Nell’agosto del 2015 un fascicolo digitalizzato, ritenuto confidenziale dallo studio legale panamense Mossack Fonseca, arriva nella casella di posta elettronica di Bastian Obermayer, giornalista tedesco del Suddeutsche Zeitung. All’interno di tale fascicolo si trovano oltre undici milioni di documenti confidenziali che verranno analizzati nei mesi seguenti e pubblicati il 3 aprile su diverse testate giornalistiche di rilevanza internazionale come BBC, il Guardian, Le Monde e via dicendo: sono gli ormai celebri Panama Papers. I contenuti dell’analisi riportano come diversi personaggi appartenenti al mondo della politica, dell’alta finanza, dell’industria e dello sport hanno interagito con agenzie presenti nei paradisi fiscali in modo non sempre limpido. Dietro all’intera investigazione c’è l’ICIJ (International Consortium of Investigative Journalism), consorzio internazionale di giornalisti che conta oltre duecento elementi in oltre settanta paesi. Nel fascicolo sono presenti documenti che provano i tentativi di alcuni personaggi di nascondere parti delle proprie rendite ai paesi che dovrebbe tassarle. Quest’anno la storia si è ripetuta con quelli che passeranno alle cronache con il nome di Paradise Papers, un fascicolo di oltre tredici milioni di documenti che è finito nelle caselle di posta elettronica del Suddeutsche Zeitung e che alcuni mesi dopo è stato svelato con i risultati dell’analisi che ne è seguita.
Più della metà di questi documenti provengono da una sola società di consulenza: lo studio legale Appleby, il quale detiene anche una società di contabilità e gestione di fondi d’investimento, la Estera. L’attività di questo studio, in breve, è quella di aiutare i propri clienti (siano essi istituzioni finanziarie, grandi industrie o semplicemente persone con redditi molto elevati) ad aprire società in giurisdizioni d’oltremare caratterizzate da un’alta confidenzialità delle informazioni e da una tassazione irrisoria, specie se confrontata con quella dei paesi d’origine. Questo tipo di attività conduce inevitabilmente a contatti con personaggi dal passato non esattamente limpido e trasparente o mossi da un obiettivo non pienamente legale. Nei suoi documenti la Appleby chiamava le persone con un profilo importante sotto il punto di vista politico, militare, diplomatico o giudiziario “PEP” (Politically Exposed Person) e aveva regole confidenziali speciali nel momento in cui trattava con questa categoria di persone o con uno dei loro familiari.
I Paradise Papers si concentrano principalmente sul come la Appleby trattava con i PEP. Il registro che contiene l’intero novero di questa categoria è nei file che sono stati trafugati dai delatori: si contano oltre 150 leader ed esponenti politici di tutto il mondo che sono clienti di Appleby. Il mensile britannico del mondo della consulenza legale in ambito economico The Lawyer ha stilato un database dei principali attori di questo mondo e al suo interno non può mancare appunto Appleby, che tra i suoi clienti corporate conta giganti come Barclay’s, HSBC, Credit Suisse, Standard Chartered, Banco de Santander e via dicendo. Il gruppo ha anche vinto il premio come miglior studio off-shore del 2015 assegnato dalla stessa rivista.
La prima sede dello studio venne fondata nel 1890 sull’isola di Bermuda da Reginald Appleby, maggiore dei fucilieri dell’esercito coloniale britannico e a oggi conta oltre 450 dipendenti in dieci uffici situati in giro per il mondo: Bermuda, Isola di Man, Guernsey, Jersey, Isole Vergini britanniche, Isole Cayman, Mauritius, Seychelles, Shanghai e Hong Kong. Nell’agosto 2014 la società aveva già ricevuto un’ammonizione dall’autorità delle Isole Vergini britanniche riguardo ai controlli sulle operazioni dei propri clienti, a opinione dell’Authority condotti in maniera non precisa. Il mese seguente un registro dei clienti “ad alto rischio” interno alla società veniva aggiornato con la presenza di PEP cinesi, russi e greci e con la raccomandazione di agevolare la procedura di controllo delle credenziali. L’autorità sovrintendente alla regolazione finanziaria delle Bermuda ha mandato una lettera allo studio nel 2015 in cui esprimeva delle preoccupazioni sul come venivano condotti i controlli anti-terrorismo e anti-riciclaggio di denaro all’interno della società.
Lo studio di consulenza venne tirato al centro delle cronache anche nel 2013, quando l’allora premier britannico David Cameron iniziò una campagna per l’inclusione delle società create off-shore nei registri pubblici britannici, ivi compresi i nomi dei proprietari e le eventuali relazioni con aziende presenti sul territorio britannico. Nel 2015 Appleby chiuse l’ufficio londinese, ufficialmente perché bastavano i propri uffici a Guernsey, Jersey (situati nel Canale della Manica) e nell’Isola di Man, e i propri dipendenti avrebbero potuto viaggiare a Londra secondo necessità da queste sedi. L’anno seguente è stato chiuso anche uno degli uffici alla sede centrale bermudense. Sebbene Appleby sia uno studio legale con un forte legame con il Regno Unito e creato secondo una cultura di fare affari spiccatamente britannica, i documenti dimostrano come la maggior parte dei clienti siano statunitensi.
