Si è fatto un gran parlare nei giorni scorsi di un sondaggio, commissionato dall’Huffington Post all’Istituto Ixè di Trieste, in cui si analizzavano le intenzioni di voto divise per fasce di età in vista delle elezioni politiche del prossimo 4 marzo. I risultati, nemmeno troppo sorprendenti se vogliamo, evidenziano un’incredibile affermazione del M5S tra i giovani o cosiddetti tali, con punte di consenso vicine al 50% nel range 35-44. Il partito (perché sì, che piaccia o no, ormai quello che si ostina a chiamarsi MoVimento in realtà è diventato un partito) di Beppe Grillo è quindi pronto a un plebiscito popolare? Non esattamente, vediamo perché.
Innanzitutto, partiamo dal campione analizzato e dal metodo di raccolta dati. Abbiamo contattato direttamente il responsabile di Ixè Alex Buriani che ci ha risposto fornendoci le numeriche del sondaggio: si tratta di 1000 interviste realizzate tra il 18 e il 20 dicembre scorsi con metodi CATI/CAMI/CAWI, ovvero rispondendo a domande poste tramite telefono fisso, mobile e internet a soggetti che avevano preventivamente fornito la disponibilità a rispondere (quindi, per essere chiari, nessuno è stato fermato per strada con domande a bruciapelo). A queste 1000 risposte sono state aggiunte altre 4000 interviste raccolte tra novembre e dicembre per avere un termine di paragone ed evidenziare le variazioni del dato tendenziale rispetto alle varie fasce d’età. Un po’ poco per gridare al consenso assoluto. Certo, si tratta sempre di sondaggi che, per loro stessa definizione, non rappresentano l’interezza della forza voto ma vogliono solo dare un’idea del pensiero e delle tendenze al momento preponderanti. Tuttavia, la stampa “popolare” ha voluto cavalcare questi risultati lanciandosi in titoli che attribuivano certezza di risultati bulgari ai Cinque Stelle per “colpa” o “merito” proprio dei giovani, tanto che persino il prestigioso The Economist ha voluto dedicare un pezzo al fenomeno. La domanda che sorge spontanea guardando questi dati, piuttosto, è un’altra: come mai il M5S ha tutto questo appeal sui cosiddetti nativi digitali?
La prima risposta e forse la più ovvia deriva dalla padronanza che i figli spirituali di Gianroberto Casaleggio hanno sempre dimostrato di avere nei confronti di Internet. Se da una parte i vecchi dinosauri della politica faticavano persino ad usare uno smartphone e un account Gmail, dall’altra la truppa pentastellata agiva dal basso coordinandosi in una sorta di deep web composto da una rete di siti e blog che hanno costruito, letteralmente, il pensiero, il manifesto, il programma, le regole e il codice di comportamento del nuovo soggetto politico e hanno conferito l’autorità nelle mani delle figure di riferimento. Nel M5S tutto è nato (e molto è morto) su Internet, di conseguenza gran parte del potere e delle decisioni sono passate e passano attraverso le mani di chi ha padronanza del mezzo. Certamente la Casaleggio & Associati, dove bisogna dare merito a Gianroberto prima e a Davide poi di essersi circondati di tecnici capaci e preparati, si è dimostrata in grado di creare veri e propri “mostri” digitali dal nulla e con mezzi relativamente semplici. Inutile girarci intorno: tutto questo non ha fatto che raccogliere consensi nel popolo che sulla Rete praticamente vive, tanto da annullare le differenze tra virtuale e reale, quindi i ragazzi. I metodi utilizzati per costruire questo consenso sono tipici di una campagna di marketing ben strutturata: pochissimi contenuti, grafiche immediate e accattivanti, slogan fatti di concetti semplici da capire e assimilare, fake news che parlano alla “pancia”, captatio benevolentiae e, forse soprattutto, il concetto di includere il cittadino, laddove finora la politica italiana si è dimostrata in larga parte insensibile ai bisogni popolari e alienata dalla realtà. Peccato che in questo caso non si debba vendere un cioccolatino o una macchina, ma governare un Paese.
