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Modernizzazione agricola: «Io sono l’Italia!»

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Federico Massari

Gli articoli precedenti:
1. Come nasce il capitalismo agroalimentare


Come si sente palare di modernizzazione, il primo campo nel quale se ne immagina l’applicazione è quello scientifico-tecnologico. Certo, è l’aspetto saliente delle rivoluzioni industriali che si sono verificate a partire dal Settecento. Ma l’invenzione di un nuovo macchinario, o altro che semplifichi la vita a un produttore (in termini di risparmio di manodopera e sensibile aumento della produzione), è un’innovazione che rimane fine a sé stessa se non è accompagnata da una sua sistematica diffusione. E per diffondere qualcosa serve un apparato comunicativo, ma su che scala? Servono leggi per definirne i confini di diffusione, sia a livello territoriale che a livello aziendale. La modernizzazione, in questo caso agricola, non può prescindere una modernizzazione istituzionale, che sia capace di interpretare le variabili che più influenzano la nostra vita a livello individuale e collettivo, e che sia capace di canalizzare il bisogno verso una soluzione che possa interessare direttamente la maggior parte della popolazione.

Questo genere di modernizzazione si verificò periodicamente nel corso della storia italiana, com’è naturale che sia. Nonostante ciò, mentre nei decenni preunitari i maggiori paesi industriali europei (come Inghilterra, Francia, Belgio, Prussia) procedevano a passi da gigante estraendo milioni di tonnellate all’anno di materiale per la combustione, la frammentata Italia stava facendo i conti con un crescente fervore patriottico che richiamava all’unità della penisola. Prima e Seconda Guerra d’Indipendenza, le Cinque Giornate di Milano, la Repubblica Romana: parallelamente a tutti questi eventi che contribuirono sensibilmente all’unità territoriale e alla creazione di un’identità nazionale, ci fu chi si preoccupò delle questioni della terra, cosciente del fatto che la creazione di uno stato nazionale fosse inutile senza un settore agricolo capace di competere con le altre potenze europee, dove la rivoluzione industriale era già matura.

L’anima agricola dell’Unità d’Italia

Ricordato dalla storia come l’artefice politico dell’unità d’Italia, Camillo Benso Conte di Cavour fu prima di tutto, come suggerisce il nome, un conte. La famiglia era proprietaria di una vasta porzione di terreni a Leri, un borgo oggi disabitato in provincia di Vercelli, e proprio di quelle tenute, complessivamente all’incirca 700 ettari, Camillo diventò il conduttore a soli venticinque anni, dopo una breve carriera politica comunale. Il passaggio dalla carriera politica alla carriera agricola imprenditoriale non fu tuttavia definitivo, anzi: sarà proprio quest’ultima ad aprire le porte al Conte a cariche istituzionali più elevate.

Camillo Benso Conte di Cavour.

Nel 1847 partecipò alla fondazione del periodico Il Risorgimento, strumento di propaganda liberale che partecipò alle pressioni per la promulgazione dello statuto albertino del ’48 (una sorta di contentino di diritti costituzionali da parte del Re) e allo stimolo di sentimenti patriottici a favore dell’Unità d’italia, e dunque di guerra all’Austria. Non era la prima esperienza alle prese con giornali e periodici. Già all’inizio degli anni ’40 fondò a Torino l’Accademia Agricola con annessa gazzetta per consentire una migliore comunicazione e ricerca dei progressi agronomici correnti. È proprio durante gli anni della fondazione dell’Accademia che nell’ambiente si inizia a riflettere sulla realizzazione di un canale che consenta l’apporto di acqua dal Po ai comuni limitrofi. Il Canale Cavour, progettato e realizzato su pressione del conte piemontese da Carlo Noè, fu terminato a metà degli anni ’60, ad Unità già fatta.

Il futuro Ministro di Agricoltura, Marina e Commercio nel Regno di Sardegna (1850-1852), Primo Ministro del Regno sabaudo (1852-1859) e del Regno d’Italia sperimentò nei suoi vasti terreni le prime coltivazioni di barbabietola da zucchero, conscio dei vantaggi di una possibile riduzione delle importazioni di zucchero dall’estero; proseguì gli studi sull’integrazione dell’allevamento e dell’agricoltura, introducendo il trifoglio per sfamare il bestiame nelle rotazioni con altri cereali come mais e riso, di cui si preoccupò di ottenere nuove varietà; si dedicò a sperimentare nuovi concimi miscelando quelli già utilizzati (cenci di lana e guano, o calce e marne, rocce con proprietà ammendanti e correttive) per ottenere rese più elevate e si prese carico dell’importazione di suini dall’Inghilterra da incrociare con quelli della tenuta per ottenere nuove razze.

Radice della barbabietola da zucchero utilizzata per l’estrazione per l’alto contenuto di saccarosio.

