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Putin si ricandida: irreversibile passo verso la dittatura?

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Andrea Braschayko

Lo scorso 27 dicembre Vladimir Putin ha presentato dinanzi alla Commissione elettorale centrale i documenti che gli permetteranno di candidarsi per il quarto mandato alle elezioni presidenziali russe del 18 marzo 2018. Si tratta dell’ennesima tornata elettorale che il presidente russo ha la certezza di vincere già in partenza.
L’unica novità degna di nota sembra essere che per la prima volta Putin non si presenterà alle elezioni insieme al suo partito Russia Unita, recentemente macchiato da episodi di corruzione dei suoi membri, ma correrà invece da indipendente, insieme a liste civiche e movimenti cittadini (quasi a voler rafforzare l’immagine che vuole dare di “uomo del popolo”). Lo ha annunciato lui stesso il 14 dicembre durante la conferenza stampa di fine anno, nella quale dinanzi ai giornalisti – rigidamente guidati nelle domande dal portavoce del presidente Dimitrij Peskov – ha parlato serenamente per quasi quattro ore di tasse, politica estera, pensioni, sport.
Tutto secondo copione, l’unica voce fuori dal coro è stata quella della giornalista di Eco di Mosca Tetjana Felgenhauer (accoltellata in redazione solo due mesi prima) che gli ha chiesto di commentare la situazione del sistema penale russo, citando Igor Sechnin, oligarca e capo di Rosneft, che ha ignorato ben tre convocazioni come testimone a un processo. Lapidaria la risposta del presidente russo, «Sechnin non ha fatto nulla di illegale». La Felgenhauer, secondo le regole della conferenza, non ha diritto di controbattere e la maratona di “domande” continua secondo il suo corso.

2000-2018: l’era di Putin compie la maggiore età

Non si conosce molto del Vladimir Putin prima della politica, e molte delle informazioni sono oggi offuscate e ambigue. Sappiamo certamente che in seguito al completamento degli studi si è arruolato nel KGB, l’agenzia di sicurezza dell’URSS, e che dal 1985 al 1990 ha vissuto a Dresda sotto la falsa identità di interprete lavorando per la STASI. Negli anni ’90 ha cominciato la sua ascesa ricoprendo vari incarichi ufficiali a San Pietroburgo, sua città natale, entrando in contatto e tessendo amicizie con gli uomini più potenti della città.
Putin è entrato nella scena politica russa nell’estate del 1999, quando fu a sorpresa eletto primo ministro dall’allora presidente Boris Eltsin. Lo stesso Corvo Bianco – primo e ultimo presidente del paese non appartenente al partito di Putin – lo designò come suo erede alla presidenza, che poi effettivamente gli cederà ad interim dopo le dimissioni del 31 dicembre 1999.

Putin a fianco di Boris Eltsin, l’uomo che gli ha aperto le strade alla grande politica

Il primo decreto attuato da Putin in carica di presidente si chiama Sulle garanzie riguardanti il precedente presidente della Federazione Russa e per i membri della sua famiglia. Il neo-presidente sa come sdebitarsi con il suo predecessore, sotto inchiesta insieme alla figlia per riciclaggio di denaro e invischiato in uno scandalo internazionale con Svizzera e USA.
Nella campagna elettorale del 2000, Putin si presenta prima che presidente come leader di guerra: sono gli anni della (seconda) guerra in Cecenia e l’ex agente KGB sa come ingraziarsi le simpatie del popolo russo. Si distingue per un approccio forte e decisionista nei confronti dei separatisti ceceni, che nel frattempo avevano invaso il Daghestan. Celebre la sua frase: «Noi perseguiteremo dappertutto i terroristi, e quando li troveremo, mi perdoni l’espressione, li butteremo dritti nella tazza del cesso».
A differenza di quanto si aspettassero Eltsin e gli oligarchi alle sue spalle, Putin è un cane sciolto. Non è facile da comandare, per lui l’accentramento dei poteri verso lo Stato viene prima di tutto e solo dopo questo possono valere gli interessi degli oligarchi. Quelli a lui più scomodi, soprattutto per la loro influenza politica, vengono perseguitati: alcuni fuggono all’estero come Khodorvskiy e Berezovskiy, quest’ultimo suicidatosi a Londra dopo aver subito vari tentativi di omicidio (uno dei quali rivelato dall’ex spia KGB Litvinenko, poi ritrovato morto per avvelenamento da polonio).
Questo non vuol dire che gli oligarchi in Russia siano stati messi al bando: si sono semplicemente adattati alle regole di Putin. Quelle di Khodorovskiy, Berezovskiy e pochi altri sono solo eccezioni, la maggior parte dei miliardari russi sono rimasti in patria continuando il loro business. Non si è mai risolto il problema della corruzione, semplicemente se prima gli oligarchi erano liberi di nuotare nel mare di anarchia di Eltsin, ora devono sottostare al ferreo statalismo putiniano.
La presidenza di Putin ha poi segnato il ritorno di auge della Russia in politica estera (con lo scoppio di due nuove guerre, a seguito delle invasioni in Georgia nel 2008 e in Ucraina nel 2015) e la ripresa economica del paese (molto favorita dalle fluttuazioni di prezzo di petrolio e gas di cui è esportatrice).
Questo, ma non solo, vedremo tra poco, contribuisce a creare una profonda popolarità e ammirazione del popolo russo nei confronti del proprio presidente, che stravince ogni elezione successiva (tranne quella del 2008, dove non potendosi candidare per il terzo mandato consecutivo prende l’incarico di primo ministro e fa eleggere come presidente il suo fedelissimo Dmitrij Medviedev). Le percentuali, vicine ogni volta al 65-70%, con cui Putin vince ogni elezione presidenziale farebbero rabbrividire qualsiasi democrazia europea (nulla in confronto al 97-98% dei suoi colleghi bielorussi e kazaki Lukashenko e Nazarbayev, a cui il presidente russo sembra tendere).

