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I dieci migliori album internazionali del 2017

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Luigi Buono

La situazione politica globale, tra l’ennesima gaffe di Trump, la frequente sensazione di non sentirsi mai al sicuro, e l’impressione da più parti di un mondo in disfacimento continuo, ha sicuramente influito sulla produzione artistica internazionale del 2017: musicalmente, non si ricordava un anno tanto denso di album e di nomi ingombranti da un po’ di tempo a questa parte. La tendenza generale, come vedremo, è stata quella di badare alla concezione dell’album come un continuum equilibrato di brani, spesso un concept, da ascoltare per intero e non in shuffle, il che ha sicuramente prodotto lavori impegnativi, a volte talmente compatti da non avere singoli brani trainanti, album da ascoltare più volte per essere compresi a fondo. La necessità di dedicare un intero lavoro a uno o o più argomenti correlati, di fornire un fil rouge a raccolte di canzoni ha funzionato in molti casi, in altri meno (St. Vincent) o per niente (Arcade Fire). Ecco la top ten internazionale del 2017 della redazione di TheWise Magazine.

#10: A Deeper Understanding – The War On Drugs

Il sogno folk dei The War On Drugs di Adam Granduciel approda su major (Atlantic Records) e lo fa in grande stile, continuando l’opera iniziata col precedente Lost In The Dream (Secretly Canadian, 2014) e dando nuova linfa a classicissime ispirazioni eighties (due su tutti: Springsteen e Dire Straits) in salsa space-rock, tra tastiere e pad infiniti, riverberi e lunghissime code sognanti spezzate solo da rumorosi assolo di chitarra elettrica. Pur non innovando particolarmente la ricetta della band e col rischio di risultare, alla lunga, prevedibile, A Deeper Understanding mostra un livello di scrittura e una classe notevole, unita a una capacità di chiusura dei pezzi da non sottovalutare. Picchi dell’album sono Pain, con il suo crescendo trascinante, e le estatiche orchestrazioni di Strangest Thing.

#9: A Crow Looked At Me – Mount Eerie

Lo struggente messaggio di un marito rimasto vedovo e con una figlia appena nata di cui occuparsi, un cantato fragile sorretto solo da una chitarra acustica sghemba e sferragliante: Phil Elverum, voce e sopratutto uomo dietro il progetto Mount Eerie, affronta così la morte della moglie, l’artista Geneviève Castrée, deceduta per un cancro al pancreas. L’affronta partendo sconfitto in partenza, con le undici tracce di A Crow Looked At Me, il suo ottavo lavoro; tracce delicate e insieme taglienti come coltelli, sulla inarrivabile disperazione che provoca l’improvvisa morte della persona amata. Un album devastante, non sulla morte ma sulla solitudine e la paura di un futuro diverso, che con semplicità e senza il bisogno di ricorrere a particolari guizzi compositivi arriva diretto al cuore di chi lo ascolta, con gusto tragico e l’artistico e umano bisogno di esorcizzare il lutto, o quantomeno impegnarlo costruttivamente in una sequenza di note.

#8: Painted Ruins – Grizzly Bear

Prendi una delle band indie americane più in voga nei primi anni Duemila, ritrovala quasi quindici anni dopo, con lo stesso bisogno di sperimentare e di dare un certo contenuto visivo alla musica e ottieni Painted Ruins, quinta fatica degli ormai classici Grizzly Bear.  Lontani dalle cavalcate di Veckatimest (Warp, 2009), a oggi il loro lavoro migliore per intuizione stilistica e collocamento temporale, e nonostante un certo manierismo o qualche impronta “radioheadiana” di troppo, le progressioni armoniche di grande gusto, i suoni di chitarra (o chitarre tuttofare tendenti persino a sonorità synth-like) resi alla perfezione e un ritorno alla forma canzone rendono al meglio in brani come Four Cypresses o Three Rings. Painted Ruins dimostra che quando c’è la giusta ispirazione, certe formazioni non smetteranno mai di funzionare come un perfetto meccanismo. Unico difetto? A tratti sembra di tornare indietro di dieci anni, quando fare alternative significava essenzialmente creare linee di basso enormi su cui dipingere arpeggi eterei.

