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Loveless: la Russia qui è una terra glaciale di orfani

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Anastasia Piperno

Il regista Andrej Zvjagincev piace poco al governo russo. Già con il suo precedente film, Leviathan (2014), si era verificata una scissione tra l’apprezzamento estero e l’accoglienza in patria. L’opera infatti ebbe un grande successo internazionale, vincendo al Festival di Cannes per la miglior sceneggiatura, al Golden Globe come miglior film straniero e guadagnandosi anche una nomination agli Oscar per la stessa categoria, ma in terra madre fu proiettato in una sola sala di San Pietroburgo giusto perché potesse candidarsi per questi premi. Zvjagincev non era nuovo a questo grande e meritato favore all’estero, in quanto già il suo eccellente debutto del 2003, Il ritorno, ebbe una candidatura ai Golden Globe e vinse il Leone d’Oro alla Mostra cinematografica di Venezia. I motivi però che fanno breccia negli spettatori internazionali sono gli stessi per cui al momento di più evidente ambizione artistica di Zvjagincev, Leviathan, il governo di Putin non ha potuto che avvertire il suo non essere allineato con la propaganda del suo paese. Il Ministro della Cultura Vladimir Medinskij infatti aveva espresso la sua aspra contrarietà verso i contenuti del film, pur riconoscendo un talento registico, dal momento che non ci sono figure positive e i personaggi non rappresenterebbero alcun russo reale. Accusando Zvjagincev di odiare il suo paese e i suoi connazionali, propose anche delle linee guida per vietare film che non rispecchino la cultura nazionale. L’ultimo film del cineasta, l’ancora più pessimistico Loveless (2017), arriva di conseguenza a questi eventi. Tagliati i fondi da parte dello Stato dopo Leviathan, è stato finanziato da supporti internazionali ed è arrivato a Cannes, vincendo il Premio della Giuria. Non sorprende che di nuovo si sia verificata una situazione analoga: pluripremiato all’estero, è stato ostacolato in paese da una campagna politica avversa, ma grazie alla spinta data dal circuito dei festival è stato comunque proposto definitivamente come rappresentante della Russia ai prossimi Oscar.
Zvjagincev non smette con Loveless di scrutare nel gelo del suo paese. Al centro c’è la profonda aridità di un nucleo familiare, che sta per sfaldarsi dopo liti su liti, con il divorzio dei due coniugi Ženja e Boris. Mentre i due sono presi da sé stessi e dai loro conflitti, il figlio dodicenne Alekseij scompare improvvisamente.

L’attore Matveij Novikov interpreta il piccolo e mesto Alekseij.

