Nel corso della gran parte della storia bellica, dalla battaglia di Megiddo (1479 a.C., data della prima battaglia documentata) sino ad oggi, i civili hanno dovuto affrontare principalmente le conseguenze indirette dei conflitti: carestie dovute al prelievo forzoso dei raccolti, razzie degli invasori per ottenere risorse e via dicendo. La maggior parte degli storici è concorde nell’individuare nella guerra civile americana il punto di svolta nel modo di gestire i civili in un conflitto, che per la prima volta diventano un obiettivo militare da colpire: le città diventavano ripari per i soldati avversari e andavano rase al suolo a colpi di cannone, mentre le zone produttive costituivano un importante infrastruttura nemica da distruggere (con gli operai all’interno) per comprometterne la capacità combattiva. Ecco che obiettivo bellico non sono più gli eserciti avversari ma le stesse infrastrutture civili. L’estremizzazione di tale concetto strategico si vede nelle guerre di oggi dove spesso chi combatte non indossa più un’uniforme ma abiti normali e diventa molto più difficile capire chi è chi. Un esempio che funge bene da caso scolastico è lo Yemen, dove da diversi anni infuria una guerra civile che rappresenta un altro capitolo del conflitto sotterraneo tra Arabia Saudita e Iran.
In loco l’Arabia Saudita sta conducendo una lunga e complessa operazione composta prevalentemente di bombardamenti mirati (quindi con un intervento “stivali sul terreno” ridotto o assente) sulle aree controllate dai ribelli sciiti Houthi supportati da Teheran. Questi ultimi non stanno rivolgendo i propri sforzi solo ed esclusivamente all’interno dello Yemen, ma hanno cercato anche di colpire direttamente Riyad con missili a testata convenzionale, poi rivelatisi prodotti in Iran. Per cercare di porre un freno al conflitto il Parlamento dell’Unione Europea a settembre 2017 ha prodotto una risoluzione (la 2017/2849(RSP)) nella quale, al punto 11, si intima lo stop delle cessioni di armi all’Arabia Saudita. Il recepimento della direttiva in Italia è stato difficoltoso, complice anche l’approssimarsi della fine della legislatura.
Un tentativo di fermare gli scambi verso l’Arabia Saudita era già stato fatto con la convenzione sul commercio di armi leggere (ATT – Arms Trade Treaty) adottata in sede europea nel 2013: essa poneva già fuori legge l’Italia, in quanto vietava l’esportazione di risorse militari in luoghi di violazione dei diritti umani. A luglio 2017 sono stati presentati due atti parlamentari, uno di Emanuela Corda (Movimento 5 Stelle) e uno di Giulio Marcon (Sinistra Italiana – Possibile) in cui si richiedeva uno stop al commercio delle armi verso Riyad. Il voto è stato continuamente rinviato sino a giungere al 19 settembre, giorno della decisione finale, durante il quale le altre forze parlamentari hanno presentato proposte diverse sia nella sostanza che nella conclusione: queste ultime non menzionavano un embargo, ma una decisione da prendersi a livello internazionale. Il governo italiano ha inoltre approvato un decreto legislativo che ratificava quanto scritto nella risoluzione europea ma nel quale, al primo comma del secondo articolo, veniva specificato che questo non si applicava al materiale di armamento né ai prodotti a duplice uso appositamente sviluppati o progettati per l’uso militare. L’embargo quindi finiva per riguardare categorie ristrette di beni e diventava, quindi, inutile.
Respinte le due mozioni del Movimento 5 Stelle e di Sinistra Italiana, il commercio è proseguito indisturbato. A metà dicembre, tuttavia, il New York Times fa riesplodere la questione portando a galla un affare quantificato in oltre 440 milioni di Euro articolato in 45 licenze di vendita (solo nel 2016) tra Riyad e RMW, stabilimento sardo di proprietà del colosso tedesco Rheinmetall con sede a Domusnovas, in provincia di Carbonia-Iglesias. Le licenze di vendita sono permessi con i quali il governo ospitante autorizza la cessione di armamenti a un attore terzo, quindi gli scambi di cui sopra sono avvenuti con il benestare del governo.
