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Bandiera nazista, timori e timorati

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Riccardo Italo Scano

A ridosso dell’ormai vicina stagione elettorale, le schiere, come di consueto, si apprestano allo scontro, riorganizzano le forze e gli slogan, le false promesse e le pungenti accuse. Con animi rinnovati, eserciti di deputati, giornalisti, professori ed esperti invadono numerosi le aride piane dell’opinione pubblica, nella vana speranza di risarcire a parole le tasche dei cittadini vuotate da decenni di inconsistenza politica.

Se da un lato permane imponente la minaccia dell’astensionismo alle urne, elemento spia di un dissenso generale da parte di un pubblico disinteressato nei confronti della sua stessa sorte, ciò che più pare richiamare all’ordine le coscienze dei paladini del giusto è la lotta ai populismi, un “male” da sempre presente sulla scena delle nazioni, ora preda di nuove semantiche e, sovente, ricondotto alle radici dei pensieri tra loro più distanti.

Una breve digressione

Populismo, fonte di ogni piaga o, forse, appellativo di ogni genere e colore di opposizione. Difficile a dirsi, la storia in questo sembra aiutarci poco. Risalendo all’accezione conferitagli dall’idioma russo all’inizio del secolo scorso, il termine sembra indicare tutt’altro: l’etimo descriverebbe il ruolo carismatico e suasorio del politico intento a interagire direttamente col popolo, senza barriere e intermediari, al fine ultimo di guadagnarne la fedeltà e, conseguentemente, il consenso. Certo, una tale filosofia non esclude l’opzione di farsi culla delle più feroci proteste contro il potere, ma nulla che l’umanità abbia mancato di sperimentare in secoli di rivoluzioni e rovesciamenti.

Ad oggi, l’infame parola è portatrice di un più pesante fardello: si intende per populismo la strategia politica di un dato partito che ha per scopo l’ampliamento del proprio controllo sociale, raggiunto convogliando gli odi e le ostilità dei suoi sostenitori su di un unico ed indifendibile nemico comune. Ma allora, viene da chiedersi quale fazione possa non definirsi tale.

La linea sottile tra Populismo e Fascismo

Non c’è anomalia nell’essere faziosi, come non c’è anomalia nel voler sopraffare l’avversario politico più con l’invettiva che con una proposta. È una guerra mediatica, quasi un conflitto istituzionalizzato utile a ricompattare e ridefinire periodicamente gli schieramenti (prova di questo è il fatto che i vertici ne escano perennemente illesi lasciando che siano le masse a ricorrere ad una violenza non solo verbale). È facile tuttavia che, per i processi di reciproca demonizzazione, vengano riesumati pensieri quantomai superati, da lungo tempo sepolti e ciò nonostante funzionali al deterioramento della credibilità dell’avversario. Ecco comparire allora – di fianco al rifiuto per l’infima tattica politica – il terrore per l’anticostituzionalità, il ritorno delle antiche nemesi, il violento infrangersi di un’onda nera sugli erosi scogli della democrazia.

È una distanza breve quella che ormai intercorre tra Populismo e Fascismo nell’immaginario comune: entrambi, causa la reiterata correlazione voluta da una certa stampa, assumono le medesime biasimevoli connotazioni quali la tendenza alla xenofobia o al razzismo più in generale, senza farsi mancare qualche sporadico accenno di nostalgia nazistoide. Man mano, l’uno diviene veicolo e sintomo dell’altro fino a confondersi in un’unica matrice di sregolatezza, sciacallaggio e mediocrità. Non stupisce allora che, sulla base di canoni sfalsati, si sia raggiunto un livello di allarmismo sempre più parossistico, capace di ledere anche il cittadino più estraneo agli estremismi, reo di aver involontariamente sfiorato le corde di un tasto dolente.