Uno dei tanti meriti di Cavour fu proprio quello di aver compreso che lo sviluppo dell’agricoltura avrebbe inevitabilmente determinato lo sviluppo del Regno, quello di Sardegna prima, quello d’Italia poi. Il peso infatti che l’agricoltura ebbe sulla produzione nazionale rimase maggiore rispetto all’industria fino alla Seconda Guerra Mondiale. Lo stesso acume nel comprendere quale sarebbe stata la via da intraprendere per entrare dignitosamente nello scacchiere europeo lo possedeva nella scelta delle personalità che avrebbero costituito il primo Parlamento del Regno d’Italia. Conscio che la neonata Italia avrebbe avuto bisogno non solo di unità territoriale e progresso economico-scientifico ma anche di alcuni principi di unità culturale e spirito unitario chiamò in Parlamento, nonostante la scarsa partecipazione, l’oramai compositore di fama mondiale, nonché proprietario terriero e conduttore agricolo come lui, Giuseppe Verdi.

Mille lire con Giuseppe Verdi, emesse tra il 1962 e il 1969.

La carriera da compositore di Giuseppe Verdi iniziò a metà degli anni ’30 dell’Ottocento. La fama sarebbe arrivata con fatica, ma gli avrebbe garantito di diventare un’icona del risorgimento. Nel 1848 il Nabucodonosor approdò nei teatri di New York portandolo all’apice della fama internazionale. L’anno dopo, nel gennaio del 1849, ci fu la prima al Teatro Argentina di Roma de La Battaglia di Legnano, la quale inscena la battaglia dei Comuni della Lega Lombarda contro l’Imperatore Federico Barbarossa.

Tra il pubblico vi erano Giuseppe Mazzini e Garibaldi, e il primo deve aver provato un’ispirazione patriottica abbastanza forte – sembra infatti accertato che il compositore avesse sentimenti unitari e repubblicani – tale da commissionare a Verdi un inno nazionale italiano. Era l’alba della Repubblica Romana e del triumvirato di Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini. Ma gli animi si spensero presto, con l’irruzione dell’esercito francese nella futura capitale del Regno, e l’inno di Verdi venne accantonato.

Amos Cassioli, La battaglia di Legnano (1860-1870). La battaglia come evento storico risale al 1176.

Il percorso unitario non si era tuttavia arrestato. Con il tempo si ricrearono le condizioni per un secondo tentativo, dopo il fallimento della Prima Guerra d’Indipendenza e della Repubblica Romana. Fatto significativo fu che alla fine degli anni ’50 si diffuse sui muri di importanti città come Napoli e Milano l’incitazione «Viva Verdi!». Altro non era che un acronimo per Vittorio Emanuele Re D’Italia, e il fatto che comparisse sulle mura di città borboniche e austriache gli faceva assumere una carica nazionalista, evidentemente molto diffusa tra la popolazione. Fu probabilmente per la fama internazionale e l’immaginario collettivo che ispirava la sua rappresentanza a farlo introdurre a una breve e forse affrontata di malavoglia carriera politica, anche su richiesta del Conte di Cavour.

«Quella musica fatta di passione ardente, di alta malinconia, di realtà straziante e speranze inestinguibili, andando da popolo a popolo, diceva nel mondo: “io sono l’Italia”» (Carlo Calcaterra).

Così come il Primo Ministro del Regno d’Italia, anche Giuseppe Verdi era un proprietario terriero. Era solito ritirarsi nella sua tenuta di Sant’Agata, l’oasi in cui ricercare la tranquillità e fuggire dalla frenesia della sua carriera. Qui si rivelava la sua anima da imprenditore agricolo. Dalle raccolte epistolari con alcuni dei suoi fattori (coloro che si occupavano dei terreni di sua proprietà) si evince un forte interesse e una partecipazione esuberante alle attività delle sue tenute che sfociava sovente nella rabbia, quando veniva escluso nella messa in opera di un nuovo macchinario o quando non si rispettavano alla lettera i suoi ordini. Gran parte dei suoi possedimenti (che all’apice toccavano i 900 ettari; il censimento del 1901 ne contò 700) furono acquistati grazie ai guadagni garantiti dal successo internazionale.

Il futuro dell’agricoltura italiana a Rieti

Si potrebbero citare altri casi di province italiane in cui si è verificato quel tipo di sviluppo agricolo che rispecchia la definizione di modernizzazione e che si sarebbe poi diffuso su larga scala lungo la penisola. Tuttavia, sarà proprio lo sviluppo agricolo locale di Rieti a influenzare maggiormente l’indirizzo produttivo nazionale, il quale determinerà i rapporti con le altre potenze europee, più nel XX secolo che nel XIX.