Un vuoto dell’anima siderale

I bambini dei film di Zvjagincev non hanno mai un’infanzia spensierata né felice. Alekseij non fa eccezione: il suo volto così sconsolato e stanco, non adatto alla sua età anagrafica, è il risultato del disamore dei suoi genitori. Anche in Loveless, rispetto alla filmografia precedente del regista, il bambino sembra rivestire un ruolo sacrificale, figurando come vittima innocente dello sfaldamento, sia quello privato della famiglia, sia quello pubblico della società russa. Nel film, prima che scompaia, lo vediamo soltanto tre volte, quasi fulmineamente e ai margini della vita domestica, ascoltando i dissidi nient’affatto nascosti dai genitori, le loro recriminazioni reciproche e la quantità di odio che possono nutrire non solo l’uno per l’altro, ma anche verso di lui. In casa sta nella penombra, si coglie il suo viso in lacrime scrutando i riflessi di luce residui, si ha giusto il tempo di concepire la portata emotiva del suo sguardo tramite gli occhi azzurri così intensi di Matveij Novikov. In seguito, la durata del film è riempita dalla vita privata dei due genitori, prima che loro si rendano conto che è da tempo che il loro bambino non si vede, non solo ai loro occhi, ma anche a quelli dello spettatore. Rispetto alle tipiche famiglie disfunzionali che inondano il cinema d’oggi – riflettendo di certo la loro contemporaneità – quella di Loveless sembra una versione quasi apocalittica degli affetti o una sua spoliazione a grado zero. Non è di certo comune che un figlio capisca a un’età ancora infantile di non essere amato dai suoi genitori, di essere un totale incidente indesiderato non solo già nel suo concepimento, ma anche con gli effetti del tempo, dopo dodici anni di vita familiare. Tuttavia un effetto così disastroso non può che avere dietro un’articolata causa, allora Zvjagincev – autore anche della sceneggiatura insieme a Oleg Negin – sonda Ženja e Boris. Il regista confeziona il suo film più annichilente, perché pervade lo spazio, sia geografico che intimo, dell’inverno più profondo, dove i sentimenti positivi sono inesistenti o spettrali. Ženja e Boris sono due persone profondamente infelici e che sembrano provenire da famiglie a loro volta impietose, in un chiaro ciclo nero di legami ineluttabile. Assomigliano agli hollow men di T.S. Eliot, soltanto sconfessanti la loro più nuda essenza. Entrambi infatti sono impegnati nella ricerca di una felicità personale, in linea con l’avvento della politica capitalista e di individualismo portata dall’estero, dopo la caduta del comunismo, ma delle promesse di nuovi inizi, una seconda famiglia, un nuovo rapporto amoroso, sono soltanto temporanee passioni galvanizzate e scambiate per amore, che presto si slaveranno per tornare a uno status quo emotivo, poiché la sorgente di un affetto sincero è assente alla radice. Ženja vuole rimanere connessa con il mondo, è sempre con gli occhi sul cellulare, cerca infatti un rapporto autentico e pensa di trovarlo nell’amante, ma sempre più nel corso del film si comprenderà la sua incapacità sostanziale di amare, esattamente come Boris. Non di rado entrambi sono ripresi nello sgusciare via dalla casa principale, quella della prima famiglia e così di Aleskeij, per rintanarsi in quelle degli amanti, ma la luce non cambia. Il loro egoismo e disinteresse li segue come un’ombra anche nei posti in cui cercano di edificare qualcosa di diverso. La deriva inarrestabile che deteriora entrambi è colta dal regista con inquadrature lunghe, che spesso sostano sugli spazi da loro abitati anche dopo la fine di una conversazione, di una presenza umana sullo schermo, o ancora sui loro volti nel momento del silenzio successivo, amplificando l’atmosfera generale. Inoltre il direttore della fotografia Mikhail Krichman pervade il film di tonalità fredde e oscure: i personaggi sono spesso inquadrati in controluce e in ambienti poco illuminati, le scene in cui i due hanno rapporti sessuali con i rispettivi amanti sono un aggrovigliarsi di corpi in silhouette. Se in Loveless non c’è luce, è perché nel mondo ripreso non c’è salvezza.

Zenja è interpretata bene da Mar’jana Spivak.

I rami secchi della foresta

Inoltre Zvjagincev conferma la grande importanza che dà agli ambienti molto curati ed evocativi, che rivestono una precisa e doppia funzione. Da una parte sono luoghi esistenti, la vicenda di Loveless avviene a Mosca, quindi con un contesto sociale preciso e attuale, ma hanno anche una funzione simbolica di primo piano. Il film infatti inizia con un’inquadratura molto simile all’apertura di Elena: si indugia su un paesaggio invernale, su dei rami secchi, che annunciano il motivo del film, compiendo peraltro un percorso ciclico e venendo ripresentati nel durante e anche nell’inquadratura finale, caricandosi di tutto ciò che lo spettatore nel frattempo ha appreso e vissuto indirettamente nella storia. L’ambiente testimonia quindi della condizione interiore dei personaggi, e il pessimismo di Loveless ancora più esacerbato rispetto al precedente Leviathan si nota nel fatto che la neve, un biancore gelido e silenzioso, riveste il paesaggio sin dall’inizio e non soltanto nella parte finale. Non è più un punto d’approdo, ma un punto inamovibile di cui prendere soltanto coscienza, sempre se si è in grado di farlo. Gli stessi ambienti domestici sono asettici, di ordine minuzioso, un po’ come la cura e l’igiene di Ženja. Tuttavia nel momento in cui i due genitori si accorgono della scomparsa del figlio si compie anche un viaggio geografico con varie confluenze. Si tratta di un ritorno per Ženja alle proprie origini, visitando la madre dopo un contatto reciso per molto tempo, e le proprie meschinità congenite, vedendo nella madre astiosa il suo futuro. Si tratta anche di un cammino esitante, dove non si sa in realtà se si desidera davvero ritrovare Aleskeij, non si sa che cosa riservargli se si palesasse. Inoltre si cerca di capire dove si possa nascondere, scoprendo di sapere poco e niente dell’habitat che si è creato: quei rami secchi che annunciano Loveless sono gli stessi in cui si rintana Alekseij, interpretando la sua collocazione intima e orfana di un reale calore. Dai luoghi di benessere che danno lustro ai due genitori si passa invece alla periferia, ai margini in cui si è auto-relegata la nonna, ma anche nei posti più frequentati – a detta dei compagni del figlio – dal bambino, che oltre ad essere la foresta spoglia d’inverno, sono anche case abbandonate e ridotte a rovine, altra riproposizione allusiva della famiglia qui ritratta. Si indugia con lo sguardo nelle acque fredde del fiume, chiedendosi se le sue correnti non l’abbiano inghiottito, si arriva fino all’obitorio, che fa fuoriuscire scarti sociali, corpi martoriati e questa volta letteralmente senza vita. Si risveglia quindi un istinto primordiale, non del tutto raso dall’affettività dei protagonisti, che pure si mobilitano e si avventurano nel territorio russo circostante. In concomitanza con l’assenza di Alekseij in ogni luogo, si manifesta sempre più cosa davvero rappresenta la sua apparente volatilizzazione. Per un attimo arriva la scossa dell’orrore, la realizzazione delle proprie crudeltà, emerse come detriti dallo stesso ambiente esplorato. Tuttavia è una presa di coscienza a intermittenza, forse, in alternativa non in grado di portare a un atto risanatore né risolutivo verso sé stessi e gli altri.