La vittima del fuoco incrociato

È il 2 dicembre 2017, l’inviato Matteo Calì del giornale toscano Il Sito di Firenze riprende, inquadrando una finestra che affaccia direttamente sulla strada, una Reichskriegsflagge, bandiera di guerra del secondo Reich esposta sulla parete di una camera della caserma Baldissera, Firenze. Una pesante accusa di Nazismo ricade sul capo di un giovane carabiniere in ferma breve del VI Battaglione Toscana nonché discente della facoltà di Storia. Un’accusa ambigua, fondata su osservazioni oltremodo subdole, surrettizie e depistanti: probabilmente invidiose del successo riscosso dal masterpiece 1984 di Orwell o tutt’al più dall’immortale Fahrenheit di Bradbury, le principali testate giornalistiche hanno voluto contribuire alla formulazione di una nuova pagina nella storia del distopico, fornendoci un esempio spettacolare di “bipensiero”. A dire dei colossi della cronaca, il ventiquattrenne reatino, colpevole della suddetta affissione, nutrirebbe anche delle non trascurabili simpatie per partiti e movimenti dell’estrema destra. Lo confermerebbero, di fianco al vessillo “neonazista”, un poster raffigurante il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini che imbraccia un fucile d’assalto, e una sciarpa della squadra romana, un chiaro indice di favoreggiamento dei moti violenti che da sempre corrodono le curve di tifoseria e l’arte del pallone.

Non tardano nemmeno il tempo di una riflessione – le parole di biasimo del ministro della Difesa, Roberta Pinotti, e del ministro della Giustizia, Andrea Orlando; e con loro si schierano il fervore del deputato FI, Mariastella Gelmini che auspica addirittura «provvedimenti esemplari», lo spregio del deputato PD, Edoardo Patriarca timoroso del «ritorno dei negazionisti dell’Olocausto», e il memento del sindaco di Pisa, Marco Filippeschi ora ancor più certo della necessità della legge Fiano; non mancano poi la riluttanza del segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, il fulmineo distacco dello stesso comandante del VI battaglione, il tenete colonnello Alessandro Parisi, l’assoluto dissenso del vicepresidente del Senato, Rosa Maria Di Giorgi, e, dulcis in fundo, l’immancabile condanna morale dell’Anpi verso l’omertosa scala gerarchica – a lor dire – complice nel silenzio. A poco sono servite le delucidazioni del procuratore militare Marco De Paolis, il quale afferma che «sulla base delle informazioni che abbiamo ricevuto, non c’è nulla che faccia pensare alla violazione di una norma penale militare».

La Reichskriegsflagge, bandiera di guerra dell’esercito del secondo Reich, design del 1867, legale.

L’apologia legale

All’analisi frettolosa dei sopraccitati signori sarebbe bene contrapporre una disamina un pizzico più approfondita, uno studio che tuttavia, sulla base della sola ovvietà e perspicacia, dischiuderebbe conclusioni diametralmente opposte a quelle già elencate. L’Italia vive e sopravvive di ambiguità legali, è assodato; dunque non è interesse dell’armata di accusatori professionisti l’idea di porsi, innanzitutto, il quesito più semplice: le riprese degli interni della camera del carabiniere sono lecite? Un’antinomia geertziana quella tra privacy e giornalismo, un dilemma al quale è possibile dar risposta solo facendo affidamento sugli equilibrismi della corte di Cassazione. In base all’articolo 615 bis del codice penale, «Chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’art. 614, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni».

Se il dispositivo giuridico appare come un limpido e poco raggirabile testamento a difesa della sfera del privato, sono le sentenze ad esso successive che lasciano disorientati: con riferimento alle sentenze 40577/2008 e 18035/2012, il reato di interferenze illecite nella vita privata non ricorre qualora la parte offesa non abbia dovutamente protetto la propria dimora da occhi indiscreti per mezzo di appositi strumenti dissuasori (quali tende e persiane); pertanto, il titolare del domicilio non può recriminare nulla se le sue azioni, pur svolgendosi all’interno del suddetto, possono essere liberamente osservate dall’esterno (siamo pur sempre il paese che multa il libero cittadino per incitamento al furto, qualora dimentichi il finestrino dell’autovettura aperto). Tralasciando il fatto che questo genere di provvedimenti entri in pieno contrasto con quelli di altri tribunali (vedasi la sentenza 10409/2009), è con la sentenza 25453/2011 che sorgono i dubbi più profondi: secondo l’interpretazione della Suprema Corte, l’essenza stessa dell’articolo 615 bis risiede nel lemma avverbiale “indebitamente”, vocabolo che rammenta la necessità di un titolo giustificativo prevalente (la documentazione di un illecito ad esempio) rispetto al diritto alla riservatezza che la norma è volta a tutelare. Ma la bandiera “incriminata”, fulcro della diatriba tutta, rappresenta un illecito? Per i legali, non si tratterebbe nemmeno di una violazione dell’articolo 663 del medesimo codice (affissione abusiva di scritti o disegni).

