Dal 2014 all’ottobre 2017, secondo un report dell’Onu, la guerra in Ucraina conta almeno 10.200 soldati e civili morti. I feriti sono stati 25.000. Gli sfollati sono circa 1,6 milioni. Eppure spesso in Italia ci si chiede se il conflitto che ha riempito le prime pagine dei giornali tre anni fa sia ancora in corso. Sì, lo è, semplicemente ci si dimentica di parlarne.
L’origine di tutto è nell’autunno del 2013, quando la decisione dell’allora presidente ucraino Viktor Janukovich di sospendere le trattative per l’integrazione del paese con l’Unione Europea scatenò violente rivolte tra la popolazione, che si radunò nella piazza principale della capitale Kiev, a Majdan. Le rivolte proseguirono fino alla fine dell’inverno, fino alla fuga di Janukovich dall’Ucraina in febbraio e l’insediamento dell’opposizione europeista al governo.
Fin dall’inizio delle proteste, si è osservata una evidente spaccatura tra la parte occidentale e orientale del paese. Esse rappresentavano alla perfezione le due posizioni in conflitto sullo scacchiere geo-politico; l’Est filo-russo e contrario al nuovo governo del paese (Donetsk, Luhans’k e inizialmente Odessa e Charkiv), e l’Ovest filo-europeista, anti-russo e con tendenze nazionaliste (Kiev, Leopoli e in parte Dnipropetrovsk).
Il 16 marzo del 2014 la Russia, dopo un referendum non riconosciuto da UE e Nato, ha annesso la penisola della Crimea. Poche settimane dopo, manifestanti filo-russi si sono impadroniti dei palazzi governativi di alcune città dell’Ucraina orientale chiedendo un referendum per lo cambiare lo status delle proprie regioni all’interno dell’Ucraina. Kiev ha risposto con l’invio dell’esercito e l’inizio della cosiddetta Operazione Anti-Terroristica mirata a riprendere il Donbass sotto il proprio controllo.
Come spesso accade non c’è una risposta empiricamente corretta. È una guerra ibrida. Nel conflitto sono presenti molte sfumature, ma di certo Russia e Stati Uniti sono coinvolti. I secondi un po’ meno direttamente dei primi, certo. Il sostegno degli USA verso chi decide di voltare le spalle all’orso russo non può certo sorprendere; è un déjà vu che gli europei hanno spesso vissuto negli ultimi cinquant’anni.
Il coinvolgimento della Russia di Vladimir Putin è molto più netto e ambiguo. L’obiettivo della diplomazia russa, oltre a sostenere apertamente le Repubbliche Popolari di Donetsk e Luhans’k, è sempre stato quello di negare qualsiasi coinvolgimento diretto nel conflitto. Ufficialmente la Russia ha sempre negato di aiutare materialmente ed economicamente, i ribelli del Donbass. È così che gli ex-militari russi diventano “volontari”, gli aiuti ai ribelli si mascherano da convogli umanitari per i russofoni dell’est Ucraina, mentre colonne di T-90 e ZIL 131 varcano il confine dopo essersi “perse” durante un esercitazione.
Difficilmente si può parlare di guerra civile vera e propria. Le posizioni tra le due ali del paese sono sì molto diverse, ma non tali da poter parlare apertamente di scontro tra le due fazioni. Il fatto che parlino Ucraino o Russo, rispetto ad altri precedenti in questo caso non conta molto.
Sebbene ci sia una buona parte di ucraini dell’est apertamente “anti-Bandera” (così vengono chiamati in modo denigratorio gli ucraini occidentali), ce n’è una più grossa che vuole mantenere l’unità del paese, non necessariamente proseguendo l’integrazione con gli Stati Uniti e l’Europa.
La gestione russa del territorio è molto simile a quella – in passato – di altre regioni in conflitto, quali Transnistria e Abcasia. Dopo il periodo di entusiasmo all’inizio del conflitto, quando “l’insurrezione spontanea del popolo del Donbass” aveva accolto il sostegno di anti-capitalisti, anti-atlantisti, anti-americani o più semplicemente dei rossobruni di tutto il mondo, il tempo ha mostrato che:
1. Le Repubbliche Popolari di Donet’sk e Luhans’k non sono di ispirazione socialista. Anzi, è difficile delineare per il momento un’idea economica e sociale se non quella dello stato di guerra a oltranza.
2. Le insurrezioni sono state tutt’altro che spontanee (come tra l’altro quelle di Majdan, probabilmente). Non si tratta di ultimi baluardi dell’anti-imperialismo americano. Semplicemente sono le pedine di un altro imperialismo, quello di Vladimir Putin.
L’influenza russa sulle scelte e sul destino delle repubbliche appare evidente soprattutto per ciò che riguarda i vertici di comando, protagonisti di frequenti avvicendamenti e crisi di governo su volere di Mosca. L’ultima notizia è la fuga del “presidente” dell’auto-proclamata Repubblica di Luhans’k Igor Plotnitskiy a favore di Igor Kornet, dietro la quale sembra esserci lo zampino delle forze militari russe.
L’elemento del golpe fascista in Ucraina è stato da subito il punto forte della propaganda dei media russi, in particolare Russia Today e Sputnik News. La portata di notizie e informazioni che dipingono l’Ucraina come una dittatura militare di estrema destra è stata così forte da coinvolgere anche politici italiani, fino a toccare il ridicolo, come dimostra l’intervento in Parlamento della deputata del Movimento 5 Stelle Marta Grande a proposito del presunto cannibalismo dei soldati ucraini.
