Vedere il confine, ma non poterlo attraversare. Sono al massimo 44 i chilometri che separano le coste del Marocco della Spagna. Oltre quattro volte in meno della distanza tra la Libia e l’isola di Lampedusa, una delle vie marittime più battute dai migranti. Eppure, perché si sente parlare solo dei migranti che partono dalle coste libiche verso l’Italia e mai da quelle marocchine verso la Spagna? In realtà quest’ultimo fenomeno esiste e, purtroppo, non è neppure da sottovalutare. Il Marocco infatti, da sempre conosciuto come un Paese di emigrazione, negli ultimi decenni sta cambiando il suo profilo migratorio. Non solo sta diventando un Paese dove i migranti decidono di restare, ma, a partire dalla metà degli anni novanta, è diventato un punto di passaggio per persone provenienti dal Medio Oriente, da zone del Nord Africa, e soprattutto dall’area subsahariana che vogliono andare nel Vecchio Continente. La maggior parte di loro segue tratte specifiche, attraverso la Mauritania, o il Niger, o i confini con l’Algeria, vicino la città marocchina di Oujda. La loro idea iniziale è di attraversare il Marocco e continuare il loro viaggio in Europa, una volta scampato il pericolo di essere arrestati dalle autorità marocchine, attraverso le enclave spagnole di Ceuta e Melilla. Il numero di migranti che usa queste rotte è aumentato da 5.003 nel 2010 a 10.231 nel 2016, attribuendo così al Marocco un ruolo chiave come luogo di transito.
Ceuta e Melilla sono due enclave spagnole nel territorio marocchino, distanti in linea d’area 225 chilometri l’una dall’altra. Da antiche fortezze portoghesi cedute alla Spagna nel XVII secolo e rivendicate ancora oggi dal Marocco sulla base delle frontiere naturali, rappresentano uno dei punti privilegiati dei migranti africani per entrare in Europa. Tuttavia, per farlo, molti di loro sono costretti ad arrampicarsi sulle recinzioni che proteggono la frontiera. Le barriere di separazione, costituite da filo spinato, sono state iniziate alla fine degli anni ’90, finanziate da un budget di trenta milioni di euro pagato dalla Comunità Europea. La frontiera è costituita da un recinto alto tre metri, lungo otto chilometri a Ceuta e dodici a Melilla, che circonda il territorio delle due città e le confina dalle città marocchine e dalle sue montagne. Vi sono posti di vigilanza alternati e camminamenti per il passaggio di veicoli adibiti alla sicurezza. Inizialmente formata da un solo recinto, nel 2005 è stata ampliata con un altro recinto in parallelo, alto sei metri, e nel 2007 ne è stato aggiunto un altro ancora tra i primi due, di un’altezza tre metri. Infine, una quarta barriera è stata eretta nel 2014 e rinforzata nel 2015 con filo spinato. I muri separano da un lato la gendarmeria marocchina, dall’altro le autorità spagnole, tra le quali la Guardia Civile spagnola, che ha il compito di vigilare il transito alla frontiera. Non è facile saltare le recinzioni, soprattutto senza rimanere imprigionati tra i reticolati ed essere catturati poi dalla polizia. Non è altrettanto facile sfuggire ai controlli, in particolar modo a quelli dei poliziotti marocchini che organizzano spesso retate nelle regioni vicino alle enclave, principalmente intorno a Nador, Tangeri e nel bosco di Gourougou, dove in molti vivono in accampamenti improvvisati, in attesa del momento giusto per tentare l’assalto alla frontiera. Infatti, molti migranti hanno provato più e più volte a saltarla, soprattutto di notte per essere meno visibili, prima di riuscirci effettivamente, dal momento che cinque minuti di esitazione possono essere fatali per il buon esito della fuga. Anche quando vi riescono, ad attendere i migranti vi è però un’altra barriera, questa volta naturale: il mare. Infatti, la maggior parte di loro, soprattutto se proveniente dall’aerea subsahariana, non sa nuotare.