La Kaiserliche Marine flagge, bandiera della marina imperiale tedesca, design del 1892, legale.

L’apologia culturale

Ma bando alle ciance. In fin dei conti, come ci ricorda lo stesso procuratore militare, non si sta più disquisendo di un reato, bensì di «un grande problema di natura culturale – e aggiunge – la questione è capire cosa significa un simbolo del genere e credo che ci sia da interrogarsi sulla formazione culturale dei giovani prima e dei militari poi». E per l’appunto, cosa significa un simbolo del genere? Secondo fonti affidabili – la Storia –, la già citata Reichskriegsflagge (letteralmente, “insegna bellica del Reich”) altro non è che il vessillo di guerra adoperato dall’esercito della Germania Imperiale del XIX secolo (in particolare dal 1867), successivamente modificata (1892) e nuovamente estesa alla marina come bandiera d’Arma (Kaiserliche Marine flagge, letteralmente “insegna della marina imperiale”).

Ma l’icona in questione – legalmente, ciò che c’è di più vicino alla proibita War ensign hitleriana del ’35 – viene erroneamente additata come “aberrante ed anticostituzionale” per l’uso improprio che ne viene fatto tutt’oggi dai militanti di gruppi neonazisti. Tutt’al più, come ha ricordato lo stesso imputato avvalendosi delle sue conoscenze di laureando prima e di appassionato poi, lo stendardo è definibile antinazista giacché fece da sudario funebre per il corpo dell’eroe tedesco Hans Langsdorff, comandante della corazzata Admiral Graf Spee suicidatosi a Buenos Aires nel 1939 proprio per rimarcare la sua distanza dal Nazismo.

La War ensign, il vessillo di guerra ideato dallo stesso Fuhrer, design del 1938, variante del precedente modello del 1935, illegale.

L’apologia dell’ovvio

Di qui lo spunto per un’ultima riflessione: può un’accusa fondarsi sul pensiero supposto dell’imputato? Può la gogna mediatica prescrivere la pena in base ad intuizioni trascendentali e storicamente poco accurate? Forse sì – direbbe qualcuno – basandosi magari sull’attenta osservazione delle circostanze. E cosa, di grazia, si notifica appeso di fianco al drappo “nefando”? Un poster, ma non uno qualsiasi, bensì un cartaceo raffigurante Matteo Salvini armato di mitra e di un ghigno altrettanto periglioso; per i più attenti, invece, non è che la copertina del rinomato videogame italiano Call of Salveenee: Alla ricerca dei Marò, il gioco parodico per eccellenza sul leader della Lega, un’operetta di innocuo scherno che per poco non costò a Marco Guzzo, sviluppatore del titolo, un risarcimento di 500.000 euro per danno all’immagine e diffamazione. Dunque, anche volendo trarre qualche precoce illazione, gli elementi a nostra disposizione non giocano particolarmente a favore della tesi di certi politici e funzionari.

In conclusione, alla luce del più recente accorpamento di Carabinieri e Corpo Forestale, ora che il posto di quinta forza dell’ordine resta vacante, l’auspicio è che il governo italiano non voglia introdurre una Polizia del Pensiero orwelliana con annessa installazione di teleschermi nelle abitazioni, per un sano monitoraggio quotidiano (la violazione della privacy, abbiamo appurato, è largamente tutelata). Quanto ai due minuti d’odio, invece, possiamo tranquillamente affermare che il popolo indignato, ormai ridotto a un cane di Pavlov, abbia abbaiato doverosamente contro il designato nemico della libertà e del Grande Fratello.

La copertina del titolo videoludico “Call of Salveenee: Alla ricerca dei Marò”.

Per consultare il testo dell’articolo 615 bis del codice penale (Interferenze illecite nella vita privata), cliccare qui.

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Riccardo Italo Scano

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