche del paese. Si allude a una geografia più vasta e simbolica, Hong Kong, che rischia di perdere le proprie radici culturali in un’industrializzazione aggressiva e anonimizzante. Ai margini inquieti del paese c’è la protagonista, chiamata “la ragazza fantasma”, “la ragazza bianca”, perché tenuta lontana dal padre dalla luce del sole, a causa di rischi per la sua salute volutamente vaghi, materia di risvolti narrativi. Suen e Doyle con un ritmo calmo e luci spesso lunari estendono sullo schermo l’abbandono della protagonista, isolata dalla comunità, ma anche i suoi aneliti a poter essere davvero parte di una canonica fiaba, una nobile principessa con un’onorevole regina madre (misteriosamente remota, assente, mai conosciuta) e di vestiario giocato tra il povero e l’elegante. Si può trattare di una collana di perle per elevarsi e allontanare l’invisibilità che la soffoca, delle cuffie sempre addosso con cui ascolta una canzone della madre, dell’intimo lievemente ricercato e ritrovato proprio dai possedimenti materni. Una solitudine, poi, incontra un’altra solitudine, quella di un giovane eremita giapponese, che approda al villaggio soggiornando in una vecchia abitazione diroccata e abbandonata. Tra i due c’è comunanza di sensazioni, ma la storia pensata per loro non va incontro a esiti poi così prevedibili, tirando invece le fila di un rapporto di aperte confessioni – un po’ troppo formulaiche e ripetitive nel caso di lei – ma con una distanza ineliminabile, che può tramutarsi perfino in un valore, a sua volta forse simbolico delle relazioni dei paesi rappresentati. Doyle e Suen forse stilizzano un discorso assai battuto, un auspicato ritorno alla tradizione rispetto alla vita urbana, in modo riduttivo, complice la cattiva caratterizzazione della parte avversa, ma emergono per l’ondeggiante atmosfera evocativa che hanno saputo costruire.
Festa mobile
Questa sezione fuori concorso offre film in prima nazionale visionati durante altri festival in giro per il mondo e ritenuti meritevoli di ulteriore diffusione.
I membri del Torino Film Festival allora hanno avuto un ottimo intuito quando hanno scelto di proiettare The Florida Project di Sean Baker, uno dei migliori film di tutta questa annata cinematografica. Quello che s’annuncia fin dalle prime scene è il rumore vitale dell’infanzia, seguito allo stesso livello visivo dai piccoli bambini protagonisti con le loro rispettive famiglie, spesso costituite da ragazze madri che si ingegnano per sbarcare il lunario con le proprie forze. Si fa avanti e indietro dalle proprie abitazioni, bilocali offerti con affitto settimanale dal motel “Magic Kingdom”. Con le sue mura viola e il suo nome, questa ambientazione sembrerebbe una versione favolistica e ironica di un quartiere popolare. In parte è così, riflettendo una più ampia prospettiva ancora candida e innocente tipica dell’infanzia, ma con una durezza sempre compresente come un contrasto di luce, una violenza e amarezza ribollenti, proprie delle difficoltà di chi è ai margini dell’economia del paese e in seria difficoltà. The Florida Project conquista in primo luogo per la vivacità con cui racconta le scorribande di questi bambini. Corre insieme a loro all’avventura, spesso trovata nel poco offerto dalle circostanze, un gelato diviso in tre, un edificio rovinato e abbandonato, rifugio probabile di tossicodipendenti, che diventa un’elettrizzante fiera di attrazioni, e ancora tante possibilità offerte dall’immaginazione vigorosa tipica di molti bambini, capaci di ritagliarsi uno spazio di fantasia, lievità e divertimento ovunque (e che diverte non di rado lo spettatore stesso). I bambini di Baker però non sono affatto angelici: rispondono a tono, imprecano con disinvoltura, mimando i propri genitori, si beffano di tutto e di tutti e spesso si gettano in situazioni a dir poco pericolose, rischiando di non riconoscere più i limiti di un convivere civile da non oltrepassare. Questo accade in particolare per la protagonista Mooney e la madre Haylee, su cui s’addensa molto del tessuto drammatico del film. Baker evita condanne e moralismi. Mooney e Haylee sono due personaggi intrattabili, in particolare la madre, ma sono tali perché la più piccola è il riflesso delle scelte della madre, e la madre in fondo non è che una ragazza giovane, ancora impreparata forse per un ruolo genitoriale, e le cui cadute sono possibili per molte donne in simili condizioni. Non ci sono buonismi, spesso facili cercando una percezione infantile su temi difficili. Invece è incredibile come si calibri un calore empatico intensissimo, fatto di luce vivida, di episodi di vita nitidi e pregnanti come i personaggi che sempre più si fanno strada nel ritmo della storia (molto bravo William Dafoe nei panni del sorvegliante Bobby), ritratti di segno marcato, con una visione amara e critica ben al di sopra di molti prodotti audiovisivi della grande industria americana. In parte è di nuovo il sogno americano a provocare stridenti contrasti. A partire dalla scenografia, per passare a una più generale frenesia consumistica che non esclude affatto i più sprovvisti di denaro, si sogna l’accesso ad attività e luoghi di grasso benessere conquistato da altri, che dovrebbe essere frutto di pari opportunità in partenza, ma non sono altro che la conferma di forti dislivelli economici, claustrofobici per i più deboli. In particolare qui si sogna (non a caso) di andare a Disneyland, terra di ulteriori miti e favole fuoriusciti dalla più famosa «fabbrica dei sogni», Hollywood. Curioso allora come si suggerisca che essa sia appena un po’ fuori dai confini spaziali del film, incrementando l’angusta cornice in cui sono gettati i protagonisti. The Florida Project commuove e pugnala ad angolo lo spettatore, ma cerca anche con l’energia dei suoi piccoli un incanto di continua, disperata rigenerazione. Si distende sul ritmo di vita dei suoi protagonisti, apparentemente ordinario, ma straordinario per la forma scoppiettante e vivificante, una pioggia di stimoli sensoriali. I colori infatti sono vivi, variegati e sono coronati una splendida fotografia lirica e dinamica, rendendo il complesso un’esperienza cinematografica di forza indelebile.
