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La cittadinanza di fronte allo ius soli

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Pietro Lepidi

«Tutti gli uomini nati e domiciliati in Francia sono membri di quella società politica che chiamiamo nazione francese; cioè sono cittadini francesi. […] La qualità di cittadini ci obbliga soltanto a contribuire alla spesa comune dello Stato secondo le proprie possibilità».

Maximilien de Robespierre (1758-1794)

È difficile non cogliere da queste parole di Robespierre il suo spirito accanitamente rivoluzionario, riassumibile in quel termine «tutti» all’inizio della citazione. Il vero carico di novità della rivoluzione francese infatti è questo: abbattere i ceti e i privilegi di nascita a favore di una politica che comprenda tutti quei membri dello stato che desiderino partecipare ad essa. Di conseguenza, tutti i titoli della nobiltà e del clero ottenuti per diritto di sangue che caratterizzavano la stratificazione politica, civile e sociale – quali marchese, duca, conte, vescovo e cardinale – vennero aboliti, per introdurre un titolo saldante e unificatore quale “cittadino”. La forma di stato che vogliamo dare a un paese si gioca su quale significato abbia la parola cittadino, in quanto il termine è il fondamento essenziale di ogni decisione politica e giurisdizionale.

Nella storia dalla Restaurazione a Facebook, la società ha visto una progressiva democratizzazione dei diritti politici e sociali: parti sempre maggiori della popolazione hanno guadagnato il diritto di partecipare alla politica e di modellarla, mentre allo stesso tempo le rigide divisioni sociali si sono basate sempre meno sulla nascita e sempre più sul denaro e sull’educazione. Accanto a questo motivo equalizzatore, tuttavia, il termine “cittadino” ha anche assunto nel tempo, specialmente tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, un significato collegato alla formazione dello stato-nazione. Questo contesto prevede che un membro della società, per motivi di trasmissione culturale e genetica, debba conservare delle qualità e delle abitudini comuni alla grande maggioranza dei membri che vivono all’interno dei confini dello stato, il quale può dunque identificarsi come nazione. Tratti comuni che possono essere culturali, linguistici, geografici, ambientali, magari anche culinari, e che possono persino divenire tratti somatici e genetici propri di ogni individuo. Le scelte politiche dei paesi europei, fatte nel periodo in cui queste idee erano condivise dalla maggior parte dei cittadini, portarono, attraverso guerre e persecuzioni contro lo straniero, a migrazioni tra i popoli verso stati di cui essi sentivano di condividere i valori nazionali. Questo processo ha infine portato ad avere negli stati una forte omogeneità etnica, specie se si considera che le minoranze linguistiche oggi presenti all’interno degli stati sono molto minori rispetto a quelle che li popolavano prima dei conflitti mondiali.

È proprio alla fine dei conflitti mondiali che l’opinione pubblica europea comincia a sentire la necessità di un cambio di rotta riguardo ai sentimenti nazionali. Realizza cioè che «nazionalismo è quando l’odio per quelli diversi dalla tua gente viene per primo», per citare Charles de Gaulle. La fine della seconda guerra mondiale dà il via, nel mondo economico occidentale, al trionfo del commercio internazionale, accompagnato dalla nascita di maggiori accordi, relazioni e istituzioni globali, e infine da una forte apertura del cittadino nazionale a culture, lingue, paesaggi ed esperienze culinarie extranazionali. Il fenomeno della globalizzazione è sicuramente cresciuto fino ad oggi, e ha favorito un considerevole aumento nel numero delle migrazioni, che sono la vera nuova frontiera della discussione sulla cittadinanza.

Il motivo tangibile per cui il discorso sulla cittadinanza torna a far parte delle discussioni quotidiane del legislatore, come anche dell’opinione pubblica, è il disegno di legge d’iniziativa popolare n. 2092, approvato dalla Camera dei deputati il 13 ottobre 2015 e da allora fermo in senato. Stiamo parlando dell’ampliamento del diritto di cittadinanza a coloro che posseggono i requisiti dello ius soli e ius culturae. La proposta di legge, riassunta in breve, prevede il diritto alla cittadinanza per i figli di stranieri con permesso di soggiorno permanente: permesso che, come requisiti, richiede il possesso di un lavoro stabile e di una dimora dignitosa per cinque anni consecutivi, oltre al superamento di un test di giurisdizione italiana. È lecito dunque chiedersi se ci sia bisogno di allargare ulteriormente la cittadinanza in senso etico, lasciando da parte motivazioni che riguardano introiti economici e convenienza demografica: queste motivazioni, infatti, permetterebbero di svendere l’appartenenza sociopolitica a uno stato, trasformando l’acquisizione di diritti in una compravendita moralmente discutibile e potenzialmente dannosa.