La reazione dello studio alla diffusione dei suoi documenti interni è stata tutto sommato contenuta, annunciando che dalle investigazioni interne non risultano problemi di alcun tipo né gestioni illegali sia dal proprio lato che da quello dei clienti. Il portavoce si è anche premurato di specificare che nemmeno loro sono infallibili nei propri controlli e nel caso avrebbero immediatamente cooperato con le autorità. Appleby era il pesce più grosso caduto nella rete, ma anche il resto dei documenti vede nomi che per gli addetti ai lavori sono quantomai interessanti, come quello di Asiaciti Trust, azienda di consulenze basata a Singapore.
Gli 1,4 TB di informazioni trafugate dai database della Appleby e delle altre società di consulenza hanno esposto una lunghissima lista di personaggi che cercano di celare i propri guadagni dall’imposizione fiscale dei paesi in cui la ricchezza è prodotta. La copertura di capitali attuata in questo modo è spesso fonte di illeciti di vario livello e serve a finanziare un sistema (quello finanziario off-shore) spesso utilizzato anche da network criminali e organizzazioni terroristiche per approvvigionarsi e riciclare denaro proveniente da attività illecite.
Individuare una definizione coerente di “paradiso finanziario” non è mai semplice in quanto le agevolazioni che possono essere concesse a privati e aziende possono variare da caso a caso, ma sostanzialmente si è concordi nel definirle delle giurisdizioni che offrono meccanismi di rientro dei capitali talmente vantaggiosi da poter essere utilizzati come luogo per poter nascondere le proprie finanze al fisco del paese che le dovrebbe tassare. Molto spesso questi paesi accompagnano a una politica fiscale riduttiva anche un’alta confidenzialità delle informazioni, rendendo spesso difficile il rintracciamento dei capitali.
Lo scandalo ha travolto varie personalità del mondo della politica, dello spettacolo, dello sport e dell’arte, rei non solo di aver nascosto i propri capitali dall’imposizione del fisco ma di averlo fatto presso istituzioni non esattamente trasparenti e accusate di favorire il finanziamento delle organizzazioni criminali e terroristiche. Il paese che maggiormente ha risentito dell’ondata di scandali è probabilmente il Regno Unito, dove nell’occhio del ciclone si sono venute a trovare la monarchia e l’aristocrazia britannica.
Michael Anthony Ashcroft, barone dell’omonima città, è un nobile con la doppia cittadinanza britannica e belizeana che ha spesso e volentieri sfruttato il suo doppio passaporto per compiere affari avvantaggiandosi dei paradisi fiscali. L’aristocratico è inoltre impegnato in politica, ha occupato un seggio alla House of Lords dal 2000 al 2015 e figura come uno dei principali donatori del Partito Conservatore che attualmente esprime il governo guidato da Teresa May, la quale ha preso le redini del paese dopo le dimissioni di Cameron seguite all’esito del referendum sulla Brexit. Il Lord è accusato dai documenti espressi di aver creato un trust a Bermuda dal valore di oltre 450 milioni di sterline le quali, per forza di cose, sono passate inosservate al fisco britannico. Non vi è nulla di strettamente illegale nell’azienda creata da Ashcroft a Bermuda, ma certamente questo rappresenta un notevole smacco per Teresa May, che ora si trova a dover portare avanti la crociata per la trasparenza finanziaria delle giurisdizioni off-shore con uno dei donatori meno limpidi del proprio paese.
Nello scandalo è stata coinvolta anche la casa regnante: il Ducato di Lancaster, che funge da tesoreria per la monarchia britannica, si è scoperto aver investito notevoli somme di denaro nei paradisi fiscali off-shore. Dieci milioni di sterline sono state ripartite tra la compagnia BrightHouse, accusata di aver compiuto transazioni finanziarie illecite, e Threshers, compagnia impegnata nel settore delle bibite di proprietà di un fondo delle Cayman poi fallita in modo fraudolento con un debito di oltre 17 milioni e mezzo di sterline verso il fisco britannico. Il capo del fondo d’investimento ha subito cercato di smarcare la monarchia dalla scelta, affermando che la scelta di dove investire è avvenuta sulla base delle consulenze ricevute.
L’intero scandalo non riguarda solo la finanza “allegra” o poco attenta alle regole imposte dai paesi dove tale ricchezza viene prodotta, ma produce considerazioni di almeno due tipi: la prima riguarda il progressivo scollamento delle élite dal popolo, una costante ormai onnipresente in molti paesi dell’Europa Occidentale che sta provocando una serie di terremoti politici destinati a mettere in pericolo la stessa Unione Europea. Dall’altro si sollevano diverse domande riguardo la liceità di determinati comportamenti riguardanti la gestione del denaro privato e la necessità di una revisione a livello globale della legislazione in materia che, date la forze in campo, si rivela quasi impossibile da attuare.