Con l’articolo che segue, e con quelli che seguiranno a cadenza mensile, si ha l’intento di descrivere nella maniera il più semplice possibile il contesto entro il quale si sono svolti nel tempo i processi di modernizzazione agricola, i quali ci hanno consentito di giungere alla completa libertà di scelta su cosa mangiare e quando mangiarlo. L’unica difficoltà sta nello scegliere un punto di partenza. Una data precisa a cui si può ricondurre l’inizio delle trasformazioni che hanno determinato la realtà agroalimentare di oggi non è individuabile. Si è scelto pertanto di cominciare da quei turbolenti decenni tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento in cui si stavano diffondendo le colture e i prodotti alimentari che oggi costituiscono la maggior parte dell’alimentazione, e che hanno poggiato le basi per la nascita della moderna industria alimentare. Per citarne alcuni (non tutti): cereali – in particolare frumento e mais -, patata e zucchero.
Dalla scoperta di Colombo delle Americhe le rotte commerciali con il Nuovo Mondo si intensificarono tanto da consentire ai paesi che ne detenevano il controllo di affermarsi come potenze europee, e pertanto mondiali. Le isole caraibiche in particolar modo furono contese a lungo tra Inghilterra, Spagna e Portogallo; e la storia ci dice che fu l’Impero Britannico a uscirne vincitore. Una scoperta di tale portata avrebbe in seguito spostato di netto il baricentro dei commerci internazionali e ridefinito la centralità dei diversi paesi europei nell’economia mondiale. Ciò si intensificò nel corso del XVIII secolo fino a giungere a compimento durante il XIX secolo.
Le nuove relazioni commerciali con il Nuovo Mondo resero marginali rispetto al passato i rapporti che si erano instaurati nel bacino del Mediterraneo e nell’area del Mar Baltico. Fu un’evoluzione a favore dell’Inghilterra, paese importatore netto di zucchero ma anche suo principale esportatore nel resto d’Europa. Di pari passo con l’acquisizione di sempre maggior centralità sugli scambi mondiali avvenne quella che è nota come rivoluzione del credito, fatto che più di tutti ha stabilito la morte del sistema feudale in favore di quello capitalista.
Si hanno infatti in questi anni le prime enclosures, di fatto semplici recinzioni che non avevano altro scopo se non quello di stabilire quelli che oggi chiamiamo confini catastali. In altre parole, ha inizio la privatizzazione dei campi e termina l’uso comune della terra, che era centrale per la oramai obsoleta economia da villaggio. Privatizzare i possedimenti agricoli facilitò l’investimento diretto sulla produttività della terra (miglioramento delle tecniche di coltivazione), il tutto per soddisfare un consumo che si stava allargando sempre di più tra i ceti meno privilegiati e quelli nascenti, di pari passo con un aumento vertiginoso della popolazione.
Lo zucchero infatti da bene di lusso col tempo divenne un prodotto base per i ceti che stavano emergendo: la borghesia, con le sue nuove idee, industrie e macchinari all’avanguardia, e il ceto operaio, diretta conseguenza dell’aumento di produttività per ettaro, la quale liberò manodopera dai campi che si riversò in seguito nei centri urbani, e fu impiegata nelle nascenti industrie. Non solo stavano cambiando le relazioni tra paesi o regioni del mondo, stava cambiando anche il regime alimentare: l’import inglese di prodotti di drogheria (zucchero, tè, caffè) passò dal 16,9% del 1700 al 34,9% del 1800.
Oltre a bene di consumo, lo zucchero rappresentò un’enorme fonte di ricchezza per le industrie nascenti su suolo inglese. L’import di materia prima e la sua trasformazione per una sua successiva riesportazione non erano più oramai prerogativa del settore tessile. L’industria alimentare stava nascendo, sancendo la fine della produzione di cibo per autoconsumo: sempre in Inghilterra, tra il 1814 e il 1845 un quarto delle importazioni nette inglesi era costituito da generi alimentari. Stava andando ad affermarsi il capitalismo, e con esso la borghesia imprenditoriale sostituiva il ceto mercantile.
Il XVIII e il XIX secolo hanno visto l’affermarsi tra i ceti popolari di cibi precedentemente marginali nella dieta o semplicemente inaccessibili in quanto troppo costosi. Trattasi del mais, della patata e della pasta. La diffusione di questi generi alimentari ha contribuito notevolmente alla diminuzione delle carestie e il loro largo uso fu reso possibile da importanti innovazioni tecnologiche che ne permisero una produzione e trasformazione quantitativamente abbondante. Ma ogni passo avanti porta con sé qualche controindicazione, come vedremo.
