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Le collisioni infuocate di McDonagh: “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”

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Anastasia Piperno

Il nuovo film di Martin McDonagh sta scalando la vetta. A settembre era passato dall’ultima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, conquistandosi una gran fetta di pubblico, il premio Osella per la miglior sceneggiatura e vari pronostici di vittoria persino del Leone d’Oro, salvo poi essere scalzato da The Shape of Water di Guillermo del Toro (che vedremo nelle sale commerciali italiane dal 14 febbraio). Nella cerimonia del Golden Globe 2018, tenutasi il 7 Gennaio, ha fatto incetta di premi, aggiudicandosi sei nominations e quattro vittorie, ovvero “Miglior film drammatico”, “Miglior attrice in un film drammatico” per Frances McDormand, “Miglior attore non protagonista” per Sam Rockwell e “Miglior sceneggiatura”. I BAFTA, ovvero i British Film Academy Awards, lo hanno già candidato per ben nove categorie, e di nuovo dovrà fronteggiare il film di del Toro – che ha invece ben dodici nominations – in sede di cerimonia e premiazione, il 18 febbraio.

Il momento fatidico però è quello degli Oscars 2018: il 24 gennaio saranno annunciate le nominations, e non pochi, tra critica e pubblico, prevedono che Tre manifesti a Ebbing, Missouri sarà tra i candidati principali per varie categorie, e che si porterà a casa qualche altra statuetta. In attesa di una smentita o conferma, possiamo finalmente vederlo nei cinema italiani dall’11 gennaio. McDonagh, qui regista e sceneggiatore, racconta la storia di Mildred Hayes (Frances McDormand), una madre che ha perso la giovane figlia, stuprata e uccisa da ignoti a pochi metri da casa, e che dopo sette mesi di silenzio da parte delle forze dell’ordine del suo paese, Ebbing, sceglie di compiere un atto di legittima protesta. Compra tre grandi spazi pubblicitari ai margini della cittadina per ripetere a caratteri cubitali e concisi cosa è successo a sua figlia, chiedendo alla polizia perché non abbia fatto nulla. Il suo gesto provoca un grande subbuglio in paese, innescando varie reazioni a catena di rabbia e rancore. Si tratta di una tragicommedia nera di spirito sguaiato, in cui tra un tempo comico e l’altro vengono incisi i temi dei vizi e caratteri di una nazione, del lutto, della collera ribollente dal dolore che diventa un mezzo di comprensione della realtà, conducendo i personaggi, ognuno con un grado di colpa indifendibile, di collisione in collisione a un percorso sfaccettato e frastagliato.

Poster del film, che segnala i tre attori in primo piano.

L’estro di McDonagh

Il britannico Martin McDonagh, fratello minore del regista John Michael McDonagh (The Guard, Calvary) si era distinto sin dal lungometraggio d’esordio In Bruges (2008), che fu a sua volta nominato agli Oscars per la miglior sceneggiatura originale, rivelando al pubblico cinefilo la verve del tutto peculiare del regista, oltre alle sue origini irlandesi. Un piglio brillante e una perizia nella sceneggiatura che gli deriva dalla precedente – e ancora attiva – carriera teatrale, anch’essa nutrita di riconoscimenti, specialmente con la trilogia di The Aran Islands e poi con The Pillowman (2003) e Hangmen (2016) che hanno vinto appunto il Laurence Olivier Award, uno dei più prestigiosi premi del teatro inglese. Già dai suoi drammi teatrali si evince una volontà analoga alle sue opere cinematografiche, ovvero una messa da canto di un realismo asciutto e una verosimiglianza comportamentale e linguistica per esaltare le possibilità immaginative ed estrose date dalla finzione, per infuocare i suoi oggetti di interesse. McDonagh sa di essere fuori dagli schemi, e in fondo è proprio quello che si propone, dal teatro al cinema, con una certa libertà disinvolta e dissacrante, talvolta con un gusto puro per il bizzarro.