Il ruolo dei militanti di estrema destra del Pravij Sektor è stato tuttavia cruciale durante le manifestazioni di Majdan, soprattutto come braccio armato della rivoluzione anti-Janukovich. Per la verità, alcuni battaglioni neo-fascisti, come Azov, sono presenti anche sul campo di battaglia nel Donbass con un’influenza militare neanche tanto piccola, ma questo sembra essere un problema anche della controparte russa.
Sebbene alcune posizioni anti-russe siano presenti in parte della popolazione, specialmente nella zona di Leopoli e Ternopil, l’influenza politica dell’estrema destra è molto debole (anzi, gli argomenti della propaganda russa sono diventati una parodia anche all’interno della destra). Basta guardare alle elezioni presidenziali del 2014, con i candidati di Pravij Sektor e Svoboda Yarosh e Tyahnibok intorno all’1% delle preferenze, dietro persino al comunista Simonenko. Poco meglio alle parlamentari dello stesso anno, dove Settore Destro e Libertà (italianizzazioni di Pravij Sektor e Svoboda) hanno ottenuto 8 seggi in totale.
Il partito di governo Solidarnist’, che poi è quello del presidente Petro Poroshenko, sullo scacchiere politico si colloca a centro-destra, ed è più un partito pigliatutto (stile PD, per intenderci) che un partito ideologico (quasi per nulla). Per di più, Poroshenko ha l’estrema destra all’opposizione, per via della sua politica troppo morbida con l’invasione e i suoi conflitti di interesse.
Non sono certo mancate scelte politiche controverse, come quella di proibire il Partito Comunista Ucraino (oltre ai potenziali partiti nazisti) o ultimamente la scelta di “ucrainizzare” il sistema scolastico ucraino, accentuando così il malcontento nella parte russofona della popolazione.
Tenendo bene a mente che un nazionalismo di base si è molto accentuato tra gli ucraini negli ultimi tre anni, è comunque impossibile parlare di una estrema destra al governo in Ucraina ed è anche molto difficile parlare di un’influenza politica di rilievo, minore persino di quella nei paesi dell’Europa Occidentale.
Così come il sostegno di Vladimir Putin ai separatisti è stato sempre sotto la luce del sole, anche gli Stati Uniti sotto la presidenza di Barack Obama e la Nato hanno appoggiato il fronte filo-europeo ucraino sin dai tempi di Majdan, con la diplomazia e non solo.
Per forza di cose, quindi, l’avvicendamento alla Casa Bianca non poteva passare inosservato a Kiev. Ancora prima di insediarsi a Washington, Donald Trump ha dovuto fare i conti con una delle questioni più spinose, a maggior ragione dopo la scoperta delle interferenze russe sulla sua elezione. Inutile aggiungere che il Tycoon, come spesso ci ha abitutato, non ha mai mostrato una posizione concreta sul conflitto del Donbass fino a toccare l’incoerenza. Pare anche che se la sia legata al dito per il sostegno dell’Ucraina all’avversaria Hillary Clinton.
Nonostante questo, come spiega Balasz Jarabik ricercatore al Carnegie Endowment for International Peace «Kiev è sempre molto sensibile a qualsiasi cosa faccia la Russia e molto attenta ad assicurarsi l’appoggio occidentale. Si è seriamente preoccupata quando è stato eletto Trump, ma nonostante questa Casa Bianca mostri meno entusiasmo per l’Ucraina, gli aiuti americani non sono venuti meno».
È stato decisivo l’intervento del presidente americano lo scorso febbraio dopo la settimana infernale di Avdiivka (una quarantina di morti e missili Grad su case e campi), quando in una telefonata a Poroshenko ha rassicurato di voler lavorare con Ucraina, Russia e parti in conflitto per restaurare la pace lungo il confine. Il giorno dopo, le ostilità si sono placate e ad Avdiivka sono tornate luce, acqua e riscaldamento.
L’Unione Europea è senza dubbio la parte in gioco più indecisa, confusa e prigioniera del gioco. La debolezza sulla politica estera comune non si scopre certo ora, ma nel conflitto ucraino l’Europa poteva e doveva fare di più.
Disunita sulle scelte, l’UE continua a danneggiare se stessa prorogando le sanzioni economiche alla Russia, non aiutando nemmeno il partner ucraino.
Essa continua a chiudere gli occhi e ignorare l’evidenza: gli accordi di Minsk sottoscritti nel settembre 2014 non funzionano. Armi pesanti e aviazione non sono stati ritirati, nel Donbass si continua a sparare ogni giorno. E la discordanza sulle decisioni tra i membri persiste: Francia e Germania sono per l’appeasement, Polonia e paesi baltici sono timorose di essere le prossime vittime dell’orso russo e pressano per una linea più dura.
Spesso si dimentica anche di strigliare Kiev per i ritardi su riforme e legge elettorale, in un clima che ha riacceso le proteste a Majdan.
Paradossalmente la parte che può essere potenzialmente decisiva nella risoluzione della guerra, è anche quella più in difficoltà sulla propria politica. Senza un’Europa forte e coesa, il conflitto è destinato a rimanere congelato ancora per lungo tempo.
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