Nel 1740 apre a Venezia il primo pastificio, composto semplicemente dall’allora già diffuso torchio manuale, strumento per trafilare la pasta utilizzabile da uno o due addetti. La grande peculiarità della prima rivoluzione industriale fu proprio l’introduzione di macchinari semplici da usare anche solo da una persona, di fatto aumentando la produttività; si ritiene che la rivoluzione industriale partì dall’introduzione negli ultimi decenni del Settecento di macchine idrauliche e automatiche per la tessitura, in cui il prodotto maggiormente impiegato divenne il cotone (importato dalle colonie nordamericane).
La produzione di pasta nel centro-sud Italia si diffuse a tal punto che nel 1784 la stamperia Remondini di Bassano pubblicò le rime di tal Iacopo Vittorelli, tra le quali vi era un poemetto chiamato I maccheroni. Protagonista era il famoso Pulcinella, ritenuto responsabile dell’invenzione della “pasta maccheronica”. L’uscita di questo poemetto mostra la definitiva diffusione popolare della pasta, abbinata prima al solo formaggio, poi – dal 1830 – al pomodoro. Ciò che consentì lo sviluppo dell’industria della pasta fu il maggiore interesse nel produrla secca anziché fresca, per ragioni di conservazione e successivo commercio, oltre a importanti innovazioni: il torchio diventa meccanico e viene introdotta la gramola per rendere l’impasto più omogeneo.
Mentre nel mezzogiorno si stava radicando lo stereotipo italiano per eccellenza, nel nord Italia allo stesso modo andava radicandosi lo stereotipo dell’italiano del nord. La polenta di mais diventa l’alimento principale della dieta contadina, se non l’unico. La coltivazione del mais si intensificò quando i proprietari terrieri si resero conto che le rese per ettaro erano di gran lunga maggiori rispetto agli altri cereali. Con ciò si potevano permettere di sfamare i contadini esclusivamente con il mais, per dedicare le produzioni più redditizie come il frumento e la carne al mercato urbano. Non è un caso se uno dei motivi principali che hanno consentito l’affermazione del capitalismo agrario fu proprio la semplificazione e la monotonia della dieta contadina.
Il problema più grave che ne derivò fu che un’alimentazione basata interamente sulla polenta generò situazioni di denutrizione che portarono all’epidemia di pellagra (si pensi che la polenta è molto povera di niacina, una vitamina essenziale per l’organismo). Non fu tanto la polenta in sé a causare quest’epidemia quanto la mancanza di integrazione con altri cibi, cosa che accadde invece nel caso della pasta nel centro-sud, come è già stato accennato.
Similmente al mais, la patata conobbe l’inizio dell’estensione della sua coltivazione a partire dal Settecento, sino a diventare essenziale nella dieta contadina. Inizialmente si incentivò la sua coltivazione, soprattutto nell’Europa centro-orientale, in quanto essendo un prodotto che si sviluppa sotto terra è meno soggetto alle conseguenze di una guerra. Agli inizi dell’Ottocento invece la patata assume sempre più un ruolo centrale per sfamare i contadini, ma al contrario del mais entrò presto anche nel mondo dell’alta cucina.
Gli incentivi potevano essere semplici consigli di coltivazione da parte di abati e preti (come accadde in Friuli nei primi decenni del XIX secolo), contratti d’acquisto dei campi (nei quali si stabiliva che doveva essere dedicata una zona alle patate) o vere e proprie coercizioni (come accadde nei Balcani nel 1802 da parte dell’Impero Austro-Ungarico). Il fatto più eclatante riguardo a questo tubero furono i due anni di raccolti andati male a nel 1845-46 in Irlanda. La monocoltura a patata non garantiva alternative: se non si raccoglie, non si mangia. E fu effettivamente così: nel giro di pochi anni l’isola irlandese si spopolò – anche per effetto dei numerosi decessi per la fame – e iniziò una delle prime grandi migrazioni verso il nuovo continente della storia contemporanea.
Abbiamo già citato il caso dello zucchero come esempio della crescente ricchezza interna dell’Impero Britannico e del progressivo passaggio da un sistema economico mercantilista a uno capitalista. Nei primi decenni del XIX secolo la figura politica figlia della rivoluzione borghese del 1789, Napoleone Bonaparte, comprese l’importanza della produzione nazionale di questo bene di consumo, oramai non più di lusso. Nel 1802 iniziano le prove di estrazione del saccarosio dalle radici della bietola e sua purificazione da parte di Benjamin Delessert, il quale avrebbe ricevuto dieci anni più tardi la legione d’onore per il lavoro svolto. La politica economica napoleonica emanata nel 1811 stabilì la semina di 32.000 ettari di bietola e la costruzione di varie fabbriche per la trasformazione; nel 1813 in Francia erano attivi circa 350 zuccherifici che producevano 600.000 tonnellate.