Anche in Tre manifesti a Ebbing, Missouri i suoi personaggi interagiscono con dei grettissimi botta e risposta brillanti, spesso sopra le righe, a tratti persino virtuosistici nel confezionare una particolare violenza verbale, oltre che essere protagonisti di una violenza grafica grottesca, complesso di elementi per cui si fa spesso il paragone con Quentin Tarantino. Non è fuori luogo neanche l’associazione ai fratelli Coen, per questo suo ultimo film. McDonagh e i suoi collaboratori, infatti, hanno scelto un paese del Missouri, quindi negli Stati Uniti del Sud, terra in cui la mentalità pregiudizievole è sempre stata più radicata, in cui sembra che il tempo si sia fermato, come se non fosse cambiato granché dagli anni Cinquanta a qui. Analogamente all’opera cinematografica dei Coen, i personaggi di questa provincia americana hanno tutti un grado di fallibilità o contestabilità voluta, agendo in modo spesso irriflessivo nella storia, facendosi emblema di un qualche difetto che li rende materia comica e allo stesso tempo drammaticamente iconica. McDonagh riflette la contemporaneità sociale da straniero in visita, avendo peraltro fatto un tour in territorio statunitense – Chicago, Colorado, Montana e poi Missouri – in fase di sceneggiatura. Ritroviamo il nazionalismo bianco americano, la tipica avversione per i messicani, il razzismo verso i neri che è ancora vivo nelle forze dell’ordine e nel loro esercizio professionale (al centro della critica di McDonagh) al di là di qualsiasi apparenza liberale. In quest’ultimo caso, una delle battute più efficaci è quella del poliziotto razzista Dixon (Sam Rockwell), che alla provocazione di Mildred: «Come va il business delle torture dei negri?» replica: «Non può dire ‘negri’, signora, deve dire ‘persone di colore’».

Un’ulteriore efficacia spettacolare, prima ancora che realistica, è raggiunta sia attraverso la sceneggiatura che attraverso altri elementi di composizione del film, con la ricerca costante del paradosso, facendo convivere all’interno della stessa scena due toni opposti. Queste compresenze si realizzano nel susseguirsi delle battute dei personaggi o in un commento musicale che sembra dissonante rispetto ai contenuti del quadro. Esemplare, proprio in riferimento a un certo virtuosismo linguistico già accennato, è uno scambio tra lo sceriffo Willoughby (Woody Harrelson, che sfrutta una certa immagine già formata popolarmente con il personaggio interpretato in True Detective) e sua moglie, dove un certo linguaggio sessuale di registro basso è accompagnato a riferimenti a Shakespeare e Wilde. Altrettanto curioso è l’uso del topos della lettera confidenziale e lirica letta in voice-over, che in verità presenta un continuo abbassamento verso toni alla mano: un uso ironico rispetto alla sua tradizione solenne e sentimentale. E ancora, per quel che riguarda la colonna sonora, le scene di violenza grafica o di pathos analogo sono amplificate da un brano musicale, talvolta di tipo lirico come Last Rose of Summer dall’opera Martha, oppure con moti di malinconica distensione country di derivazione irlandese. Persino un personaggio violento come Dixon si isola dai colleghi ascoltando con lievità sognante Chiquita degli ABBA.

Stelle fulgenti nel cast

Di fondamentale importanza per il film è l’elevata qualità delle performance da parte del cast, oltre al suo essere particolarmente azzeccato nel suo complesso. McDonagh, che aveva pensato a Frances McDormand – non a caso cristalizzata nella filmografia dei Coen da Fargo – già in fase di sceneggiatura, dice alla rivista Indipendent: «After I sent it to [Frances] I was literally thinking, ‘If she says no we are fucked,’ because who is there? There’s no one. We didn’t want anyone Hollywood in their looks or their plasticity, and it had to be someone who can play working class without sentimentalising or patronising it. There’s no one else apart from her». In modo inedito per la filmografia di McDonagh, infatti, il film si modella attorno ad un’eroina, Mildred, la cui corporeità e il cui volto ruvido e risoluto costituiscono un successo uniforme nella ricezione degli spettatori. Ciò è anche legato alla sua battaglia, che non può che richiamare il tema scottante di molestie e stupri originatosi dallo scandalo Weinstein, risultando particolarmente attuale.

Mildred fa confluire in sé persino riferimenti western. Affrancandosi dal codice di leggi implicite e corrotte del suo paese, porta avanti una missione a costo di essere regalata a margine della comunità, respinta, criticata e attaccata gratuitamente. Scontrandosi frontalmente e a testa alta con le autorità assopite della cittadina, in alcune scene dove la stazione di polizia sembra un saloon, la colonna sonora country amplifica il passo di McDormand, impettito, rigido e diritto come quello di John Wayne. Incidendo nella roccia il suo atto di protesta determinata, rivelando con abile sottigliezza la stanchezza di chi non vede compiersi la giustizia, oltre a pieghe di dolore e amarezza profondi e un’inquietante aggressività non sempre etica che ne fa un personaggio problematico come gli altri, Tre manifesti a Ebbing, Missouri ha un asso nella manica in Frances McDormand, che potrebbe davvero aggiudicarsi una statuetta tutta per sé anche nei prossimi Oscars.