È infatti della zona una varietà di frumento particolarmente apprezzata dagli agricoltori, il “rieti originario”. Questo grano da seme, a differenza delle altre varietà utilizzate al tempo, offriva una buona resistenza alla ruggine, una malattia fungina che crea problemi tutt’ora. Il rieti originario si diffuse rapidamente nel Lazio, in Umbria, nelle Marche e alcune zone dell’Emilia Romagna. Il prezzo rispetto alle altre varietà era di gran lunga maggiore, tanto che, soprattutto nel Sud Italia, l’accesso alla nuova e redditizia varietà venne concepito dai più come prerogativa dei soli agricoltori facoltosi. Anche le frodi non tardarono a manifestarsi, tanto erano economicamente allettanti.

È doverosa un’anticipazione: il tanto amato rieti originario fu la varietà alla base del lavoro dell’agronomo Nazareno Strampelli, i cui risultati gettarono le basi per la politica agraria fascista (e la “battaglia del grano”), e per l’ottenimento di nuove varietà di cereali altamente produttive tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, durante la cosiddetta “rivoluzione verde” che interessò tutto il mondo.

Il genetista italiano Nazareno Strampelli, personalità cruciale per la modernizzazione agricola italiana.

Nei due decenni che hanno preceduto l’Unità d’Italia, a Rieti la modernizzazione agricola si faceva strada tramite la costituzione di istituti agrari e associazioni (come l’accademia agraria di Rieti fondata dal delegato apostolico Bartolomeo Orsi), caratterizzati da un forte spirito di carità – fornivano ad esempio un’istruzione agraria a orfani che venivano alla maggiore età licenziati – per poi assumere nel corso degli anni le caratteristiche di un luogo di dibattito e divulgazione agricola, soprattutto nei periodici associati nei quali iniziava a comparire sempre più spesso, ad esempio, la parola “sperimentale”.

Nel corso degli anni ’50 il settore agricolo dello Stato Pontificio assume un carattere sempre più moderno: viene promulgata una legge che previde la costruzione di una serie di opifici sparsi su tutto il territorio per fornire agli agricoltori gli strumenti necessari per lavorare (vanghe, falci, aratri). Nel 1858 venne fondata l’Accademia Economica Agraria per la provincia di Rieti, che si prefiggeva il «miglioramento reale dell’agricoltura e dell’economia rurale in tutti i suoi rami».

Nella realtà dei fatti i risultati ottenuti da queste associazioni non furono quelli sperati, e ciò fu forse dovuto anche agli scarsi finanziamenti che ricevevano. In seguito all’Unità invece si iniziarono a percepire motivi di cambiamento: il Comizio Agrario Sabino, nato nel 1864, si prenderà carico di allestire l’esposizione agraria del 1866 a Rieti. Venne ad esempio mostrato il procedimento di estrazione dello zucchero da parte di una società francese, e presentato un aratro volta-orecchio particolarmente adatto alle zone collinari.

Inoltre, alla fine degli anni ’70 il segretario del Comizio Sabino Riccardo Gamba mise in luce le precarie condizioni dei contadini denunciando il contratto di mezzadria, accusato di essere il principale mezzo d’indebitamento dei contadini nei confronti dei proprietari terrieri. Si apriva la stagione delle inchieste agrarie, prevalentemente su commissione di deputati socialisti.

La produzione media nazionale di frumento nel decennio 1861-1870 si assesta a quasi 4 milioni di tonnellate. Al 2012 in Italia, il frumento tenero rende in media cinque tonnellate su ettaro, contro le tre tonnellate per ettaro del frumento duro.

L’agricoltura del nuovo Regno d’Italia

Oltre al contributo economico dato dalle tasse sull’agricoltura, ragguardevole è l’impiego di lavoratori in quel settore, e proprio per questo motivo si è sentito il bisogno di certificare le condizioni di vita di questi lavoratori. La produzione agricola italiana era forte per quanto riguardava il frumento, mais, patata e tabacco. La risicoltura era ancora ristretta alle aree piemontesi e lombarde, dove l’apporto di acqua, essenziale e ingente per questa coltura, era più facile data la presenza del Po. Per quanto riguarda lo zucchero, non sono disponibili dati per il decennio ’61-’70. Nel decennio successivo invece si registrano 98 tonnellate prodotte, si presume per l’incremento dell’interesse nazionale verso il settore della trasformazione dei prodotti primari.

Vigneto delle Langhe.

Sui periodici di agricoltura del tempo inizia a circolare infatti il concetto della “povertà naturale” del suolo italiano; e con povertà del suolo s’intende l’insufficienza di fertilità minerale e organica del suolo che garantisca un rapporto qualità/quantità soddisfacente senza l’apporto artificiale di concimi o fertilizzanti. Questo sarà il motivo per cui la nascente industria alimentare italiana si specializzerà sempre di più nel corso dei decenni verso i prodotti che acquistano valore aggiunto durante la trasformazione, come il vino, la pasta, formaggi o lo zucchero, fino a raggiungere i volumi di export di oggi (circa 40 miliardi nel 2017).