#7: Flower Boy – Tyler, The Creator

Scum Fuck, Flower Boy: le due anime dell’album, le due personalità dell’autore; da un lato il Tyler scorretto e violento, volgare e iconoclasta, e dall’altro il ragazzo insicuro, per la quarta fatica di Tyler, The Creator. Una chiara concezione di fondo e ospitate importanti e ben sfruttate (Frank Ocean su tutte) rendono brani come l’iniziale Foreword, la personalissima Where This Flower Blooms o 911/Mr Lonely delle piccole perle, tra strofe incastrate chirurgicamente e un sound morbidissimo che quasi stride con la solitudine e il malessere dilagante nei testi. Flower Boy è una dichiarazione personale, il picco della carriera di Tyler e un tentativo da parte dello stesso di mettere a nudo le proprie insicurezze, tanto nascoste nei precedenti, incazzatissimi lavori, e al tempo stesso l’ennesima, buffa e sconclusionata occasione di fare, ironicamente o meno, il duro, tra supercar e donnine.

#6: American Dream – LCD Soundsystem

28 luglio 2017: gli Arcade Fire fanno uscire Everything Now (Columbia Records), un concept tragico-ironico sulla società statunitense dalle forti ispirazioni eurodance e funk. L’album, vuoi per una effettiva mancanza di mordente, vuoi per una campagna stampa irritante, finisce quasi immediatamente tra i flop dell’anno, unica macchia in una discografia quasi perfetta. Risulta paradossale come, due mesi dopo, casualmente, American Dream degli LCD Soundsystem si ponga sulle stesse basi melodiche e tematiche risultando, invece, un piccolo capolavoro. La band dell’instancabile e nervoso James Murphy, fresco dell’esperienza tragica e totalizzante come produttore per Blackstar di David Bowie, plasma le ispirazioni punk, dance e new wave e le piega al proprio volere come solo i grandi sanno fare, regalandoci un prodotto fresco, compatto, disturbante. Il canto del cigno per una band ferma dal 2011 che, tra stress da palco e bisogno di riservatezza del suddetto Murphy, rischiava di non regalarci più lavori simili.

#5: Sleep Well Beast – The National

Reinventarsi rimanendo sé stessi: l’eterna sfida di chi bazzica in quel crocevia tra pop da classifica e folk ricercato che è la scena alternative americana. Fautori di una fortunata fusione tra sonorità classiche e cantautoriali, eleganti tonalità new wave nel puro spirito newyorkese e spunti moderni e originali, e forti di un passato composto da una cinquina di album consecutivi di una certa rilevanza, i National sembrano essere riusciti nell’intento con Sleep Well Beast, un album che osa con l’introduzione in contemporanea di glaciali ed efficaci basi sintetiche (Walk It Back, Empire Line, Guilty Party) e svolte lisergiche chiaramente figlie delle chitarre dei Grateful Dead (Day I Die, il singolo The System Only Sleeps In Total Darkness, Turtleneck), e un cantato, quello del sempre lodato Matt Berninger, mai così cupo e fragile. Sleep Well Beast è un viaggio in auto di notte tra vezzi compositivi, matrimoni che si sfasciano rumorosamente e passioni da (non) mettere a tacere.

#4: The Ooz – King Krule

Lontano eppure figlio degli scheletrici arrangiamenti del primo 6 Feet Beneath The Moon (True Panthers Sound, 2012), il notturno The Ooz prosegue l’inarrestabile ascesa del rosso King Krule e dei suoi altri svariati moniker in un formato inusuale. Elettronica, ambient, riff tex-mex, raffinate pulsazioni jazz, schitarrate liberatorie à la Pixies danno nuova linfa alla voce di King Krule in ben 19 tracce che sembrano, un passo alla volta, sempre più lontane da quell’abbaiare rabbioso e british degli esordi e sempre più vicine a una ricercatezza sonora che trascende ogni genere, prima di essere affogata nel tipico riverbero che avvolge e lega ogni traccia del lavoro. Un album a tratti anticommerciale, privo com’è di singoli brani potenti e trascinanti (a esclusione di The Locomotive, Emergency Blimp, e l’arcticmonkeys-iana Half Man Half Shark), e zeppo di intermezzi parlati, droni strumentali e dille commoventi parti di fiati e tastiere, ma al contempo con un flusso e una compattezza degni di vecchi classici. Il guitar sound del nuovo millennio, da ascoltare sempre dall’inizio alla fine.