Un residuo di collettivismo

Proprio l’esigenza di cercare però chiama più direttamente in causa l’apparato delle forze dell’ordine, verso cui Zvjagincev nutre una profonda sfiducia. Il menefreghismo che animava già i genitori e che li ha portati alla situazione in corso si riflette nelle autorità ufficiali, che liquidano il caso di scomparsa di Alekseij consigliando loro un’azione più efficace e rapida grazie al volontariato civile. Proprio in questo punto si svela forse il punto più positivo possibile di Loveless: una squadra di volontari, perfettamente esperti e organizzati, senza alcun compenso né prestigio conseguente, setaccia ogni luogo instancabilmente. In queste sentinelle sembra rivivere uno spirito di solidarietà e di collettivismo che ricorda un passato più idealistico della Russia, con cui i protagonisti si confrontano, un po’ imbarazzati, e da cui sanno di essere osservati. Infatti proprio davanti a questa squadra si consumano alcune scene di lite familiare o anche l’assenza dei familiari stessi, con Ženja che talvolta non partecipa affatto alle ricerche. Tuttavia non è un caso che questo tipo di collaborazione così solerte stia cercando un ente scomparso, sospettando sempre più di non poter trovarlo. Un senso di smarrimento investe ogni luogo senza esclusioni: non è più soltanto una desertificazione affettiva concernente la famiglia, ma anche una preoccupazione di Zvjagincev per il suo popolo. Il regista infatti partiva nella creazione di quest’opera artistica, risalente al 2012, con la lucida consapevolezza di un umore generale del suo paese, che dalle speranze ottimistiche tratte dalla riforma politica accaduta proprio in quell’anno si è svuotato progressivamente con una delusione sempre più pervasiva. In una scena ad esempio i personaggi guardano inermi il televisore, che trasmette un notiziario sull’intervento militare in Ucraina. Al crollo delle speranze infatti corrisponde un incremento dell’aggressività politica del governo vigente, una militarizzazione della società sempre più intensiva e la sensazione di essere circondati da nemici, come viene detto dallo stesso regista a Deadline. Allora Alekseij è una speranza per il futuro impallidita e a rischio di estinzione, l’inverno non è soltanto quello calato sul campione umano preso in esame, ma sulla Russia attuale. Ancora dopo Leviathan si è invischiati in una terra senza padri, esattamente come si vede nei rapporti genitoriali ricorrenti, in cui i personaggi sono abbandonati progressivamente a sé stessi, non hanno bussole concrete e annegano nei propri errori o vizi, convivono con la regione del crimine – come in Elena d’altronde – e ne sono testimoni in un più grande sistema pubblico di giustizia mancata, lontana come una chimera.

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