Ad armi pari nel mondo globalizzato

Le logiche dell’economia e del commercio di stampo liberale avevano già attecchito bene in paesi come la Francia, l’Inghilterra e il Belgio. Erano proprio paesi come questi a detenere il primato di potenze economiche mondiali, avendo costituito nei decenni precedenti il terreno fertile per la rivoluzione industriale e l’attecchimento della società borghese, ed essendo dotati di un’unità secolare e conseguentemente di una solida base giuridica tali da poter sostenere e incentivare con successo la produzione nazionale e gli scambi con gli altri paesi, per acquisire fette di mercato sempre più grosse.

Negli anni ’60 e ’70 dell’Ottocento tuttavia entrano in gioco due nuovi stati nazionali: il Regno d’Italia e la Germania. Al contrario dell’Italia, la quale si è presentata al mondo essenzialmente come un paese agricolo in via di sviluppo, reputazione artistica a parte, la Germania fa il suo ingresso tra le sopracitate potenze (di cui non ci sentiamo di dire che l’Italia facesse parte) molto rapidamente.

L’indennizzo di guerra con il quale Otto Von Bismarck – esponente della nobiltà agricola prussiana – riuscì a unificare la Germania fu economicamente molto vantaggioso, da un lato appunto per l’indennizzo vero e proprio pagato dalla Francia, dall’altro per l’annessione dell’Alsazia e la Lorena, regioni molto ricche di miniere, e non serve rimarcare quanto l’approvvigionamento di materiale per la combustibile e per la produzione di acciaio fosse indispensabile per il mantenimento dello status economico rispetto ai paesi concorrenti.

Illustrazione raffigurante la produzione di coke. Immagine: Wikipedia.

Nel libero mercato, si sa, la concorrenza si svolge senza esclusione di colpi. E l’entrata in gioco di nuovi stati nazionali è capace di cambiare i rapporti di potere tra di essi (basti pensare all’asse Roma-Berlino antecedente la Seconda Guerra Mondiale, accordo d’intesa italo-tedesca basato sull’interscambio dei principali beni di produzione delle due nazioni: grano e acciaio). Per questo motivo le istituzioni devono prendersi carico di creare le condizioni più favorevoli per resistere a una concorrenza distante anche centinaia di chilometri, e che produce spesso in condizioni più favorevoli (che sia per il costo della manodopera o per lo spazio disponibile per quanto riguarda l’agricoltura).

Proclamazione a Versailles del Reich Tedesco (1871).

In più, la rivoluzione dei trasporti avvenuta con l’arrivo del treno eliminò limiti al commercio e all’economia che fino ad allora sembravano invalicabili. Spostare una mandria per la produzione di carne prima dell’avvento della ferrovia era un mestiere pieno di rischi e dai tempi molto distesi. Il lavoro di settimane, con dei binari e un paio di vagoni, si riduceva a questione di giorni. E spesso, per resistere alle pressioni del mercato, l’unico modo è quello di avere a disposizione una cospicua somma di denaro da poter investire.

Modernizzazione del sistema dei trasporti. Foto: Wikipedia.

Durante il ventennio 1850-1870 si rivoluziona infatti il sistema del credito, oltre che a quello monetario e finanziario. L’unificazione di due nuovi stati ha portato all’introduzione di due nuove monete, e ciò ha comportato un incremento degli accordi monetari tra stati che facilitassero la circolazione di capitale. Parallelamente a ciò, la nascita delle società per azioni e delle società a responsabilità limitata hanno richiesto una riforma del sistema bancario che garantisse a quest’ultime un accesso al credito più immediato e più cospicuo.

Il banchiere Enrico Cernuschi, il quale partecipò alla difesa della Repubblica Romana nel 1849.

A tal proposito si rispose con l’introduzione dell’assegno bancario e una maggiore concessione di circolazione di carta moneta. Questa iniezione di liquidità nell’economia contribuì sensibilmente all’abbassamento dei tassi d’interesse applicati sui prestiti. Inoltre vennero ridotte le pene sulla bancarotta e sui debiti; insomma, gli Stati europei si stavano adoperando giuridicamente in maniera tale da consentire un facile accesso al credito per incentivare forme di industria associativa, tali da poter operare su scala sempre maggiore, fattore centrale della nuova economia di mercato.

Tutti questi cambiamenti negli assetti giuridici ed economici rappresentavano un carattere di modernizzazione indispensabile per qualsiasi paese che volesse competere ad armi pari con la terra natia dell’economia e dell’industria moderna, l’Inghilterra. Inoltre, il progresso tecnico-scientifico iniziò a mettere a disposizione sul mercato per i produttori due nuovi settori d’impresa: la chimica, e la meccanica dei motori a combustione interna.

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