Il 28 dicembre, più di due settimane fa, il Presidente Mattarella ha sciolto le camere, fissando al contempo le elezioni per il 4 marzo. La campagna elettorale è in realtà cominciata molto tempo prima – e la tempestività con cui il centrodestra ha cominciato la sua comunicazione è probabilmente collegata al suo eccellente andamento nei sondaggi -, ma è entrata nel vivo soltanto di recente. Si voterà fra due mesi, eppure la sensazione è che gli esponenti politici maggiori abbiano già cominciato a raschiare il fondo del barile nella gara a chi regala più soldi. Delle coperture si parla poco, sottovoce, senza farsi sentire né dare troppi dettagli, perché abbassare le tasse e regalare soldi alle persone vuol dire tagliare qualcosa, e parlare di tagli è sempre complicato. Seguono, in ordine sparso, le proposte principali uscite dalle formazioni politiche più grandi durante queste prime due settimane di campagna elettorale.
Si considera genericamente il centrodestra perché, in realtà, i vari componenti della coalizione Berlusconi-Salvini-Meloni-Quarta gamba sono tutti impegnati in promesse e cifre completamente fuori scala. Si parla di, non necessariamente in quest’ordine:
I primi tre punti, secondo i calcoli di AGI, costeranno circa 130 miliardi, più i cinque miliardi circa del bollo auto. Il quinto, non essendo ancora chiaro nemmeno se la riforma Fornero verrà abolita o modificata, è di più difficile quantificazione; AGI stima il costo dell’abrogazione in 26 miliardi di euro nel 2020, mentre il costo della modifica dipenderebbe da come questa sarebbe implementata.
Tutta questa imponente manovra economica richiederebbe, ed è questo uno dei punti del programma della coalizione di centrodestra, di abolire o almeno rivedere il fiscal compact, vale a dire il trattato, firmato nel 2012 tanto dal centrodestra quanto dal centrosinistra, che obbliga a tenere il rapporto deficit/pil (fra quanto si è speso nell’anno in corso e quanto si è prodotto) sotto al 3%, e il rapporto debito/pil (fra quanto si è speso cumulativamente in passato e quanto si è prodotto) sotto al 60%. Questo trattato, che è stato oggetto di ripetute critiche tanto dal Movimento Cinque Stelle quanto dalla destra (e persino da una parte della sinistra), è nato dall’esigenza di impedire che il debito nazionale cresca talmente tanto da diventare irripagabile – che diventi cioè talmente alto che gli interessi sono più alti dell’ammontare che lo stato riesce a incamerare di anno in anno; a quel punto si genera un circolo vizioso di debito che si autoalimenta, impossibile da interrompere senza aiuti esterni o una bancarotta quantomeno parziale.
La lista di Grasso e Boldrini propone invece quella che è probabilmente la riforma più di destra immaginabile, vale a dire un taglio lineare delle tasse: in questo caso quelle universitarie, per un valore di, sostengono, un po’ più di un miliardo e mezzo di euro. Come più di qualcuno ha fatto notare, chi ha un reddito alto oggi paga migliaia di euro di tasse universitarie all’anno, mentre chi ha un reddito basso ne può pagare molto meno o addirittura avere l’esonero completo. Anche quando si paga, le cifre sborsate da uno studente proveniente da una famiglia con reddito basso sono comunque di poco superiori ai mille euro annui. La domanda che sorge spontanea è tutto sommato semplice: chi ha più da guadagnare da un’operazione del genere?
Si aggiunge inoltre un’altra questione, e questa ben più pressante: questa misura, oltre a favorire più i ricchi che i poveri, a questi ultimi non è nemmeno particolarmente utile. La spesa vera che le famiglie affrontano mandando i figli all’università non sono le tasse, ma il mantenimento dello studente, tra libri, trasporti, vitto e alloggio. Più che di taglio lineare delle tasse per tutti, sarebbe interessante fare un discorso sulle borse di studio. Non solo l’Italia è ultima in Europa per agevolazione allo studio per gli studenti con redditi bassi, a causa dei parametri stringenti richiesti per poterla ricevere, ma esiste anche il fenomeno degli “idonei non beneficiari”, vale a dire quelle persone che rientrano perfettamente nei criteri stabiliti e che tuttavia non ricevono comunque il contributo perché, molto prosaicamente, sono finiti i soldi. In altre parole: è difficile essere ritenuti idonei perché il tetto massimo è basso, e anche nel caso si fosse ritenuti idonei comunque c’è la possibilità di non avere la borsa di studio perché il denaro è stato già speso tutto.