Gli oggetti delle forniture appartengono tutte ad una tipologia di bomba in particolare, quelle della serie Mark 80, ideata nel 1946 da Ed Heinemann della Douglas Aircraft. Originariamente è stata prodotta in quattro misure diverse: la Mark 81 da 250 libbre, la Mark 82 da 500 libbre, la Mark 83 da 1000 libbre e la Mark 84 da 2000 libbre. La prima di queste (detta firecracker, petardo) sperimentò un periodo di ritiro dopo il suo pessimo rendimento dimostrato nella guerra del Vietnam; tornò prepotentemente in auge con l’avvento dei sistemi di teleguida laser e i kit per le c.d. “bombe intelligenti”, fornendo a tale modello il compito di distruggere un determinato obiettivo riducendo al contempo i danni collaterali. Su questa tipologia di bombe è possibile inoltre montare tutta una serie di accessori come ritardanti (usati nei raid a bassa quota per impedire che l’aereo venga coinvolto nell’esplosione), sistemi di teleguida e via dicendo. L’esplosivo all’interno dell’ordigno si aggira tra il 30 e il 40% del suo peso e per i paesi NATO (quindi anche per le bombe prodotte nello stabilimento di Domusnovas) la composizione dello stesso è a base di Tritonal (una miscela all’80% di trinitrotoluene e al 20% di polvere d’alluminio). Sono armamenti che non hanno mai avuto un’innovazione perché semplicemente non ne hanno bisogno data l’immediatezza del proprio compito e la semplicità d’utilizzo. Non a caso queste bombe sono anche denominate con la sigla GP, General Purpose.
L’utilizzo di tali ordigni nel contesto yemenita è rivolto principalmente contro obiettivi militari, ma i casi e gli episodi in cui queste sono state utilizzate contro i civili non mancano: uno su tutti il bombardamento di piazza Tahrir a Sana’a, utilizzata dai ribelli Houthi come luogo per le pubbliche esecuzioni, che ha provocato diverse morti civili. In un altro caso, le bombe prodotte a Domusnovas, contraddistinte dal codice A4447, sono state rinvenute sulla scena dei bombardamenti condotti dall’aviazione saudita nel distretto di Al Hada e a Der Al Hajari, presso il distretto di Hodeida. Stime dell’ONU dicono che il record è stato raggiunto il 28 dicembre con 68 civili uccisi dai raid arabi in un solo giorno.
Il bombardamento indiscriminato di aree civili costituisce indubbiamente una violazione dei diritti umani che si è resa necessaria per l’Arabia Saudita nel momento in cui i ribelli Houthi hanno iniziato a occupare città via via più rilevanti, finendo con l’occupare la capitale Sana’a per poi allearsi con l’ex presidente Saleh. A novembre, al deteriorarsi dei rapporti tra questo e i ribelli sciiti, questi hanno attaccato il corteo su cui viaggiava l’ex capo di stato dello Yemen e l’hanno ucciso, complicando ulteriormente lo scenario yemenita che ora vede coinvolte almeno cinque fazioni in un tutti contro tutti dove gli uomini dell’ex presidente combattono contro gli Houthi, gli effettivi dell’esercito regolare fedeli al presidente Hadi, AQAP (Al Qaeda in the Arabian Peninsula) e la filiale locale dello Stato Islamico.
Al momento gli Houthi controllano ancora Sana’a e vaste porzioni del confine con l’Arabia Saudita dal quale lanciano offensive verso il territorio saudita con missili o con attività di cecchinaggio o di tiro sui checkpoint di confine. Gli uomini di Al Hadi hanno invece spostato la capitale ad Aden e si spartiscono il controllo delle aree orientali del paese con le due fazioni islamiste. Il bombardamento di determinate zone focali (come Taiz bombardata il 5 e il 6 gennaio con un totale di 110 morti solo tra i civili) fa pensare a una probabile offensiva verso gli Houthi nei prossimi giorni da parte delle forze del governo legittimo.
Prima ancora che una guerra difensiva per Riyad questo è un conflitto per l’egemonia sull’intera area del Medio Oriente: le vicende del Libano (le dimissioni di Hariri per smascherare le attività di Hezbollah), la guerra in Siria, la crisi diplomatica qatariota e il conflitto civile in Libia costituiscono tutti un tassello di un conflitto più ampio che vede come principali protagonisti Arabia Saudita e Iran, seppur con una Turchia che funge da spettatore interessato. L’attività italiana di esportazione delle armi afferisce a un tipo di politica di scuola estremamente realista, che mira ad anteporre l’alleanza con gli arabi alla tutela dei diritti umani nell’ottica di tenere una porta privilegiata aperta verso l’area medio orientale e un accesso alle risorse che questo contiene.