Qualcuno potrebbe non crederci, o per lo meno dubitare di un’impressione del genere, ma anche in Italia è possibile fare satira di alto livello, senza per forza scadere in volgarità e banalità. Certo, essere capaci di fare ridere e al tempo stesso riflettere non è un’arte da tutti. Senz’altro però è arte – tra gli altri – anche di Arianna Porcelli Safonov, attrice e scrittrice che da molti anni si prodiga personalmente nella creazione (e con successo) di eventi che riguardano proprio la discussione e la comicità. Due punti cardine di un “programma” molto chiaro: evidenziare i difetti del nostro Paese, senza però perdere la voglia di riderci su.
Proprio la stessa Arianna Porcelli Safonov è la nuova protagonista del nuovo episodio della vostra rubrica preferita: con lei abbiamo discusso ovviamente di comicità, ma anche degli excursus letterari e della maniera di gestire certi progetti nel nostro amato e martoriato Bel Paese, nel quale spesso niente è davvero come sembra.
Ti definisci un’intrattenitrice, e a ragione, dato che in effetti intrattieni magnificamente. Ma quanti sacrifici hai fatto e quali studi hai dovuto intraprendere per arrivare ai livelli attuali?
«Più che sacrifici e studi, direi scelte. Prendere decisioni dovrebbe essere un’operazione abbastanza consolidata, in ambito umano; spesso invece procrastiniamo, ci adattiamo, rendiamo la nostra vita conforme alla proposta corretta che la società o la famiglia ci offrono. Ognuno ha un suo posto, un suo habitat, e non è detto che sia lo stesso in cui è nato o cresciuto: come amo dire spesso, non siamo alberi! Quindi, se per sacrifici intendiamo sacrificare una vita preconfezionata in nome della ricerca di una confezione più adatta a me, allora sì, ho fatto sacrifici. Ho sacrificato il mio amore per Roma e sono andata via, per non trovarmi nella spiacevole situazione di determinati contesti lavorativi torbidi. Ho sacrificato i miei studi di ideazione e produzione moda, insieme a dieci anni di professione nell’ambito dell’organizzazione eventi, per provare a dar forma ad un mestiere fatto di cose che mi piacciono: la narrativa, la risata, il dissenso».
Dal blog agli spettacoli il passo è stato breve. Quale pensi sia la sostanziale differenza tra queste due forme di comunicazione, che tu hai dimostrato di padroneggiare benissimo?
«Il blog di Madame Pipì è utile in quanto contenitore dei racconti che scrivo e che non vengono pubblicati in modalità cartacea, nei libri. Si tratta di uno spazio libero, senza indicazioni né veti da parte di nessuno, in cui anticipo, sperimento e propongo i nuovi pezzi per il live. La differenza è piuttosto banale: sul blog i racconti perdono autorità, diventano proposta narrativa senza impegno, righe da leggere il sabato mattina, come fossero inserti di un giornale; durante gli spettacoli, invece, i racconti prendono forma, braccia, gambe, volti e atteggiamenti, gridano e invitano al risveglio del senso critico, seppure nella risata. L’intento di spettacoli e blog è però comune: proporre contenuti che arricchiscano chi ascolta, contrariamente a quanto accade di solito in un panorama artistico e di costume che tende ad impoverire il fruitore».
Sulle tue pagine social i video che fai ottengono sempre grandissimo riscontro, a prescindere dal tema trattato. C’è però un argomento che per te è stato più complicato da affrontare, quantomeno a livello emotivo?
«Ancora no, quindi potenzialmente tutti! Cerco di trattare argomenti o piaghe sociali di cui io per prima sono vittima, e mi accorgo che, molto spesso, ciò non viene compreso. E mi dispiaccio, perché l’invettiva è sempre e prima di tutto contro alcuni miei atteggiamenti, a quanto pare, ampiamente diffusi. Il pezzo sul biologico, ad esempio, o quello sui vini naturali, sono monologhi non sempre capiti; sono piccole provocazioni dedicate a chi, come me, combatte ogni giorno, nella giungla dell’ipocrisia commerciale, col buon proposito di consumare in modo consapevole, risultando a volte ridicolo. Col monologo Terroir Sauvage ho ricevuto messaggi pieni di congratulazioni, e scatole di vino da alcuni produttori che hanno considerato il testo come un’invettiva contro il vino cosiddetto “naturale”, e dunque come un invito ad acquistare vino industriale, e vaffanculo alle nuove filosofie. Così, mi sono ritrovata in casa montagne di vini che non avrei mai bevuto e montagne di imbarazzo sul dover spiegare ai gentili produttori che certi vini velenosi non li bevo più, che preferisco i vini naturali, pur divertendomi a pigliare per i fondelli la figura del contadino leggendario che si sta pericolosamente diffondendo».
In un momento in cui è difficile far ridere tu riesci nell’impresa di creare divertimento partendo da temi pregni di serietà. Credi che le persone siano pronte, però, per ridere anche di cose delle quali – almeno in teoria – non si potrebbe?