Troppo hollywoodiano invece Professor Marston & the Wonder Women di Angela Robinson. Il film si presenta furbo sin da subito nello sfruttare un brand di dominio sul mercato attuale, cioè i cinecomics. Quelle wonder women del titolo infatti rimandano proprio all’eroina dei fumetti che subito sovviene alla maggioranza, cioè Wonder Woman, senza errore. Robinson infatti recupera la singolare vita privata del suo creatore, William Moulton Marston, professore universitario di psicologia che ha avuto una relazione sessuale e amorosa a triangolo con la moglie Elizabeth (Rebecca Hall) e l’assistente e studentessa Olive Byrne, figlia della femminista Margaret Sanger. Le dinamiche appena accennate non sono uno sfondo peccaminoso bruciantesi in poco tempo, ma diventano un vero e proprio focolare di passione e affetto che durerà per il resto della vita di Marston e delle due donne, costituendo una famiglia sui generis. La storia del loro incontro e dei loro rapporti personali è condotta in parallelo con un interrogatorio a Marston da parte della morale perbenista americana, che è chiamata in causa dalle oscenità e dai contenuti sovversivi del fumetto originale Wonder Woman denunciati dai cittadini americani. Robinson ha davanti un materiale di forti potenzialità: non solo può catturare facilmente l’attenzione dei suoi contemporanei con un argomento in voga, ma al di là di facili incantamenti tratta una vita che fu davvero singolare, ardita, libera da pregiudizi e di grande sfida per tutti coloro che ancora oggi parlano di “famiglia naturale”. In parte si vedono le intenzioni: c’è il backstage della creazione di un personaggio ormai facente parte dell’immaginario americano e internazionale, ci sono le teorie socio-psicologiche di Marston sui rapporti di dominio e sottomissione che regolano le interazioni umane più recondite, c’è un vivere anche le proprie idee senza rimorsi, e ancora l’argomento della sessualità libera, ma che deve prima fare i conti con i propri timori, in una tensione costante tra una norma imposta e delle pulsioni sessuali fluide, e c’è anche un rispetto della donna non scontato, che qui è figurata come paurosa e coraggiosa insieme, passionale, specialmente è l’origine motrice di una creazione artistica ricca. Tuttavia torna una tendenza comune ad altri biopic hollywoodiani: un appianamento dell’energia del materiale a servizio di una realizzazione blanda, che non aggredisce mai gli eventi, diminuendone la reale tensione interna e planando su di essi, sfogliandoli senza un approfondimento realmente incisivo. Sembrerebbe quasi una piacevolezza effimera. Si romanza qua e là, mescolando commedia accattivante a momenti drammatici di fattura prevedibile. La sessualità diventa estetizzata, a servizio della fotogenia di attori divi, Luke Evans, Rebecca Hall e Bella Heathcotte, naturalmente molto più belli delle persone che interpretano, quasi come se si trattasse di una serie di set fotografici di Vogue. Una menzione d’onore va però a Rebecca Hall, che offre comunque un’interpretazione notevole.
After Hours
Quest’altra sezione fuori concorso ospita tutti quei film di tipo eccentrico, spesso non incasellabile in facili definizioni, che si adattano bene alle proiezioni notturne dei cinema di una volta, fuori dal pubblico vasto del giorno e pensate invece per altri spettatori, più curiosi di addentrarsi in strani territori. Una spiegazione simile, ma più dettagliata si trova nella prima parte dedicata al TFF 35.