Il film è anche un’altra rivincita dell’attore Sam Rockwell, il cui personaggio, Dixon ha un arco di evoluzione personale e psicologica progressivamente sempre più rilevante, fino a diventare il più pregnante di tutti. L’attore aveva già manifestato eloquentemente il suo talento sia comico che drammatico in Moon (2009) di Duncan Jones o Confessioni di una mente pericolosa (2002) di George Clooney, ma anche in Seven Psychopats (2012) dello stesso McDonagh e in altri film ancora. Il sistema hollywoodiano non ha però mai sfruttato più deditamente e pienamente le sue capacità carismatiche, spesso relegandolo a produzioni non alla sua altezza, e la valorizzazione e il peso datigli da McDonagh per Tre manifesti a Ebbing, Missouri lo rende ancora più evidente, tanto che gli sta portando una lunga catena di riconoscimenti inedita. È molto probabile che arriverà una nomination come “Miglior attore non protagonista” anche per lui agli Oscar.

Nel cast c’è anche Peter Dinklage, nei panni del gentile James, interessato a Mildred.

Proprio il personaggio di Dixon è uno dei risultati più notevoli di un processo sensibilmente diverso attuato da McDonagh per questo suo terzo film, rispetto ai precedenti In Bruges e Seven Psychopats. Lo stesso regista esplicita un cambio di rotta, dicendo a Den of Geek cosa ha realizzato in seguito all’insoddisfazione per Seven Psychopats: «A realisation that it should be all about character and empathy with the characters you create, that the actors create, rather than the meta, smart-ass stuff. I’ve learned not to be such a show-off and to have a bit more empathy with humanity». Dixon e Willoughby, in particolare, passano progressivamente dall’avere una caratterizzazione brillante, ma caricaturale, a vedere i propri contorni smussati dalle circostanze in cui si imbattono, assumendo sempre più un volto umano e un ritratto psicologico approfondito, che li riscatta.

Uno dei nodi tematici più intensi del film, infatti, è proprio un avvicinamento empatico tra i personaggi, che si cava lentamente dai loro incontri-scontri. I manifesti di Mildred sono l’origine contingente della catena di risposte incollerite, ma su una più vasta scala non sono altro che dei catalizzatori di disagi già esistenti che si sfogano su capri espiatori. L’odio ha radici di piombo, trascinatesi nel tempo e portanti alla situazione attuale, ad una parziale chiusura verso l’esistenza degli altri e un incurvamento nel proprio dissidio. Attraverso le armi del linguaggio inizia la vicenda riportata, con la denuncia e l’esplicitazione del mancato adempimento da parte della polizia dei propri compiti, e ancora per mezzo di esso i personaggi si fronteggiano in nome dell’onestà, talvolta generosa, talvolta dissacrante, ma si difendono anche scalfendo gli altri, recriminando oltre la legittimità per una collera cieca, che rasenta l’amoralità. Insieme all’ambiguità dell’uso della parola qui presente, che attacca continuamente un qualsiasi ente d’autorità (da quello genitoriale a quello pubblico), si accompagna il gesto violento oltre il limite, che nella scottatura avvia una trasformazione nella disposizione dei personaggi.

La rabbia non viene smessa, l’ingiustizia grava ancora, esattamente come il dolore non risanabile, i  beceri atteggiamenti razzisti e le stolidità nazionali affini, ma nello scontro si incappa in un nuovo accorgimento offerto dalla percezione altrui su di sé, da cui può originarsi un ripensamento, una ritrattazione e una maggiora apertura etica, personale, seppur sempre difettosa, così come anche un operato diverso e toccante. McDonagh pone la strada incerta e aperta dell’on the road, dove i nodi non sono sbrogliati, ma si inizia ad allentarli sulla via di una speranza di possibile risoluzione futura. Ancora prima che facili soluzioni o moralismi, si cerca di restituire umanità a figure tratte dal popolo americano che nella cecità astiosa rischiano di perderla. Si lavora sul piccolo di un’azione del singolo parzialmente redentrice, inedita rispetto al suo passato. Si tratta di un moto correttivo, che non cancella comunque i propri fantasmi e non può ancora sentenziare sulla qualità del futuro conseguente, ma può ipotizzare dei cambiamenti che partano dalla comprensione della necessità di una convivenza più costruttiva, dove sia posta attenzione al gesto positivo che fa la differenza.

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Anastasia Piperno

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