A tutto questo aggiungiamo un’infornata senza precedenti di facce nuove, ovvero persone che mai si erano interessate o avevano prestato il volto a campagne politiche prima d’ora, pronte a impegnarsi in prima linea. Età media bassissima, istruzione non sempre di prim’ordine, piglio arrembante e atteggiamento easy, i candidati grillini hanno invaso le liste italiane di ogni ordine e grado, portandosi dietro un carico di entusiasmo e di coinvolgimento come da tempi non se ne vedeva (uno di loro lo abbiamo anche intervistato). Probabilmente è stata proprio questa la chiave di volta: introdurre nell’asfittico panorama politico italiano una ventata di novità, capace di spazzare via facce e concetti sopravvissuti addirittura al terremoto di Tangentopoli. Questo ha portato a una facile identificazione nei “magnifici ragazzi”, eletti a liberatori del popolo oppresso. Un concetto un po’ da illuministi ai tempi della Rivoluzione Francese, se vogliamo, non a caso ripreso nel nome del portale interamente made in Casaleggio che gestisce in toto vita, morte e miracoli del MoVimento e del suo elettorato (il vituperato e non tanto trasparente Rousseau). Tutto bello, o quasi. I dati usciti dalle ultime consultazioni elettorali in Italia (dati veri, quindi, non proiezioni, sondaggi o intenzioni) parlano del “partito del non-voto” come del vero vincitore ed è tipicamente tra i giovani che si attesta la più alta percentuale di astensionismo. Disinteresse, ignoranza, problemi percepiti come distanti da sé o non importanti, diverse possono essere le motivazioni, ma sta di fatto che convincere un ragazzo a votare è assai più difficile che portare al seggio un suo genitore o nonno. Inoltre, i neodiciottenni possono votare solo per la Camera dei Deputati. La maggioranza al Senato, quindi, è tutta da vedere.
Ecco, i genitori e i nonni. Chi sono gli anti-MoVimento, coloro che dovrebbero in teoria arginare la deriva qualunquista e populista opponendo un voto più ragionato e responsabile? Innanzitutto, persone con una certa dimestichezza politica. Non si può negare che avere più di qualche primavera sulle spalle porti a una maggiore consapevolezza e diffidenza verso le “sirene” che puntano solo a confondere e ammaliare. Poi, più pragmatici. I proclami del MoVimento risultano a volte talmente utopistici e inattuabili da diventare comici e difficilmente una persona di esperienza sarebbe portato a dare credito a complotti, gaffes e voltafaccia clamorosi assortiti. Senza voler scomodare il discorso cultura (non sarebbe giusto, in fondo, visto che tra i sostenitori del M5S troviamo diversi docenti di ogni ordine e grado, laureati, personalità più o meno in vista che sono genuinamente convinti della loro scelta), sembra essere proprio l’esperienza la qualità che manca nei candidati grillini e che maggiormente sarebbe richiesta in tempi non certo semplici come quelli che stiamo attraversando. Peccato, però, che per una larga fetta della popolazione esperienza sia sinonimo di disonestà: ecco scendere in campo i delusi, che rappresentano l’altra grande fetta di elettorato di Di Maio e compagnia, ma che sembrano anche essere più sensibili al mutare opinione o al lasciarsi cullare dall’astensionismo.
Ci avviamo a essere la prima nazione al mondo governata da un’agenzia di comunicazione, dunque? Forse, ma non necessariamente. Quello che appare già certo è che vivremo una campagna elettorale binaria, del tipo MoVimento contro tutti. La necessità di fermare il M5S e non perdere consensi ha già visto la nascita di coalizioni che fino a ieri sembravano solo fantapolitica e l’aggressività di un ritrovato Silvio Berlusconi e una galassia di neonati partiti di centro-sinistra potrebbero costituire un colpo di scena in una tornata elettorale che per molti è copione già scritto. La cosa certa è che fino al 4 marzo la strada è ancora lunga e ne vedremo delle belle.