Per ultimo abbiamo lasciato Most Beautiful Island, debutto alla regia di Ana Asensio. Il film fu già presentato al festival South by Southwest, vincendo il Gran Premio della Giuria come miglior film. L’esperienza di Ana Asensio, in partenza attrice spagnola emigrata negli Stati Uniti, qui trova un collegamento autobiografico. La protagonista infatti è Luciana, un’immigrata che – come i personaggi di The Florida Project – fa fatica a ricavare i soldi per la mera sopravvivenza, indebitandosi con affitti non pagati, rubando il cibo alla coinquilina e cercando di mantenere la calma rispetto all’umiliazione continua dei lavoretti da pochi soldi. Un giorno una sua amica, Olga, le propone di sostituirla per una notte per un lavoro su commissione. Luciana deve recarsi a una festa privata per offrire la propria “compagnia”. Non si sa altro, se non che la paga è generosa. Si tratta di una premessa che non risulta nuova, ma Asensio spicca per una prima opera artistica di atmosfere davvero inquietanti, di gestione psicologica sobria e stringente, comunicando il nervosismo della stessa protagonista. Nel momento in cui non si sa cosa aspettarsi da una festa ben strana e sempre più terrificante, l’attesa giocata sul disvelamento solletica l’immaginazione dello spettatore a cercare risposte, ipotesi, facendo emergere come un contenitore vuoto le paure del singolo. Delle immagini concrete, delle icone di paura poi sopraggiungono e sono meno sciocche di quel che può sembrare, specialmente alla luce di piani ravvicinatissimi di Asensio su di esse, che sembrano alludere a un disagio sottopelle di Luciana e altre donne di estrazione sociale simile, in cui la minaccia è uno spettro psichico e persecutore, che fuoriesce dalle mura domestiche e simboleggia la loro possibile perdita di controllo fatale. Asensio quindi confezione un film di genere con una seconda linea di indagine sociologica sull’esperienza degli immigrati nella Grande Mela, trasferendo l’inquietudine più istintiva, emotiva del thriller a un risvolto sulla dignità personale e su quali prove si è disposti ad affrontare pur di trovare le risorse per vivere. Si ritrovano ancora, poi, sullo sfondo letterale, le contraddizioni del sogno americano, su quella landa in cui ancora oggi si sbarca in cerca di fortuna, tra promessa decantata e realtà effettiva, ben più sporca e ambigua di quanto si sperava.
I vincitori
Si possono dunque tirare le fila di questo Torino Film Festival 35, che ha offerto sia film meritevoli che altri invece evitabili, ma fortunatamente continua con impegno a promuovere cultura e cercare strade nuove. Nella sera di sabato 2 dicembre sono stati annunciati anche i vincitori del concorso ufficiale. La Giuria di Torino ha premiato Don’t Forget Me di Ram Nehari come Miglior Film e il suo Nitai Gvirtz come Miglior Attore. Inoltre ha assegnato il premio per la Miglior sceneggiatura a Kiss and Cry di Chloé Mahieu e Lila Pinelli, che si prende anche una menzione speciale insieme a Lorello e Brunello di Jacopo Quadri. Si scopre poi che il film più amato dal pubblico, grazie al suo idealismo genuino, è A Voix Haute – Speak Up di Stéphane de Freitas, già commentato nel nostro primo articolo. Invece il Premio Fipresci, altrimenti detto Premio della Federazione Internazionale della Stampa Cinematografica, e avente come giuria i critici Giovanni Ottone (Italia), Marta Balaga (Finlandia) e Mehdi Abdollahzadeh (Iran) elegge a vincitore The Death of Stalin, anch’esso commentato nel primo articolo e molto apprezzato. Infine tra i premi ufficiali c’è anche il Premio Cipputi, dedicato a un film sul mondo del lavoro e dei lavoratori, che dà un ulteriore riconoscimento al già citato Lorello e Brunello, con la seguente motivazione: «Se la vita è un lungo fiume tranquillo, il documentario Lorello e Brunello di Jacopo Quadri ci permette di goderne la visuale dal volgere di una sua ansa, di guardarla scorrere nell’andamento naturale delle sue stagioni. Il regista ci ricorda un modo di intendere il lavoro che spesso la nostra civiltà urbana continua a dimenticare (e a rimuovere) e lo fa attraverso il potente ritratto di due protagonisti consapevoli del proprio ruolo, della storia che li ha preceduti e del tempo che stanno vivendo. Un film “resistente” che è al tempo stesso una testimonianza e un monito etico oggi tacitato da rivoluzioni economiche in atto, sempre più minacciose e incombenti».
Inoltre nei premi collaterali del festival c’è la Scuola Holden, il cui allievi del College di CInema assegnano il premio per la miglior sceneggiatura originale a The Death of Stalin descrivendolo come «una scorribanda sorprendente, un flusso inarrestabile, un sarcasmo affilato e, verso la fine, un retrogusto dolente. Una rivisitazione di un pezzo di storia terribile stravolta nel comico (addirittura british) e sostenuta da una sceneggiatura classicamente compatta». Anche il Premio Achille Valdata, assegnato dai lettori di Torino 7, nomina lo stesso vincitore, «per aver affrontato con ironia e cinismo una drammatica pagina di storia». Qui si possono trovare i restanti premi non ufficiali.