Nuove proteste in Tunisia contro tasse e povertà

A inizio gennaio in diverse città della Tunisia, tra le quali la capitale, si sono diffuse proteste contro le misure di austerità volute dal governo. In alcune città i manifestanti sono stati centinaia, con barricate e negozi vandalizzati, lacrimogeni e scontri con le forze dell’ordine. Altrove, come nelle città di Jebeniana e di Sfax, distanti tra loro circa trenta chilometri, le manifestazioni hanno visto scendere in piazza famiglie con bambini, anche se il tutto si è svolto in modo più pacifico rispetto al resto del Paese. Il bilancio di queste giornate è stato di circa 700 arresti e di un uomo morto a Tebourba, a una trentina di chilometri dalla capitale.

Il causus belli

Sono passati già sette anni da quando il giovane ambulante tunisino Mohamed Bouazizi si dette fuoco davanti al palazzo del Governatorato di Sidi Bouzid a seguito della volontà delle autorità di revocargli la licenza, segnando simbolicamente l’inizio della Primavera Araba, l’insieme di movimenti di proteste popolari diffusi nei Paesi arabi, con risultati tra loro diversi, ma in generale alquanto deludenti. L’unica eccezione è data dalla primavera tunisina che è considerata oggi l’unica ad avere portato a un esito democratico, anche se il Paese, in verità, negli ultimi sette anni non ha risolto i propri problemi socio-economici né raggiunto una stabilità governativa. Infatti, dopo la caduta del regime autoritario del generale Zine El-Abidine Ben Ali vi sono stati omicidi politici e si sono succeduti nuovi governi, sino all’ultimo esecutivo guidato dal quarantenne Yūssef al-Shāhed, del partito di matrice laica Nidaa Tounes, fondato nel 2012. Quest’ultimo ha stretto un anno fa un accordo con il Fondo Momentario Internazionale per un prestito di quasi tre miliardi di dollari distribuiti in quattro anni, con la promessa di implementare in cambio riforme economiche, fra le quali l’eliminazione di ventimila impiegati pubblici e la riforma del sistema pensionistico, il cui deficit in due anni è aumentato del 65% a 440 milioni di dollari. Il governo di Tunisi non ha però attuato queste riforme dal momento che confidava nel 2017 per un irrealistico aumento del Pil superiore al 4%, mentre, in realtà, se sarà raggiunto il 2% sarà già un miracolo. Inoltre, la decisione di innalzare l’età pensionabile da 60 a 62 anni, già precedentemente varata, ha avuto un impatto irrisorio. A tutto questo vanno aggiunti l’inflazione sopra il 6%, la pesante svalutazione del dinaro tunisino, la disoccupazione giovanile che si aggira al 38% e la crisi del settore turistico, entrata importante per l’economia del Paese (circa l’8% del PIL sino al 2011) che non si è ancora ripreso dopo il declino in seguito agli attacchi terroristici del 2015. Di conseguenza, il governo si è trovato costretto ad attuare ulteriori riforme, che sono difatti entrate in vigore con la nuova legge di bilancio il primo gennaio 2018 e prevedono l’aumento della tassazione sui carburanti, sulle tessere telefoniche, sulla frutta e verdura, e, di conseguenza, un rialzo generale del costo della vita. Ad aggravare la situazione vi è anche la decisione di dare un taglio agli stipendi e alle nuove assunzioni nel settore pubblico, dal momento che rappresentano la metà delle spese statali. Il Primo ministro Yūssef al-Shāhed ha provato in modo invano a chiedere la comprensione da parte dei cittadini, con l’auspicio che il 2018 sia l’ultimo anno veramente difficile per i suoi connazionali, ignorando le richieste presenti già negli ultimi tempi dei sindacati di aumentare il salario minimo, che attualmente si aggira ai 130 euro mensili, e di fornire maggiori sussidi ai poveri.