Successivamente, in seguito all’abolizione della schiavitù nelle colonie caraibiche negli anni Trenta dell’Ottocento (fondamentale per la produzione della canna da zucchero nelle colonie), la produzione di bietola andò sempre in crescendo per diventare centrale per ogni singolo stato europeo. Il blocco alle importazioni di merci inglesi su suolo francese – tra cui lo zucchero – consentì una rapida diffusione di questa coltura, la quale tuttavia non attecchì subito in tutta Europa. L’esperienza italiana con la bietola inizia nel 1809 con la pubblicazione del primo manuale sulla coltivazione, ma resterà fallimentare fino al 1887, quando Emilio Mariani, imprenditore nato a Lugano nel 1853, ristrutturò lo zuccherificio di Rieti rendendolo il primo stabilimento produttivo in Italia.
La destinazione sociale di cibi dalle alte rese come mais e patata ai contadini ha consentito l’allargamento dei consumi e la nascita di nuovi consumatori. Di fatto, aumentando la produttività per ettaro il prezzo del prodotto finito si abbassa, rendendosi automaticamente accessibile per i ceti meno ricchi, in particolar modo gli operai. Proprio nella prima metà dell’Ottocento, sia lo zucchero che la carne subiscono un crollo dei prezzi tale per cui chiunque può permetterseli. I progressi agronomici delle campagne inglesi del Settecento che hanno portato all’abbandono del maggese e delle monocolture in successione a favore delle rotazioni (oggigiorno obbligatorie in Italia) hanno consentito l’integrazione della zootecnia con l’agricoltura, con effetti molto importanti sulla diversificazione dell’offerta aziendale e sulle quantità prodotte. È proprio in questi decenni che iniziano oltretutto le selezioni genetiche delle razze bovine e la divisione produttiva tra latte e carne del bestiame.
Sempre nella prima metà dell’Ottocento vengono perfezionati i metodi di conservazione: carne e pomodoro in scatola, minestre e verdure congelate sanciscono la nascita della moderna industria alimentare, nella quale i consumatori non mancano, anzi, sono sempre di più. Tra la fine del Settecento e la metà del XIX secolo la popolazione europea cresce dai 195 milioni stimati a 288 milioni. Con un consumo di carne in ascesa, è curiosa la nascita delle associazioni vegetariane: la prima vide la luce nel 1847 a Manchester (polo industriale già di notevoli dimensioni) e ricevette numerose adesioni esclusivamente tra i ceti elevati, a cui l’immagine della macellazione iniziava a infastidire empaticamente e i quali potevano permettersi di consumare cibo fresco di giornata (ai tempi ancora inaccessibile ai più). In questi anni la concezione di una dieta priva di carne più salubre sembra attecchire bene tra i ricchi, con una dialettica che oggi siamo molto abituati a sentire.
Un dibattito ancora acceso tra gli storici indaga la relazione causa-effetto tra l’aumento delle rese agricole e l’aumento della popolazione: fu la prima a determinare la seconda, come risposta a un livello di benessere che stava crescendo, o viceversa, come risposta a un numero di bocche da sfamare sempre maggiore? A prescindere da questo interrogativo, al quale si cercherà di dare una risposta nel corso delle uscite, la cosa certa fu che l’agricoltura passò a diventare da fornitore di cibo per l’autoconsumo a fornitore di materie prime per la trasformazione e conservazione. In questo contesto, è chiaro che le colonie e i loro ampi spazi permisero ai coloni di stare sempre un passo avanti rispetto ai paesi competitori.
E l’Italia in tutto questo? Innanzitutto, ancora non s’era fatta. Non esisteva una politica agraria comune alla penisola che ne dettasse dei principi d’interesse nazionale. Si trattava di un’agricoltura dalle ampie estensioni nelle mani di pochi (non a caso uno dei punti salienti di ogni dibattito sulle riforme agrarie fu la redistribuzione della terra). E furono proprio quei pochi, come vedremo, ad aver consentito tutto sommato lo sviluppo tecnologico nel settore agroalimentare italiano, lo stesso settore del quale possiamo dire di andare fieri, e che ha permesso oggi al nostro paese – non senza sforzo – di posizionarsi fra le prime otto economie mondiali.
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