Il problema principale, una volta superato il filo spinato e toccato il suolo spagnolo, è raggiungere effettivamente la Spagna. Infatti, i trasferimenti dalle enclave alla penisola spagnola non sono regolati da un quadro legislativo, con la conseguenza che i migranti che vi arrivano finiscono per aspettare rinchiusi, per un tempo indefinito e solitamente molto lungo, nel CETI, il Centro de estancia temporal para immigrantes, istituito nel 1999 con il cofinanziamento dell’Unione Europea, con una capienza di 480 posti, ma spesso saturo. Difatti, i criteri per convalidare le uscite dei migranti dal CETI sono a discrezione del Commissariato generale per l’immigrazione della polizia nazionale a Madrid. Una volta ottenuto il permesso di uscita, i migranti sono inviati nei centri di accoglienza gestiti dalle ONG oppure mandati nei centri per richiedenti asilo o nei centri di detenzione ed espulsione. In genere vi è la tendenza da parte delle autorità spagnole ad autorizzare i trasferimenti dopo molto tempo, scoraggiando così i migranti con la detenzione illimitata. Tuttavia, il sovraffollamento del CETI in seguito all’arrivo dei siriani ha accelerato il ritmo dei trasferimenti, riducendo attese anche di anni a periodi da uno a tre mesi, fino a cinquanta giorni se richiedenti asilo. È bene ricordare, però, che per quanto Melilla e Ceuta siano città spagnole, sono le uniche eccezioni dello spazio Schengen: questo significa che le persone sono sottoposte a un doppio controllo, sia quando entrano nell’enclave, sia quando mettono piede sulla penisola iberica. In questo modo, viene comunque mantenuto un vuoto giuridico intorno ai trasferimenti che può rendere perenne l’esternalizzazione delle frontiere dell’UE in Africa. Di conseguenza, questo fatto spinge molti migranti a cercare di arrivare in Europa via mare, partendo dalle coste a Nord del Marocco, con tutti i rischi che ne derivano.
Il Marocco è stato il primo Paese affacciato sul Mediterraneo a firmare una Mobility Partnership con l’Unione Europea con l’obiettivo di promuovere un approccio globale alla migrazione e alla mobilità, soprattutto per contrastare l’immigrazione irregolare. Tuttavia, non c’è mai stata un’espulsione di massa dei migranti irregolari e questo ha fatto sì che il Marocco potesse divenire anche una meta di destinazione e non solo di transito. Ci sono infatti quelli che una volta arrivati in Marocco decidono di non partire. Il primo motivo è di carattere economico, dal momento che molti di loro non riescono a pagare i trafficanti che organizzano poi il viaggio verso l’Europa. In secondo luogo, la decisione degli immigranti irregolari di rimanere in Marocco è dovuta anche al fatto che temono di essere arrestati alle frontiere, sia nella parte marocchina che spagnola, con la conseguenza di essere riportati indietro nel loro Paese di provenienza. Le grandi città marocchine, tra le quali primeggiano Rabat e Casabianca, diventano così casa per molti africani del sub-Sahara che lavorano nel mercato informale, o che, nella speranza di andare comunque prima o poi in Europa, vivono accampati vicino alle stazioni autobus, chiedendo l’elemosina. A questi numeri vanno aggiunti anche i flussi crescenti di rifugiati e richiedenti asilo provenienti dal Medio Oriente, in particolare dalla Siria. Infatti, il Marocco oggi è percepito da quest’ultimi come un Paese stabile e per questo motivo negli ultimi anni ha ospitato più di seimila rifugiati e richiedenti asilo.
Il Marocco deve far fronte quindi al problema dell’immigrazione irregolare, sia da un punto di vista umanitario che sistematico. Infatti, la soluzione non è quella di limitare i flussi irregolari quanto piuttosto quella di gestirli in modo legale, assicurando a queste persone protezione e accesso ai diritti fondamentali. Nel 1992 fu stipulato tra la Spagna e il Marocco un accordo bilaterale di ammissione, ovvero una convenzione tra i due Stati che li obbligava ad accettare di ricevere persone, indipendentemente dalla cittadinanza, espulse dall’altro Stato. Tuttavia, questo patto non è mai stato rispettato e le ammissioni sono state fatte più sulla base di accordi politici del momento piuttosto che nel quadro di una procedura legale. Il Marocco ha poi adottato una legge, la n.2 del 2003, dove condanna l’immigrazione irregolare imponendo forti sanzioni per chi la supporti e l’organizzi, aumentando i controlli ai confini e implementando raid di controllo sugli accampamenti dei migranti, come nelle montagne. A partire dall’anno successivo, un rapporto dell’ONU, seguito dalle proteste di attivisti marocchini e NGOs sui diritti umani, ha portato alla luce le gravi violazioni dei diritti umani sofferte dai migranti irregolari, sia sul territorio marocchino che spagnolo. Come conseguenza, è seguito un piano iniziale di regolarizzazione dello status dei migranti, che ha riguardato circa venticinquemila persone senza documenti regolari sul territorio dello Stato africano. Questo progetto è stato seguito nel dicembre del 2016 dal secondo piano di regolarizzazione, che, secondo il Consiglio Nazionale del Marocco sui Diritti Umani, avrebbe dovuto riguardare circa l’82 percento delle richieste presentate, anche se i risultati tardano ancora ad arrivare.
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