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Manifestanti a Tunisi. (FETHI BELAID/AFP/Getty Images)

Chi c’è dietro le proteste

Le proteste sono piuttosto comuni in Tunisia nel mese di gennaio, dal momento che ricorre l’anniversario della caduta del lungo regime autoritario, e sono viste come un segno della crescita degli spazi democratici del Paese e di un popolo che non ha più paura di esprimersi. Quelle di quest’anno sembra che siano nate spontaneamente dal basso, da una popolazione che si sente disperata. Un ruolo chiave è stato però giocato anche da un nuovo movimento, composto soprattutto da giovani, che si chiama Fesh Nestannew, che significa nel dialetto tunisino “Cosa stiamo aspettando?”, sottolineando la necessità di agire velocemente contro le riforme economiche sfavorevoli e di chiedere cambiamenti effettivi. Il concetto di immediatezza è evidenziato anche dal logo, rappresentato da una sveglia. I suoi membri sono circa seimila, sparsi in tutto il Paese, concentrati soprattutto però nella capitale. Alcuni di loro appartengono a partiti di opposizione, altri invece sono indipendenti. Tuttavia, il loro intento è pacifico, come vogliono dimostrare quelli che hanno deciso di protestare vestiti da pagliacci. Come ha riportato la giornalista web reporter di France24, Sarah Leduc, questi giovani attivisti, studenti e artisti, hanno deciso di indossare un naso rosso per fuggire dalle accuse del governo di essere dei delinquenti, dimostrando di voler solo avanzare delle richieste di maggiore equità sociale vero un governo che sta sacrificando i poveri e la classe media invece di portare avanti la lotta alla corruzione e all’evasione fiscale dei più abbienti. A supporto dei manifestanti vi è anche l’opposizione, in particolare il Fronte Popolare, una coalizione politica creata nel 2012 che raggruppa dodici partiti e associazioni della sinistra, nazionalisti, ecologisti e intellettuali indipendenti, il cui portavoce Hamma Hammami ha invitato i manifestanti a non arrendersi, anche tramite la sua pagina facebook.

Come ha reagito il governo

Il governo, nonostante inizialmente avesse chiesto la comprensione dei cittadini, ha annunciato poco dopo un nuovo pacchetto di riforme, con la speranza di porre fine il prima possibile alle grandi proteste diffuse su tutto il territorio. Infatti, il ministro per gli affari sociali, Mohamed Trabelsi, ha annunciato la nuova decisione, che consiste sostanzialmente in un pacchetto di aiuti sanitari per i giovani senza lavoro, che in Tunisia costituiscono un’emergenza sociale. Anche le pensioni subiranno un aumento, anche se non è stato ancora annunciato di quanto. Per le famiglie povere è prevista una meno precisata assistenza familiare e, allo stesso tempo, sarà stabilito un fondo ad hoc per facilitare l’acquisto delle case per le classi deboli adesso che il mercato immobiliare, che soffre di una carenza strutturale di alloggi nei centri urbani, è molto proibitivo per i tunisini. Per quanto riguarda i fondi, il governo è però deciso a portare avanti la linea di austerità e mantenere quindi la legge finanziaria del 2018, in modo da sbloccare il prestito accordato con il Fondo monetario internazionale. Le risorse necessarie saranno prese dalle riserve dello Stato, come ha annunciato Rached Ghannouchi, l’anziano leader del partito islamico moderato Ennahda, adesso parte della coalizione di governo. Una tipica misura popolare per cercare di mantenere il supporto della popolazione, soprattutto della classe meno abbiente, anche se il problema principale è sapere se la quantità delle riserve necessarie sarà sufficiente e se sarà possibile svincolare quest’ultime facilmente.

Attivista di Fech Nestanew, durante la manifestazione a Tunisti il 14 gennaio scorso. Fonte © Sarah Leduc, France 24

Nonostante l’esito di queste decisioni sia difficile da prevedere, gli analisti ritengono che una nuova rivoluzione sia ancora lontana. Quel che è certo è che il governo non ha una visione economica chiara se non quella di seguire le indicazioni che il Fondo Monetario Internazionale ha imposto. Il messaggio delle proteste in piazza è però un messaggio politico, che non può essere risolto con riforme economiche dettate dall’emergenza dell’ultimo momento.

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