#3: DAMN-Kendrick Lamar

«Ti farò male più di un colpo di pistola», cantavano i Subsonica quasi vent’anni fa. Nel 2017 Kendrick Lamar, ormai nell’olimpo dell’hip-hop grazie a quell’opera monumentale e fusion che è To Pimp A Butterfly (Interscope, 2015), parte da uno spunto simile. «You’ve lost something, you’ve lost your life»: Kendrick si fa ammazzare nella prima traccia, BLOOD, e da tali basi cupe e pulp parte per un viaggio denso di allegorie, beat ammalianti e sensazioni old school declinate verso il sound moderno. Il flow del rapper di Compton è come sempre preciso, pulito e riconoscibile al primo ascolto, ma persino più diretto e potente del solito, tanto da portare con facilità DAMN sopra il livello medio della produzione rap attuale. Tra religione, emarginazione, politica e peccati capitali, pezzi esaltati, iconoclasti e intensi (DNA, FEEL) o dal morbido incedere soul (PRIDE), ospitate di livello (James Blake, Zacari, U2, Kamasi Washington, Thundercat) e (pochi, ma brutti) scivoloni come le banali LOYALTY (con Rihanna in veste di vocalist) e HUMBLE, Lamar non sbaglia quando innova, ma sa farsi valere alla grande anche quando resta su binari più ortodossi.

#2: Melodrama – Lorde

Giungere alla maturità artistica al secondo album, a ventuno anni e con un lavoro che parla di party selvaggi e relazioni che finiscono. Sembra impossibile, eppure Lorde ce l’ha fatta: Melodrama è un’opera ambiziosa, curatissima, intima eppure diretta come un pugno in faccia. I temi emozionali sopracitati, abusati quasi oltre ogni limite nella musica da classifica di oggi, diventano un collegamento pop verso un viaggio interiore in cui l’artista neozelandese va a costruire l’intera storia di una persona che cresce, tra illusioni, disillusioni, frasi sussurrate e urla liberatorie. Gli arrangiamenti minimali e sempre adattissimi (della stessa cantante e del produttore Jack Antonoff), dal pianoforte house del primo singolo Green Light alle chitarre eighties e ai synth in crescendo di The Louvre, fanno il resto e vanno a creare una base enorme su cui la voce di Lorde può liberarsi. Una voce che, pur cadendo ancora nei soliti clichè della cantante moderna sempre a metà strada tra rappato e cantato, sa emozionare e donare più livelli di lettura a un album per tutte le stagioni. Il definitivo superamento dell’adolescenza in musica.

#1: Drunk – Thundercat

La grande rivelazione dell’anno sono le intricate linee di basso di Stephen Bruner, da turnista e produttore di lusso (suo lo zampino in molte delle migliori produzioni neosoul e hip-hop degli ultimi anni: da Erykah Badu a Kimbra, passando per l’immenso lavoro svolto con Kendrick Lamar, Flying Lotus e Kamasi Washington in quella che da molti è stata definita la nuova frontiera del jazz), ad artista a tutto tondoDrunk è l’album della maturità per Thundercat, che dopo gli imperfetti The Golden Age Of Apocalypse e Apocalypse arriva a un sound granitico e definitivo, fatto di falsetti, sbronze, insegne al neon, partiture intricate e indescrivibili, sample di Kendrick Lamar che incontrano SFX di Super Mariogood vibes, funk da dancefloor e persino ballad strappamutande con l’ospitata di due vecchie glorie del soul bianco quali Kenny Loggins e Michael McDonald (Show You The Way), perfettamente a proprio agio tra altri pezzi da novanta più coatti quali Pharrell Williams e Wiz Khalifa. Un viaggio allucinato tra malesseri e ragazze disinibite, tra intenti pop e tecnica stellare. Cosa volere di più?

Un ringraziamento a Vittorio Comand e Daniele Mancini per il contributo alla stesura della classifica.

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Luigi Buono

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