Il Movimento creato da Beppe Grillo prosegue con quello che probabilmente è il suo cavallo di battaglia più noto, ovvero un reddito per «tutti coloro che non hanno reddito o hanno redditi molto bassi», e sarebbe, almeno a livello ideologico, un primo passo verso l’introduzione del reddito «universale, individuale e incondizionato». Questa volta sono stati loro stessi a portare dei calcoli sui costi di un’operazione fatta in questo modo, attestandoli intorno ai diciassette miliardi di euro. La cosa più interessante è che questi sembrano essere corretti, il che è notevole per un partito che si è più volte distinto per affermazioni false, controverse e complottiste. Resta pur sempre una manovra da diciassette miliardi, ma il M5S sembra essere l’unico che in campagna elettorale mantiene la propria linea in maniera abbastanza coerente con quanto sempre detto. Confermano inoltre anche loro l’intenzione di abolire la riforma Fornero, senza tuttavia indicare coperture per questa ultima operazione.
L’abolizione del canone Rai è probabilmente il punto più realistico di tutte le proposte presentate, almeno dal punto di vista dei costi (che si aggirano intorno al miliardo e mezzo di euro), a pari merito con l’abolizione delle tasse universitarie di Liberi e Uguali.
Se il giudizio sulla fattibilità del progetto è quindi positivo, è invece negativo il giudizio politico su una proposta che sembra una solenne presa in giro; sensazione senza dubbio accentuata dalla peggiore comunicazione possibile da parte del PD. È quanto meno strano il fatto che durante il governo Renzi il canone Rai sia stato messo in bolletta, mentre in campagna elettorale si promette di toglierlo. Ancora più strano è il fatto che il PD affermi che sia possibile finanziare la Rai togliendo il canone e attraverso la fiscalità generale, ma senza pesare sui cittadini. I soldi della fiscalità generale arrivano per definizione dalle tasche dei cittadini, togliere una tassa e rimetterla con un altro nome, o spalmarla sulle altre che vengono pagate, non vuol dire che sui cittadini “non pesa”, vuol dire che i cittadini non possono più prendersela con il canone Rai semplicemente perché è stata tolta l’etichetta ad una tassa che viene comunque pagata.
Al di là del giudizio politico su chi ha presentato la riforma e sul come l’abbia fatto, occorre comunque notare un fatto innegabile, ed è che la manovra del canone in bolletta, per quanto impopolare, è stata efficace nel combattere l’evasione. Ora ci sono cinque milioni di persone in più che pagano ed è altrettanto innegabile che il costo del canone è stato effettivamente abbassato da 113€ a 90€. Sono solo venti euro in meno a testa, ma è una riduzione del 20%.
Diverso è invece il discorso sul salario minimo: la cifra proposta, fra i 9 e 10 euro l’ora, viene da molti considerata come fuori da ogni logica. Su questo tema il PD si muove lungo un terreno estremamente difficile: ha subito la scissione di Liberi e Uguali e ora deve fare proposte di sinistra per recuperare il consenso che ha perduto e spegnere le critiche che vedono il Partito Democratico come chiuso in un salotto dorato lontano dalle esigenze del popolo. Il problema è che proposte come questa comporterebbero spese talmente alte per gli imprenditori da essere semplicemente lettera morta. A meno che non vengano coperti dalla spesa pubblica: ma il centrosinistra, a differenza della coalizione di destra, non ha nel programma l’abolizione del fiscal compact.
La campagna elettorale dura ancora quasi tre mesi e theWise tornerà presto con altri articoli. Prima di chiudere però, rileviamo un lato positivo di rinsavimento generale riguardo alla questione dei rapporti con Bruxelles: tanto la Lega Nord quanto il Movimento 5 Stelle, i due maggiori partiti euroscettici, hanno momentaneamente deciso di abbandonare l’idea del referendum sull’euro in particolare e sulla permanenza all’interno dell’Unione Europea in generale. Quanto questo fragile equilibrio possa durare è soggetto a libera interpretazione del lettore: siamo in campagna elettorale, ormai vale tutto.
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