Di fronte alla questione della definizione della cittadinanza rimangono percorribili due definizioni: cittadino come “connazionale” o cittadino come “equalizzatore”. Queste due definizioni devono necessariamente essere in contrasto, per quanto la cosa possa stupire, perché il temine connazionale non può essere un elemento equalizzatore; tuttavia, per riprendere la citazione di De Gaulle, la nazione si basa necessariamente su elementi che separano uomini su basi culturali. Le basi culturali del nazionalismo non sono discutibili, e sono molto difficilmente mutabili. Oggi la cittadinanza si basa proprio su questo concetto nazionalista nell’acquisizione per ius sanguinis: si diventa italiani solo per discendenza, in quanto si crede che solo un italiano possa trasferire la cultura e le tradizioni italiane attraverso l’educazione familiare. Questo sistema fu creato per garantire ai numerosi cittadini che allora emigravano all’estero un collegamento giuridico con la patria. Oggi, poiché si è italiani fino alla seconda generazione non residente nel paese, si riscontrano numerose sacche di cittadini italiani all’estero che, pur avendo il diritto di rappresentanza politica, contribuiscono in modo molto flebile allo sviluppo morale ed economico del paese: cittadini che a volte si rifiutano di essere tali, si pensi al caso del ministro australiano Canavan. Per capire quanto i cittadini italiani all’estero partecipino alla politica, basti ricordare che il legislatore riguardo alla rappresentanza dei cittadini residenti all’estero ha recentemente approvato il famoso emendamento salva-Verdini, per cui i loro rappresentanti potranno essere anche residenti in Italia. A tal proposito non ci sono state grandi proteste da parte dei cittadini esteri, seppure questi ultimi non saranno probabilmente più rappresentati da membri della loro comunità.

Matt Canavan, classe 1980, australiano, nel luglio 2017 si dovette dimettere dalle sue cariche di senatore e ministro australiano per le Risorse federali per aver scoperto di essere italiano.

La giurisdizione italiana oggi, come eredità di una cittadinanza basata su idee nazionalistiche, riconosce due tipologie di residenti permanenti nello stato: il cittadino e lo straniero con permesso di soggiorno permanente. Entrambe le condizioni garantiscono una serie di diritti e doveri comuni, quali il diritto ad accedere alla sanità pubblica, il diritto e dovere all’istruzione e il dovere di pagare le tasse. La differenza principale sta nei diritti politici: solo i cittadini, infatti, possono partecipare attivamente alle scelte politiche e contribuire all’aggiornamento delle norme sociali che riguardano tutti gli appartenenti della società civile. Anche se è possibile che uno straniero ottenga la cittadinanza, i dati dichiarano che le acquisizioni della cittadinanza da parte di cittadini stranieri residenti in Italia sono state nel 2015 circa 178.000, corrispondenti al 3,5% dei residenti permanenti senza diritto di cittadinanza. Ma il dato più incisivo è forse che dei membri permanenti dello stato che contribuiscono alla sua forma sociale ed economica, l’8% (cinque milioni) non ha rappresentanza politica e non può difendere i suoi diritti in un qualsiasi organo ufficiale di revisione normativa. Lo stato italiano, insomma, non tiene in considerazione – per ottenere diritti politici – quale contributo un membro della comunità abbia dato al progresso socioeconomico dello stato. Per di più, nemmeno coloro che hanno completato un ciclo di studi nella scuola italiana possono facilmente sperare nella cittadinanza. Questo fatto fa presupporre che il sistema educativo non sia sufficiente per apprendere la cultura e tradizione italiana, cosa alquanto preoccupante, e inoltre rischia di vanificare un investimento culturale ed economico nel ragazzo, che, sentendosi così psicologicamente apolide, sarà più intenzionato in futuro a lasciare il paese.

Oggi non dobbiamo compiere l’errore già commesso dall’opinione pubblica prima delle guerre mondiali, l’errore cioè di scegliere la strada della nazione come criterio di cittadinanza. La strada che indica una cultura globale e che si integra con essa, piuttosto, è quella secondo cui lo stato, all’interno di confini fissi, impone la cittadinanza come denominatore di diritti e doveri comuni a tutti i membri attivi nella società. Cittadini sono infatti coloro che contribuiscono con il loro lavoro mentale o fisico allo sviluppo del paese. Vige un sistema democratico quando tutti i cittadini, a prescindere dal loro passato, si impongono sul loro lavoro e sulla loro vita quotidiana delle regole, tenendo conto di tutti i pareri e sintetizzando da essi la linea politica comune da seguire. Lo stato italiano si fonda su una costituzione che recita «Repubblica democratica, fondata sul lavoro», eppure è in contraddizione con sé stesso quando permette a una così ampia fascia della popolazione residente e lavoratrice di non avere diritti politici.

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Pietro Lepidi

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