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Da che era Folk: come il blues divenne pop(ular)

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Antonio Di Meglio

Le puntate precedenti:
1. Mama Africa – le origini africane del blues
2. Sinful Tunes: il blues afroamericano tra ribellione e rassegnazione
3. La Guerra di Secessione, il blues dall’emancipazione alla segregazione


Negli anni successivi alla Secessione americana, nel deep south cominciò un insieme di migrazioni che coinvolsero gran parte degli afroamericani residenti negli stati ex-secessionisti, portandoli a spostarsi nei principali centri demografici degli Stati Uniti. Sul piano musicale questo portò a un cambiamento sostanziale e – per così dire – sovversivo, ovvero l’uscita del blues da una condizione musicale folk, cioè legata al mantenimento e all’espressione di una cultura “tradizionale”, e il suo ingresso nell’alveo della popular music, quindi di una musica deputata non solo all’espressione culturale ma anche a essere un prodotto vendibile in un mercato di tipo capitalistico.

Prima di addentrarsi nei fitti avvenimenti del periodo è necessario esaminare le implicazioni sociali che può avere uno spostamento di area musicale così radicale come quello dalla folk alla popular music: innanzitutto esaminiamo il punto di partenza.

La musica folk è spesso definita come “la musica delle comunità tradizionali”, ovvero di quelle comunità che fanno molto o totale affidamento sulla trasmissione orale della loro cultura, e inoltre si avvalgono di questa cultura per scandire tutti o quasi tutti i momenti della vita dei membri della comunità: come abbiamo visto, il blues e i suoi predecessori africani sono stati senz’altro dei generi folk, che scandivano i momenti della vita in Africa e quelli del lavoro, della preghiera e della fuga in America; ancor di più in America il blues divenne il modo per un popolo di difendersi dal punto di vista culturale, per quel che poteva: da qui l’invenzione del double talk, l’uso di metafore tratte dalla Bibbia e così via.

Un altro aspetto del blues come musica folk è stato senz’altro quello di essere una forma di espressione relativamente stabile, come spesso accade alle comunità tradizionali. Negli scorsi articoli abbiamo visto che anche a distanza di decenni, e in un contesto molto dinamico rispetto all’Africa, la musica nera è rimasta relativamente invariata, pur se con qualche novità degna di nota come l’integrazione tra il linguaggio sudista e quello del double talk o addirittura tra la lingua sudista e la lingua nativa degli schiavi, o infine la conversione di questi ultimi al cristianesimo.

Appurato che il blues è stato – e forse per alcuni è ancora – una musica folk, cosa significa che è entrato nell’alveo della popular music? Di certo non significa che il blues abbia perso il suo posto nella cultura afroamericana, né che sia diventato una musica deputata solo alla vendita e al consumo. Però, come già detto, il blues è entrato in un sistema di fruizione della musica basato sul capitalismo e il cambiamento c’è stato, tanto che alcuni parlano di “nascita del blues” proprio in quegli anni, mentre altri ascoltatori e studiosi più puristi usano gli anni post-Secessione come periodo finale prima della scomparsa del “vero blues”, da alcuni indicata con la morte di Robert Johnson. Una risposta netta non esiste, o perlomeno non ci si può limitare a vederne una netta, perché sarebbe come capire a metà il blues. È vero che vi fu un cambiamento radicale di area musicale, ma non lo si può descrivere come il cambiamento degli afroamericani da popolo selvaggio (folk) a popolo moderno (popular), né si può dire che il blues sia morto o abbia perso autenticità in quegli anni.

Per capire questo processo si può fare riferimento a uno analogo, capitato proprio alla musica nera: quando all’arrivo nei futuri Stati Uniti la musica folk portata dagli schiavi era già cambiata rispetto alle sue controparti folk in terra africana. In quel momento non si può certo dire che quella musica fosse la stessa musica folk suonata negli anni in cui Nord e Sud si accingevano a contrapporsi, eppure entrambe erano l’espressione genuina di un gruppo sociale in due contesti profondamente differenti.

Sulla strada per Chicago

Dopo aver appurato che lo schiavo che raccoglieva il cotone e cantava le sue worksong e Muddy Waters non sono esattamente due figure musicali immediatamente consequenziali, vediamo di analizzare il loro anello di congiunzione. Un afroamericano musicista folk, emigrato dal deep South negli anni seguenti la Secessione, come sarebbe arrivato a Chicago? Di certo non ci sarebbe arrivato per direttissima, Chicago non era ancora la città pullulante di blues che sarebbe stata negli anni di Muddy Waters e Howlin’ Wolf. Questo musicista folk in cerca di fortuna sarebbe probabilmente arrivato in una città di medie dimensioni e, dopo qualche tempo, se avesse incontrato qualche compagnia di spettacoli itinerante che gli avesse riconosciuto le doti necessarie, sarebbe entrato in quello che oggi si chiama show business.

La vita nello show business sarebbe stata molto dura per il nostro musicista folk, che sarebbe dovuto diventare un performer e non solo un cantante, e avrebbe dovuto rinnovare il suo repertorio con una certa frequenza in modo da soddisfare un pubblico che cominciava a sentire l’esigenza di nuova musica da consumare. Non sono rari gli aneddoti di (ex) musicisti folk dell’epoca che prendono in “prestito” i brani da qualche bracciante nero o musicista sconosciuto. Ma i ritmi veloci non furono l’unica novità per il musicista folk: un’altra fu senz’altro il pubblico, che non era più composto dalla propria comunità o da passanti occasionali, ed era dunque un pubblico estraneo a quella che oggi chiameremmo fidelizzazione. Da qui deriva l’attenzione di questi primi musicisti folk alle voglie del pubblico: infatti se prima non avevano neanche bisogno di analizzarlo, essendo composto da persone con cui i legami erano strettissimi, adesso il legame era quello che c’è tra compratore e venditore, e il performer folk non doveva tradire le aspettative.