No, tu no: l’esclusione di Navalny e la dittatura democratica

Negli stessi giorni in cui il Comitato elettorale centrale approvava la candidatura di Putin, rigettava quella del suo unico vero oppositore politico, Aleksei Navalny. Pochi giorni dopo, la Corte suprema ha rigettato anche il ricorso dell’attivista citando la sua condanna per frode di cinque anni con la condizionale, motivo per il quale l’esclusione sarebbe giusta per legge. In realtà, come sostiene anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, la decisione è politicamente motivata, anche perchè la norma varrebbe solo per chi sta scontando effettivamente una pena.

Aleksei Navalny, uno degli oppositori più ostinati di Putin

Navalny non ci sta, e invita a boicottare l’ennesima elezione-farsa: «Per la seconda volta nella mia vita mi trovo a rivolgermi alla commissione elettorale centrale per parlare dello stesso problema. Che cosa dobbiamo fare per far sì che aumentino le persone che vanno a votare? Per far sì che i cittadini russi, che negli ultimi 18 anni hanno smesso del tutto di credere che le elezioni abbiano anche il più minimo effetto, tornino a credere in questo processo, vengano ai seggi per fare una scelta consapevole ed esercitino una vera influenza su quello che succede nel paese? E la cosa più assurda è che ogni volta mi appello a voi, cerco il vostro aiuto, ma voi dite sempre no».

La democrazia guidata di Vladimir Putin in tutto il suo splendore

Ci sarebbe da chiedersi perchè Putin tema un candidato che alle ultime elezioni ha ricevuto neanche il 2% dei voti, e che nessuno fuori da Mosca conosce (poichè i media russi volutamente scelgono di non nominarlo mai). La verità è che Putin non vuole solo vincere, ma come ogni tiranno che si rispetti vuole stravincere e qualsiasi oppositore in più potrebbe togliergli voti “preziosi” per raggiungere il suo obiettivo: raccogliere il plebiscito. Inoltre, come ha scritto su Mark Galeotti, analista esperto di Russia, permettere a Navalny di candidarsi significherebbe immetterlo nella mappa politica russa, oltre al fatto che l’apparizione televisiva gli accrescerebbe quella popolarità tra la gente comune che finora gli è stata sempre sbarrata.

Verso le elezioni: cercasi avversario credibile

Dato per assodato che la vittoria (schiacciante) di Putin non è messa in dubbio neanche dal più ottimista degli oppositori, alle elezioni del prossimo marzo è difficile trovare persino un candidato che gli possa dare filo da torcere in campagna elettorale, se non a livello di voti quanto meno a livello di dibattito.
I due principali partiti russi dopo Russia Unita sono il Partito Comunista Russo guidato da Gennadij Zjuganov e il Partito Liberal-democratico di Vladimir Zirinovskij. Entrambi hanno ormai smesso (se hanno mai cominciato) di fare opposizione al governo in carica e per la maggior parte delle votazioni nella Duma si sono schierati con Russia Unita.
I primi sono ormai un partito nostalgico e non hanno niente a che vedere con il vecchio PCUS se non per il nome in comune; entrati ormai nelle comode stanze del potere, i comunisti hanno mollato a qualsiasi resistenza nei confronti di Putin in nome del patriottismo. I secondi sono guidati da quello che da molti è stato definito il “Putin estremista”, Zirinovskij, favorevole a Putin soprattutto per quanto riguarda il neo-imperialismo russo e alle invasioni dei paesi confinanti e storicamente di influenza russa.
Dell’opposizione vera rimane poco e niente: Navalny sembra ormai incandidabile, Boris Nemtsov – altro storico nemico del presidente – è ormai morto da quasi tre anni in seguito alla sua uccisione per le strade di Mosca, poco prima di pubblicare un dossier che certificava le prove dell’invasione russa in Ucraina.
L’unica candidata apertamente anti-Putin è Ksenia Sobchak, 36enne ex celebrità televisiva e ora giornalista del canale DozhdTv. La “Paris Hilton russa” è stata l’unica ad affrontare temi delicati negli ultimi mesi come l’annessione della Crimea, della libertà di stampa, l’influenza della Chiesa Ortodossa sulla politica, corruzione e della strategia russa in Ucraina e Siria.

Ksenya Sobchak: oppositrice o mossa del Cremlino stesso?

Da non pochi, però, è additata come una mossa di facciata dello stesso Cremlino. Il dubbio è alimentato dal fatto che il padre di Ksenya è l’ex sindaco di San Pietroburgo Anatoly Sobchak, vero mentore politico e amico di Vladimir Putin.
Comunque vada, l’ennesima elezione falsata in Russia sarà una sconfitta per tutti. Tranne che per uno.

 

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Andrea Braschayko

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