«Credo proprio di sì, o quantomeno credo che sarebbe bellissimo! Non c’è bisogno di fare accurate analisi sociali, per rendersi conto di quanta decadenza accompagni l’Italia, in questa epoca. Ciò traspare da molti aspetti: da quello che ci propongono in TV, dall’incapacità – unica in Europa – di non ribellarsi alle discutibili classi politiche proposte, fino ad arrivare alla quantità di beni di lusso che possiamo permetterci pur vivendo in una situazione di precarietà che consente a pochi l’agio di comprare una casa o metter su famiglia. Nel mio piccolo, sono convinta che l’interesse del pubblico nei confronti dei miei monologhi sia una piccola ma inconfondibile conseguenza della necessità di ripristinare qualità e senso morale nel nostro Paese».
Cosa pensi della stand-up comedy e come mai, secondo te, in Italia è diffusa limitatamente?
«Non so quando smetteremo di importare e copiare qualsiasi stronzata provenga dagli Stati Uniti senza invece emulare gli atteggiamenti davvero invitanti che questo Stato offre, attraverso il suo popolo, in termini di creatività, leggerezza nei confronti della vita, rispetto per l’arte e meritocrazia. La stand-up è arrivata in Italia con quasi trent’anni di ritardo, ma ciò non la renderebbe così avvilente, se vi fosse più cura nella ricerca dei temi trattati. La stand-up ha il grande merito di non essere cabaret o comicità da villaggio turistico, ma di prendere posizioni importanti e determinanti nella proposta di un punto di vista critico, contemporaneo e personale. Personalmente mi spiace dover notare che, in Italia come in America, non si è perso il vizio della stand-up di cercare nel pubblico solo sconcerto, con tematiche che sviliscono pubblico e autore, come pratiche sessuali animali, drammi del genere femminile, vizi degli abitanti del sud e del nord. Mi chiedo quando la stand-up comedy al femminile si sentirà sicura e competente in ambito di narrativa comica, anche senza dover parlare di perdita della verginità e di altre banalità offerte senza buon gusto. Ecco cosa mi spiace davvero: che non si riesca a dare alla comicità la qualità che essa richiede, sotto aspetti banali ma fondamentali come le tematiche sociali importanti, la dizione e la cura nei confronti di una lingua incredibile come l’italiano. Queste sono le caratteristiche che dovrebbero rendere, a mio avviso, la comicità e la stand-up diverse, distanti e vincenti rispetto al cabaret televisivo che ci umilia e chiude il nostro senso critico, all’interno dei siparietti regionali».
Nel 2016 hai scritto un libro, Fottuta Campagna, nel quale racconti il tuo arrivederci alla città in favore di un contesto più pacato. L’esperienza da scrittrice ti ha migliorato in qualche maniera anche come donna ed essere umano? Hai in programma di scrivere ancora?
«Niente mi migliora, come essere umano, quanto il vino e il mare. Spero che la lettura migliori, semmai, l’umore del lettore. Con Fazi ho pubblicato, oltre a Fottuta Campagna, anche Storie di Matti, e la nascita di un libro è sempre un’esperienza tra le più belle che si possano fare, se ami scrivere. Ho in cantiere altri due manoscritti: spero che, come dice Michela Murgia [nota critica letteraria, N.d.R.], gli alberi non si vendichino con me ma si rivolgano ad altri!»
Il sogno di Arianna Porcelli Safonov come artista?
«Non ho sogni nel cassetto: sono tutti sul tavolo, in costruzione».
In generale, l’arte può ancora essere veicolo di qualità, ma, soprattutto, influenzare davvero il mondo circostante, sempre più dominato dai social e disaffezione all’accuratezza?
«Come dicevo anche prima, l’arte dovrebbe combattere ogni impulso esterno o interno che la costringa ad esprimere solo la cartina tornasole della situazione presente. L’arte deve prendere artista e pubblico e portarli fuori, in un’altra dimensione, sotto un’altra luce, proporre un altro punto di vista critico e morale, dove il termine “morale” ha un’accezione positiva, fondamentale per la nostra storia. Chi sfrutta l’arte per produrre mondezza, con la giustificazione che “se il pubblico la guarda/la ascolta/la legge, funziona!” è un criminale, perché compie un crimine contro l’umanità e contro la sua impellente necessità di essere nutrita da cose belle o dure ma che la arricchiscano».
Prova a guardarti per un attimo indietro: c’è qualcosa che rifaresti o un errore che non commetteresti?
«Ci sono moltissime marchette professionali che sento di aver fatto, nonostante, ai tempi, non avessi necessità economiche urgenti o pensassi che, in nome del sacro lavoro, si dovessero accettare proposte non aderenti al proprio stile di vita: pubblicità di prodotti che non stimo, presenze in programmi che non condivido, spettacoli per committenti che non apprezzo. Non rifarei queste cose perché, se è pur vero che io non sono il mio lavoro, è vero anche che io sono fatta delle mie scelte e, dunque, anche di quelle lavorative».
Bene, ora guarda avanti: cosa vedi per Arianna Porcelli Safonov?
«Vedo feroci lotte contro il fisco italiano, contro un’amministrazione che chiede dure imposte ma non offre servizi in cambio; vedo una casetta al mare dove riprendere le forze, vedo altri libri, tanti spettacoli e, spero, anche un programma web o TV da cui il pubblico possa riprendere forza, speranza e reazioni anziché pubblicità, minigonne e dibattiti su amori estivi dei vip».
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