L’arrivo del vinile

La situazione sopra descritta durò immutata fino al 1888/89, anno in cui Emile Berliner, inventore del disco in vinile, fondò la Columbia Records, a oggi la più antica etichetta discografica (attualmente fa parte del gruppo Sony). Con la possibilità di registrare musica in qualità per lo meno sufficiente molti musicisti folk cominciarono a mirare in alto, cioè a una diffusione popular delle loro opere, mentre altri invece si limitarono a constatare che si trattava di un’ottima opportunità di carriera.

L’anello mancante

Il musicista più rappresentativo di queste contraddizioni tra folk e popular, e insieme più osannato dal pubblico odierno, è senza dubbi Robert Johnson, citato molte volte negli articoli precedenti come esempio di artista blues di stampo ancora folk, ma di sicuro più moderno di ciò che si sarebbe potuto sentire anche pochi anni prima delle sue performance.

Su di lui c’è per prima cosa da specificare che non appartenne in nessun modo al gruppo di artisti oggi identificato con lo stile Chicago. Johnson fu a tutti gli effetti un anello intermedio tra la cultura folk delle piantagioni e la nascente popular music dello show business e dell’industria discografica.

Il folk di Robert Johnson è stato chiamato in vari modi: i suoi contemporanei lo chiamavano semplicemente blues, anche se era una denominazione usata più dal pubblico bianco, mentre gli afroamericani assimilavano il folk di Johnson a quello che ancora si cantava nelle comunità nere delle regioni rurali degli USA. Oggi invece chiamiamo il folk di Johnson “Delta blues” o “blues rurale”, in contrapposizione al “blues urbano”/”Chicago blues” che sarebbe venuto subito dopo, ma anche a marcare il folk di Johnson come l’ultima (diffusa) espressione musicale di un mondo che stava iniziando a scomparire. Bisogna anche dire che, negli anni in cui Johnson operò, Chicago era sul punto di “esplodere” dal punto di vista musicale e commerciale, tanto che tra le registrazioni dello stesso troviamo la celebre Sweet Home Chicago, probabilmente il brano blues più conosciuto di sempre.

Le caratteristiche di questo folk dai molti nomi erano le stesse (o quasi) dei suoi immediati antenati, con una differenza di sostanza e una di forma: dal punto di vista della sostanza, il folk di Robert Johnson non era esattamente lo stesso delle piantagioni, nel senso che non ne includeva tutta la varietà stilistica, al contrario era abbastanza ‘limitato’ nel linguaggio, a vantaggio però di un’efficacia senza precedenti dal punto di vista comunicativo. Dal punto di vista formale il folk di Johnson usava molti espedienti già visti, tuttavia questi erano declinati in modo alquanto bizzarro: ad esempio Johnson si serviva di molte leggende della tradizione folk ma non lo faceva per trovare un contatto con un pubblico di appartenenti alla sua stessa cultura, né usava il double talk per mascherare messaggi pericolosi, al contrario le storie usate da Johnson sono perfettamente comprensibili da chiunque e lo sono volutamente.

Johnson giocò moltissimo sulla reputazione costruita intorno alle sue canzoni e alle storie che circolavano sui suoi presunti patti col diavolo (si diceva che nel giro di un anno da chitarrista fallimentare fosse diventato abilissimo, dopo aver stretto un patto col diavolo nei pressi di un Crossroad, da cui la sua canzone Crossroad Blues) e questo fu un fattore che contribuì molto a fissare l’immagine popular di Johnson che tutti gli appassionati conoscono al giorno d’oggi.

Foto: Paul Altobelli.

Altra caratteristica singolare del blues di Johnson fu la sua marcata impronta folk dal punto di vista delle performance, ovvero la totale inadeguatezza di quel folk a poter essere usato dal vivo in modo spettacolare, come erano soliti fare altri performer folk dell’epoca: sembra infatti che Johnson si limitasse a suonare come erano soliti farlo i musicisti folk delle piantagioni, riuscendo a stupire tutti solo con la sua tecnica chitarristica, nonché con l’autenticità della sua voce.

Insomma, il folk di Johnson (e dei suoi contemporanei) non fu certo il Chicago blues di Muddy Waters: mancano gli strumenti elettrici, la frenesia e anche la spensieratezza che avrebbero avuto alcuni brani dello stile Chicago. Inoltre Johnson non fu un artista professionista come sarà per chi verrà dopo di lui, tanto che all’epoca era considerato alla stregua di un vagabondo bravo a suonare. Dall’altra parte è anche vero che il modo di esprimersi di Johnson non era folk quanto poteva esserlo quello di un bracciante nero. Johnson si può collocare a metà strada tra Chicago e il deep South, sicuramente più vicino alla prima, visto il periodo in cui è vissuto.

Bibliografia

La trasformazione del blues da musica folk a popular non è un argomento trattato interamente in un solo libro, essendo un argomento tanto generale quanto importante per la storia del genere è anche meglio così. Tuttavia ci sono libri molto interessanti e ben scritti su alcuni aspetti della questione. Per citarne solo due: Escaping the Delta: Robert Johnson and the Invention of the Blues, di Elijah Wald, racconta come la vita musicale di Johnson sia stata più una fuga dal Delta del Mississippi che non un arrivo a Chicago, mentre Blues Chicago: the Search for Authenticity in Urban Blues Clubs di David Grazian, affronta il problema di trovare qualcosa di autentico in blues radicalmente diverso da quello “tradizionale”.

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